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Belli, buoni o intelligenti?

Ottobre 04
23:00 2008

Viviamo nell’epoca dell’immagine: tutto ruota attorno alle immagini, così come un tempo si faceva ruotare tutto l’universo attorno alla Terra. I libri scolastici sono costruiti attorno alle immagini, i media più diffusi comunicano per immagini, le riviste, anche quelle culturali che più ne potrebbero fare a meno, sono farcite d’immagini. Un ottimista colto penserebbe che tutto ciò è positivo, perché lo considererebbe un ritorno a quell’arte del «pensare per immagini» già nota agli antichi egiziani («prisca Aegyptiorum sapientia», la chiamava Giordano Bruno), com’è testimoniato dalla loro stessa scrittura per geroglifici, e ancora oggi «fonte segreta del pensare», secondo Umberto Galimberti. Certamente, l’immagine ha un’immediatezza comunicativa che non ha pari per efficacia ed economia di pensiero ed è il seme delle più profonde elucubrazioni del pensiero scientifico e filosofico, nonché di qualunque manifestazione artistica. Tutto questo è verissimo, ma l’ottimista colto che facesse queste sagge riflessioni si trasformerebbe subito in pessimista colto se si soffermasse a considerare il fatto che le immagini che scatenano il «pensiero per immagini» nascono in noi spontaneamente, dal nostro subconscio e dalla «nostra» rappresentazione del mondo, che deriva dalle «nostre» esperienze, mentre le immagini da cui siamo sommersi nella nostra società ci sono imposte dall’esterno, spesso con violenza più o meno sottile, e non sgorgano dal nostro io come fresca acqua sorgiva. Insomma, le immagini sono quella misteriosa e insostituibile scintilla del pensiero quando sono «nostre», mentre finiscono con l’atrofizzare la nostra facoltà pensante quando le subiamo passivamente. Il nostro cervello, non più stimolato ad essere attivo nel processo cognitivo, si assuefà ad accettare passivamente, e quindi acriticamente, tutto quanto ci viene comunicato per immagini, la funzione creatrice della fantasia diminuisce sempre di più, perché rischiamo di diventare, nel migliore dei casi, serbatoi di stoccaggio di migliaia d’immagini, fra le quali non riusciamo più a trovare o inventare nessi. E’ inutile minimizzare, oggi la società celebra, in tutti i modi, la «dea immagine» e di questo abbiamo prova in ogni occasione: nelle manifestazioni culturali, nella cronaca del vissuto quotidiano, negli strumenti multimediali di cui ormai sono «equipaggiati» i libri per i nostri ragazzi, nella pubblicità, nel costume, nello stesso comportamento dell’uomo (ognuno di noi tende a costruire e mantenere una certa «immagine» di sé da esibire in pubblico), nella sfera più intima della nostra vita di relazione, l’amore. Avete mai sentito parlare di una donna felice perché ha conosciuto un uomo intelligente? Meno che mai, poi, sarà entusiasta perché ha incontrato un uomo colto. Già l’espressione sa di «vecchio», forse perché l’essere colti è «anacronistico», non è in linea con i tempi, fa venire in mente «omuncoli» fisicamente tarati dai troppi anni di studio o, forse, dediti allo studio proprio perché scacciati da madre Natura dal paradiso dell’avvenenza fisica, mentre l’immagine dell’uomo che televisione, cinema e altri media ci danno è quella dell’uomo aitante, bello anche se mediamente rozzo e incolto. – Sai, ho conosciuto un bell’uomo – confida una giovane donna all’amica e al massimo dirà: – E’ un uomo interessante e ben posizionato -. E gli uomini non sono certamente migliori delle donne: – E’ proprio una bella donna! – Avete mai sentito dire da un uomo che si è innamorato perché ha conosciuto una donna intelligente e tanto meno brutta? Gli uomini meno superficiali diranno: – Non è bella, ma è una donna di classe, elegante. – Soltanto quelli di pretese più miti si accontenteranno di consolarsi constatando che la donna che hanno avuto la ventura d’incontrare è «sensibile» e «affettuosa». Anche l’aggettivo «buono» sembra non godere di molta fortuna negli apprezzamenti di un sesso sull’altro e quando ciò accade, la cosa non è proprio così lusinghiera: – E’ ……., però in fondo è un buon uomo. – E quel ‘buon uomo’ suona come qualcosa di consolatorio, una concessione che si fa marginalmente per stemperare tinte meno gradevoli della sua personalità. Spesso un «buon uomo» è un «povero sfigato», che non avendo da esibire qualità primarie per l’altro sesso (bellezza, soldi, potere) deve accontentarsi di essere gentile, sempre accondiscendente, premuroso, comprensivo, insomma «mansueto» come un cagnolino da salotto e disposto a dare senza nulla chiedere. La stessa espressione riferita al gentil sesso, poi, evoca l’immagine sciatta di una semplice massaia, senza pretese, se non quella di trovare un povero cristo che la mantenga o le faccia sfornare qualche pargolo, dandole così la sua ragion di vita: – E’ una brava donna – come dire che sa stirare e accudire alla casa e ai figli, ma…le manca quel pizzico di sex appeal che scatena l’attrazione. Anche l’intelligenza, quando viene riconosciuta, è qualità di compensazione all’assenza della qualità primaria per eccellenza: Sua Maestà «la Bellezza». – Poverino, è bruttino, però è tanto intelligente – ci si affretta ad aggiungere. Insomma, giù la maschera: la qualità che noi tutti ricerchiamo con segreta ingordigia è la bellezza, ma molti non hanno l’onestà di ammetterlo, e se sono religiosi diranno che ciò che importa è il cuore, mentre se sono intellettuali tuoneranno indignati che non conta la bellezza ma il cervello! E ancora una volta, davanti al paravento dietro cui sogghigna divertita «monna bellezza», il religioso e l’intellettuale si danno tenzone su sentimento e ragione, ma tra un tiro e l’altro entrambi sbirciano dietro il paravento…

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