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Considerazioni su una silloge poetica

Gennaio 30
17:38 2019

“Il passaggio segreto dei pesci volanti” di Alessandro Masi

Se sono ancora validi i dettami estetici di Orazio (“Epistola ai Pisoni”), di Boileau, Samuel Johnson, Leo Spitzer, Luigi Pareyson etc., come infatti lo sono, tutto ciò che presenta il mondo in modo alternativo, vale a dire nuovo nella visione, appartiene alla creatività, cioè alla poesia in senso vasto ed etimologico.

A me è parso, rileggendo la raccolta breve e intensa di Alessandro Masi, che l’autore abbia fatto un condensato delle sensazioni, asciugando le parole come un bellissimo telo al sole d’agosto. Mi spiego. Le liriche (ché tali debbono essere definite) forse erano più estese nel dettato interiore di Masi, il quale, edotto da letture antiche e recenti (dalla corda musicale greca a quella italiana dei primordi, fino ai recenti lavori del nostro e dell’altrui Novecento), ha ritenuto di seguire la lezione alfieriana, cioè quella di ridurre, la sera, a dieci i novanta-cento versi scritti (o pensati) durante la giornata. La sottrazione giova alla scrittura: la condensa; l’addizione no: la diluisce.

Ciò premesso, posso anche ritenere che il lavoro di sintesi abbia avuto scaturigine involontaria, ma questo non cambia la resa, che è quanto conta nella produzione di qualsivoglia autore.

Si tratta di una raccolta molto breve, giocata su un’osmosi efficace musicalmente di ipermetri e ipometri, raramente intessuti in stanze tetrastiche, preferendo il distico e soprattutto la stanza ternaria, da cui scaturisce una sonorità in piena armonia col battito interiore: ciò ha una rilevanza altissima nell’impatto metrico, se è ancora valida la norma antica (e mai negata del tutto) di una musicalità inscindibile dalla parola.

Ma veniamo a un’esegesi dettagliata delle tredici composizioni che si snodano come un poemetto legato a un filo invisibile, con un denominatore comune delle poesie che potremmo indicare in tre punti-chiave: la madre (o il suo senso di sublimazione e dolore della vita); la passione (che non è necessariamente legata all’amore in senso corrente); l’indicibile (altri chiamerebbero mistero quanto rimane sospeso nelle pause, negli stacchi, nelle parole plurisemantiche, nei sintagmi a senso sospeso e per ciò stesso più universale).

Ma quali atmosfere si percepiscono in questi versi? Vediamole, come è possibile (e sempre in modo approssimativo) rintracciarle in una poesia che disfa il quotidiano, la sintassi e la regola morta per ricreare nel linguaggio (tramite primario) lo stile (che è impulso biologico inconscio: e fa da spia a chi sa leggere il non detto, “sotto il velame” che necessariamente ogni sensazione profonda riproduce specularmente, a riflesso, onde ricreare nel lettore la pulsione originaria che ha portato il poeta a scrivere). Allora possiamo tentare di tradurre, forse spiegare, le metafore, ma lasciando al lettore la passione di esse (“C’incamminammo nell’umida notte della morte”: quindici sillabe scomponibili in un quinario piano addizionato a un decasillabo epico avendo l’accento tonico sulla quinta sillaba), sottolineando la forte azione della parola, l’impatto della metafora. L’undicesimo verso ha una costruzione metrica bellissima: “Come trecce affiorano tutt’oggi i ricordi”. A parte la potenza dell’immagine, il verso, di tredici sillabe, piano, è una fusione di un settenario sdrucciolo (“Come trecce affiorano”) con un senario piano (“tutt’oggi i ricordi”). Ma in “questa terra odorosa del frutto d’amore” (originalità di costrutto interno e di allusività virtuale), Masi afferma, in un distico “tremendo”: “Fu lì che pensai mia madre/ fu lì che scelsi mia madre” (quella madre –parola/chiave) che ritroveremo nella decima poesia, “Un solito posto”, messa lì come una pietra infuocata, in una strofa tetrastica dalle varie combinazioni metriche (dal settenario piano al novenario tronco, alla chiusa di quaternario sdrucciolo).

“Che di dire la verità/ è impossibile”: non recita, ma scava dentro. La poesia di Alessandro Masi non si basa sulla declamazione delle proprie sensazioni, ma sul trasferimento di esse nel cuore e nella ragione del lettore. Non è una liricità “detta”, ma una poesia reale: essa è. La dichiarazione esiste: “A noi che siamo amanti e teneri alle nostre passioni”: verso bellissimo, ambiguo, direi polisemico, ove il mito diventa contrasto della realtà vissuta, e sogno, vale a dire gioco onirico, di attesa, ma un’attesa trepidante dello svolgimento di ogni pulsione che pare un vento di marzo “che femmine fanno perfino le spore dei fiori”. Ripeto: non è una poesia declamata, ma riconducibile, per allegoria e dettato, a questo verso (“Di sera”): “Il lago di sera ti affonda una spada nel petto”. Tu, lettore, ricevi immediati tutti i sentimenti che lo specchio lacustre fa esplodere nell’intimo dell’autore. Un solo verso, un unico battito lirico: e tu rimani preso dall’emozione, convivi con quella “spada nel petto” che porta con sé mille pensieri, infinità inspiegabili (e necessariamente non riproducibili con sinonimi), sentimenti e pensieri. Leopardi stesso diceva che la poesia non deve specificare troppo, per non limitare l’immaginazione (oh, le tenerissime poesie di Tasso, l’illuminazione d’immenso d’ungarettiana memoria, il brivido campaniano, l’ipermetro narrativo di Cesare Pavese, il battito onirico, prepotente d’un Baudelaire nel verso “Stanotte ho scoperto il passaggio segreto dei pesci volanti”, o la memoria fatta visione e sinestesia!). Il punto più lirico della raccolta, secondo il mio scandaglio, è il seguente: “Solo oggi ricordo di quei pomeriggi/ come fragole di primavera/ quando i tuoi occhi di profonda luce/ sfioravano i silenzi”, sebbene il punto di “non ritorno” appartenga, per perfezione scritturale, alla poesia numero sette, titolata “Danzando”, ove il leit motiv della madre ci accentra in accorati ipermetri per chiudersi  con un senario tronco di grande effetto: “Anche mia madre si asciugò il sangue dalla sua anima/ rivolgendosi a me con sguardo d’amore. // A quale terra appartenesse il canto della sua lingua/ come un sibilo di serpente/ non lo disse mai. // Danzando, morì”. Ma dove noi troviamo il coagulo doloroso della vita che fugge, ed illumina in scenari vangoghiani il tempo delle favole e delle memorie, è l’altissima lirica “Un’estate”, in cui la malinconia panica non cede al rimpianto, ma crea quasi sensualmente (in significazione elevata) il “non detto che esplode in sensazioni potenti”.

Dichiaro, da lettore accanito quale sono, che questa silloge, brevissima, tesa alla conclusione come se l’autore avesse fretta di giungere in un porto neppure accennato e forse neppure cercato, è una delle più originali e penetranti, specie in questi anni avanzati della mia veneranda età.

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