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Antonia Pozzi e la parola infinita

Maggio 12
16:24 2010

13 febbraio 1912, 3 dicembre 1938. 26 anni, quasi 27. Antonia Pozzi una giovane donna, una giovane poetessa che ha scolpito nella pietra di un breve arco di tempo poesie infinite, immortali. Succede di leggere o vedere qualcosa e di innamorarsene perché si sente vicino al cuore, alla mente. Tutto cominciò anni fa per gioco, da una sua poesia pubblicata su una rivista femminile. Rimanere stupiti perché si ritrovano tracce, segni, contenuti che sono propri. Da lì o qui, grazie alle riedizioni aggiornate negli ultimi 20 anni, conoscere tutto di lei, con semplicità, gusto e chiarezza. Una nitidezza da far sbalordire in un panorama, quello poetico, di talvolta impervia comprensione. Ed ancora più difficile da capire il mondo critico che ruota attorno ad un poeta ed al suo lavoro. Il suo impegno è stato un ininterrotto canto elegiaco mai troppo pesante ma, soprattutto, libero e profondo. La sua poesia è stata «personale e generazionale». Liriche ricche di un senso di indefinito e di malinconia ma che esprimono un incessante desiderio di verità mai possedute. Scriveva la Pozzi: «Tutto vuol essere mobile, convertibile, aperto; siamo come in una matassa di fili sciolti e intersecantesi che vanno, certamente, verso una meta compatta, un gomitolo solo, ma nessuno può e vuole vedere dove esso sia».L’atto poetico può così aiutare a superare il disperato dolore, proprio perché accoglie nel suo svolgersi la tensione dell’esperienza vitale. Nel suo solitario impegno di poesia, la Pozzi ricerca la parola semplice, scarna, essenziale in molti casi. La sua è un’osservazione precisa. Se parola deve essere sia ma che esprima quello che deve e, soprattutto, vuole dire. La costruzione del«verbo lirico» vede l’alternarsi di versi brevi e scattanti a versi lunghi. Le immagini sono sempre chiare, limpide, nette anche quando le metafore si fanno ardite. Piena è la fusione nella sua scrittura di sensazioni ironiche gozzoniane, umili del Corazzini e piccole crepuscolari («’O lasciate lasciate che io sia/una cosa di nessuno/ per queste vecchie strade in cui la sera affonda…»). Ed ancora verso libero e ricordi di Ungaretti. «Scrivere per la Pozzi sarà sempre dar voce alle ombre di un universo sotterraneo, ai silenzi d’abisso alla sterilità delle nebbie, delle fosse, delle croci…». «Perché non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per un’adesione innata, irrevocabile, del più profondo essere, io credo alla poesia. E vivo della poesia come le vene vivono del sangue». Brevemente a concludere, in alcune lettere datate 1933 al poeta Tullio Gadenz, Antonia diceva: «Perché la poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo, nella suprema calma dell’arte…La poesia è una catarsi del dolore, come l’immensità della morte è una catarsi della vita. Quando tutto ove siamo, è buio e… l’anima penosamente sfiorisce, alla allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime e sa dire quello che a noi grida, imprigionato, nel cuore…». Da questa netta e vivida adesione alla poesia, al credo poetico non poterono non nascere, alla fine, le ultime parole toccanti, sempre rivolte al Gadenz,: «… Il libro più bello del mondo finisce, e dopo l’ultima pagina non si può chiedere che altre ne vengano aggiunte; ma il libro vivo di un’anima non finisce mai»

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