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Cuore di orso

Settembre 01
02:00 2007

Per concludere la riflessione sui guasti di un potere totalizzante e occhiuto, che produce e allo stesso tempo si alimenta della cultura del sospetto (delineata già a partire dalla tragica metafora dello stalinismo in Orwell, attraverso il film Le vite degli altri nella Germania del muro), vorremmo menzionare Winkie, opera prima di un giovane scrittore americano, Clifford Chase, che declinando lo stesso tema, apre però una quinta sullo scenario di un paese democratico, L’America post-torri gemelle, sconvolto dalla percezione inaspettata della propria vulnerabilità dopo l’attacco portato nel cuore pulsante del paese. Ecco quindi risvegliarsi nella lotta al terrorismo quella sopita tentazione maccartista per cui diventa ipso facto sospettabile e perciò colpevole chiunque risulti in qualche modo non omologabile: Winkie appunto. E fin qui tutto regolare. Se non fosse perché Winkie, sospettato di essere autore di centinaia di attentati con lettere-bomba, è un orsacchiotto di peluche. E anche piuttosto vecchiotto e malconcio per essere passato nelle mani di diverse generazioni di bambini, fino all’ultimo proprietario, Cliff appunto, con la cui deposizione al processo si apre la storia. Attraverso una serie di flash-back viene ricostruita la vicenda di Winkie che, fecondato dall’amore e dal desiderio dei suoi piccoli proprietari, all’improvviso acquista vita propria. Dalle braccia della bambina Ruth indietro, alla apertura degli occhi meccanici alla luce del grande magazzino in cui fu esposto in vendita, nella scatola odorosa di pino, metafora del ventre materno, e ancora prima nella fabbrica in cui fu costruito. E poi avanti nella sua vita di giocattolo, abbracciato, amato, dimenticato su scaffali polverosi, e poi di nuovo ripreso, riamato, fino ad attingere la vita vera, il movimento, la parola. Fino alla fuga nel bosco dove, assaporando la libertà, genera a sua volta una piccolina, frutto di partenogenesi (perché di Winkie è impossibile stabilire il sesso). Ma la bellezza della sua piccolina attira l’attenzione dell’eremita nel bosco, che la rapisce e la conduce nella sua capanna dove cerca di addestrarla finché lei, consumatasi nella cultura che lì acquisisce, non sceglie di spegnersi per sempre ‘come una lucciola’. Impazzito dal dolore, Winkie uccide l’eremita, vero artefice degli attentati, e resta nel suo capanno fino al momento in cui, con grande spiegamento di forze, viene catturato dall’ispettore-capo e, ferito, viene curato e poi condotto al processo. La straniazione generata dall’applicare ad un giocattolo parametri e comportamenti destinati ai viventi, la parodia dell’efficientismo e del legalitarismo statunitensi, l’insicurezza di fronte al fantasma incombente del terrorismo di matrice orientale e islamica sono sicuramente i punti di forza di questo libro curioso e candido. Meno riuscita invece la metafora di una rousseauviana opposizione natura-cultura nel cammeo della piccola Winkie. Posticcia anche la conclusione in cui Winkie, in attesa di nuovo processo, fugge al Cairo con l’inserviente lesbica che gli ha ricucito le ferite, risultando poco credibile una fuga verso la libertà che abbia come meta paesi permeabili al fondamentalismo e comunque fortemente reattivi verso l’omosessualità considerata reato e punita con pene severe. Più convincente invece l’autore dove tocca le corde delicate del sentimento e del martirio, cui non può sfuggire neppure un piccolo povero cristo in una società accecata dal terrore e dal pregiudizio.

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