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Chiacchierando con Domenico, una domenica mattina

Chiacchierando con Domenico, una domenica mattina
Marzo 26
07:50 2013

chiacchierandoHo voglia di un caffè ed entro in un baretto di periferia. Il bar è vuoto e qualcuno sta parlando da solo dietro al bancone. Sta recitando il rosario delle mille disgrazie che ci stanno levando a tutti la forza di vivere. Aspetto qualche minuto non volendo interrompere uno sfogo così tremendamente calmo e solitario.

Poi tossisco piano, sposto leggermente una sedia. Si affaccia da dietro la macchina del caffè un signore sorridente che cordialmente mi saluta. Mi prepara il decaffeinato e lo macchia con il latte caldo e schiumoso, come piace a me. Lo bevo lentamente nel silenzio del locale vuoto. È domenica mattina, e non c’è in giro un cane. “Se continua così andiamo a sbattere”, dice il barista bussando ad un portone spalancato. E attacchiamo così una conversazione tendente al disperato. La barca fa acqua da tutte le parti e nessuno – di quelli che contano – che si dia pensiero d’individuare falle e rimedi. E l’acqua sale e la barca oscilla sempre più pericolosamente. In mare aperto, in acque infestate dagli squali a sembianze umane. Un incubo. “Ci hanno ridotti a niente”, dice il barista, come annunciasse che se oggi è domenica domani sarà lunedì. “Tanti sacrifici, tanto lavoro, tante speranze, e pure quelle ci hanno levato”. E si scusa con un sorriso se stamattina proprio non ce la fa a essere ottimista. E figuriamoci se non lo capisco.
Entro in argomento e rincaro la dose. Non riferisco per non appesantire il lettore con considerazioni che fanno cadere le braccia e non solo. Andiamo avanti così, il barista ed io, come profughi in attesa di un salvagente. Niente da fare, passano i minuti, passa il quarto d’ora, e nessuno che si affacci sulla porta e chieda almeno un bicchiere d’acqua. “Questa attività è stata sempre sicura, un caffè se lo possono permettere tutti e pure il litro di latte. Adesso se va bene ci copro le spese”. Un barista si alza la mattina all’alba e rientra la sera con le ossa rotte e la testa in frantumi. Col cliente ci devi dialogare, chi consuma al bar chiede relax e conforto. “Tutto a conduzione familiare, non ti puoi permettere nemmeno un raffreddore sennò la baracca va a rotoli. Un dipendente non lo puoi assumere sennò devi lavorare per tenerlo in regola, e se il lavoro non c’è? E va a finire che ti becchi pure qualche vertenza. Io da ragazzino ho fatto tutti i lavori che mi capitavano per una mancetta e qualche scappellotto, ma erano altri tempi e Dio ci scampi dal tornare indietro. Ma qui non si va né avanti né indietro, siamo rimasti impantanati in un vicolo senza uscita”. E mi guarda, speranzoso che io lo possa in qualche modo smentire, ma non ci provo nemmeno. “E i giovani d’oggi, che esempio prendono? Quello del padre che non sa farsi valere in questa società di furbi, o quello dei governanti che ci mandano avanti a bastonate e senza carota?”
E mi guarda, chiedendo scusa con gli occhi se mi sta mandando di traverso il decaffeinato, non potendo immaginare che tutto quello che lui sta dicendo io lo vado pensando ormai da troppo tempo. “Siamo un popolo vinto, senza più dignità”, dice il barista, e mi sento arrivare come un pugno nello stomaco. “Scusi, come si chiama?” gli chiedo e intanto mi presento. Il barista si chiama Domenico ed ha circa la mia stessa età, siamo figli della guerra e ne abbiamo passate di tutti i colori, e non ci siamo mai lasciati sopraffare dagli eventi. Ma adesso è diverso, non c’è possibilità di rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro, siamo preda di un’illusione collettiva che si è risolta con lo scoppio di una crisi senza precedenti e tutto è sfumato come una bolla di sapone troppo gonfiata. Però, caro Domenico, l’ultima cosa che hai detto proprio non l’accetto. E ti ribatto: “Noi siamo italiani, con tutti i nostri vizi e difetti, ma anche con una umanità e una forza morale che nessuno finora è riuscito a levarci. Certo è dura, ma ce la faremo, basta ricordare chi siamo e puntare avanti.” Domenico mi guarda riconoscente, alza con uno scatto la testa e le spalle nemmeno gli avessi dato l’attenti. E ci lasciamo così, con una speranza necessaria contro l’abbacchiamento generale. Uscendo noto un poster di Peppino Impastato e mi tornano in mente le parole della madre Felicia: “Non chinare mai la testa.”

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