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DANTE. Cenni sul libro di Alessandro Barbero

DANTE. Cenni sul libro di Alessandro Barbero
Agosto 12
19:09 2021

«Basta ricordare che le feste cristiane, in continuità con la tradizione ebraica, cominciano al tramonto della vigilia per concludere che Dante dev’essere morto nelle prime ore della notte fra il 13 e il 14 (settembre, ndr). Quella notte, il profeta andò a scoprire se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero».

Il libro “Dante” di Alessandro Barbero (Laterza 2020, pp. 362, euro 20,00), celebre storico, conclude così. E voi direte: un testo si recensisce dall’inizio, non dalla fine. È osservazione pertinente; sennonché, ho scelto questo procedimento per due esatti motivi: primo, l’incertezza di quasi tutte le date riguardanti la vita del Poeta (infatti, anche sul “transitus animae”, che ora si situa nella notte fra il 13 e il 14 settembre, il Villani scrisse che Dante era morto nel mese di luglio 1321); secondo, il sintagma finale, che è una “spia” della sostanza del libro (bello, interessante, documentatissimo com’è nello stile di Barbero).

Se Dante deve andare a verificare quanto ha visto nell’immaginazione da vivo, significa che Barbero ha voluto farci intendere qualcosa. Infatti, nella sua documentata ricerca intorno alla travagliata e oscura vita dell’Alighieri, emergono tanti dubbi su certe affermazioni ormai passate per indiscusse; non solo: se al Poema Sacro si accostano i corollari (e cioè non solo le opere minori di Dante, ma la letteratura epistolare), l’assoluta coerenza del Fiorentino viene a subire qualche scossone. È il caso delle lodi e dei biasimi su taluni personaggi e casati che hanno accolto l’esule, e dei quali Dante aveva parlato male in alcuni ambiti e bene nel suo capolavoro (o viceversa). Insomma, pure lui doveva campare (e si leggano i canti di Cacciaguida, dove il Pellegrino confessa al trisavolo il suo atroce dubbio sul tacere o sul raccontare quanto ha visto specie nei primi due regni: papi e vescovi all’Inferno, potenti condannati alle pene eterne o a quelle passeggere ma non meno pesanti del Purgatorio… Se taccio, dice Dante, perdo “il nome che più dura e più onora” presso coloro “che questo tempo chiameranno antico”, ma se parlo, posso perdere il pane, seppure salato e non sciapo come invece si usava dai fornai fiorentini).

Cari lettori, le 350 pagine del prof. Barbero le ho segnate con chiose a margine e sottolineature a matita con punti esclamativi di approvazione, e pochissimi dubbi strettamente personali. Devo confessare che tre capitoli li ho riletti per la loro importanza: Barbero sa come distinguere il certo dall’incerto, e lo fa notare con garbo e sottile ironia.

Lo spazio di una recensione è sempre inadeguato ai testi di grande valore. Lasciatemi dire che la lettura è fin troppo fruibile data la precisione notarile (e lo ritengo un complimento) con cui l’autore precisa tempi, persone, avvenimenti (vi indico di approfondire i rapporti parentali del Poeta con i prossimani, specie col fratellastro Francesco). Appare vivace un periodo in genere poco conosciuto: la fine di quel dibattuto Medioevo con le sue leggi e le sue abitudini, i rapporti umani oltre le guerre quotidiane, e la superba tessitura di una civiltà che ha salvato il mondo antico pur essendovi subentrata con diversa (se non opposta) etica.

Barbero non si ritiene un “dantista” (quando riporta notizie da controllare o da prendere sul serio, o commenti specie di antichi esegeti, usa la parola “i dantisti”, chiamandosi fuori), ma lo è, invece, perché dal suo dettato si evince che non solo ha studiato il Poema Sacro, ma ha avuto contatto fertile con il Monarchia, il Convivio e le altre opere dantesche, nonché un dialogo “verificante per confronto” con i biografi più accreditati del Poeta, da Boccaccio (che qualche cosa la inventa di sana pianta, ma sempre su testimonianze orali) a Leonardo Bruni etc. E molte cose in dubbio anche fra noi amatori del Divino Poeta vengono chiarite, o almeno rimesse in discussione (certo, quel “vico degli strami” a Parigi, mi lascia sempre senza fiato, date le estreme difficoltà di spostamento dei tempi e la povertà in canna di Dante: in caso positivo, avrà ascoltato i ricordi degli allievi di Sigieri di Brabante, grande filosofo averroista, insegnante di logica in quella università, il quale “silogizzò invidiosi veri”; Dante lo pone accanto – nella beatitudine celeste – ai suoi nemici terreni, quale san Tommaso ad esempio. Rimangono tante cose sospese nel dubbio, come le datazioni di composizione della “Commedia”.

Per dirla a cuore franco, l’Alighieri si prende tante libertà in fatto di teologia, ficcando fra i canonici di santa madre Chiesa anche quelli che Essa vedeva di malocchio, come “il calavrese abate Gioachino/ di spirito profetico dotato”, probabilmente il responsabile dell’autoesaltazione di Dante a identificarsi come il “profeta dell’età dello Spirito”, il quale scrive, per ordine divino, un “quinto evangelio”).

Leggete soprattutto i capitoli “Il clan degli Alighieri”, “Dante e gli affari”, “I misteri di Verona”, “Enrico VII”; vedete bene cosa rimane del bel verso del grande poema di Foscolo (forse l’opera italiana più intensa dopo la “Commedia”): “E tu prima Firenze udivi il carme / che allegrò l’ira al ghibellin fuggiasco”: l’ipotesi che i primi canti dell’Inferno fossero stati scritti a Fiorenza prima dell’esilio, ormai non è più credibile. 

Insomma, per non tirarla a veglia, confesso che questo libro è uno dei frutti più utili dati dalla pianta del settimo centenario della morte del nostro Divin Poeta.

Barbero ha evitato la tentazione (che, invece, ha preso molti sotto mentite spoglie) di commentare la “Commedia”, rimanendo con suprema autorità nel suo campo: la storia, storia di un genio e d’un’epoca. Ma al di dentro del tessuto fittissimo di notizie e dati verificabili e documentati, io vedo anche quello che si definisce un ”dantista”. Non è ironia: è ammirazione per la misura e la saggezza di un’opera colta, anche simpatica, e redatta con mano di arguto scrittore.

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