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Della poesia: soglia epifanica e musica essenziale

Ottobre 01
02:00 2007
La poesia è la chiave capace di aprire i cuori per liberare tutti i colori che contengono: capace di scardinare la resistenza opaca e ottusa della materia, per sviscerarne il segreto più intimo, il mistero profondo che trattiene. Tutte le cose sono “piene di dei”, pensavano gli antichi greci. Parafrasandoli, potremmo dire che son piene di musica: nel senso che è la musica il “vettore” maggiormente in grado di tradurre, ai nostri sensi limitati, le vibrazioni della loro energia fondamentale. Tutto l’universo palpita e respira come un organismo – se ascoltiamo bene possiamo sentirlo.
Chi è dunque il poeta? Colui che può riconoscere in Orfeo il suo prototipo eterno. Orfeo: il mitico cantore tracio che ammansiva le fiere e incantava la natura con la sola forza della voce e l’armonia suprema della sua musica. Il poeta, nel ricordo del mito che incarna, è chiamato ad essere una specie di mago, un “orfico seduttore”: uno insomma che “ci prova” con la realtà, che tenta di sedurre le cose, di indurle a donarsi, a concedere il proprio nocciolo di energia fondamentale, la scintilla di divinità che custodiscono gelosamente alle radici del loro mistero. Perché la realtà, per quanto “bisbetica”, può essere felicemente, benché non facilmente, “domata”: tutto dipende da come il poeta sa esercitare, con quali e quante arti, questa sua intensa e assidua opera di seduzione. Come una donna, la realtà non resta indifferente alle attenzioni: così, tranne che in rari casi, finisce per concedersi. A chi la guarda meglio. È un attimo improvviso che, nell’offerta del suo portato, si staglia con l’impronta di un miracolo. Come una bacca vergine e deiscente: la scorza si apre da sola, quando meno te lo aspetti, e lascia baluginare – tremenda nel suo splendore – la “cosa” imperscrutabile che accoglie, cioè il mistero stesso che la sostanzia. È un attimo fuggente, certo, ma basta a fare della poesia quello che essa realmente è: epifania, scintilla di rivelazione.
È allora che il poeta varca la “soglia epifanica”, ovvero il suono del silenzio, il confine dell’indicibile. Sono “attimi eterni” che tutti attraversano, non solo i poeti (nella misura stessa in cui la poesia è qualcosa che tutti ci riguarda): istanti che a loro volta ci attraversano, in cui ciascuno di noi sfiora la comprensione di tutto, riprendendo contatto, nelle proprie, con le radici interne del cosmo, con l’invisibile, con l’assoluto. È allora che “qualcosa” ci passa attraverso, nel mentre stesso che nasce, sgorga e sale dall’interno più profondo, dal cuore originario del nostro essere pensante: parole, immagini, echi, aloni, alchimie, musiche… catene di ritmi e di suoni… Il poeta è “semplicemente” colui che non lascia passare questo “qualcosa”, e che anzi vuole coglierlo e fermarlo, perché anzitutto sarebbe un peccato disperdere tale e tanta ricchezza originaria; poi perché precisamente a questo lo chiama la propria natura costitutiva, la propria vocazione: non potrebbe comunque esimersi o fare altrimenti – e non sa spiegarne il perché! Il poeta è dunque, nelle diverse fasi del suo procedimento conoscitivo, rispettivamente “raccoglitore”, “decriptatore” e “comunicatore” di epifanie. È un’energia immensa, sconfinata e, con ciò, pericolosa, quella che lo pervade. È la forza originaria dell’essere. Egli cade in una sorta di trance creativa, come uno sciamano quando entra in comunicazione con gli spiriti. Varcata la “soglia epifanica”, il poeta non sa più – letteralmente – quel che dice: sragiona, straparla, come un folle un invasato un visionario. Nessuna Ragione è più in grado di contenerlo, se non quella oscura e occulta cui egli deve obbedire, e che gli “detta dentro”: la ragione che la poesia stessa autodetermina e a cui, riconoscendola, consapevolmente vuole appartenere. Scrive Giordano Bruno negli Heroici furori: «La poesia non nasce da le regole se non per leggerissimo accidente, ma le regole derivano dalle poesie”. E tuttavia il poeta continua a usare il linguaggio, i verbi dell’umana comprensione. È il “furore poetico” teorizzato nello Jone platonico, laddove i poeti appaiono come “ventriloqui della divinità”, tali cioè che noi, “udendoli, ci avvediamo che non essi, che sono fuori di mente, dicono così mirabili cose, ma Dio stesso, il quale per bocca loro parla a noi”. Il poeta dunque come “anello di mezzo” tra Dio e uomo; cioè, in quanto tale, come “essere leggero, alato, sacro, che non sa poetare se prima non sia stato ispirato da un dio, se prima non sia uscito di senno, e più non abbia in sé l’intelletto».
Concetti che hanno segnato, nell’arco dei secoli, lo svolgimento della tradizione “orfica” della poesia, intesa quest’ultima alla maniera di Orfeo, come “musica anzitutto”, oscuro turbine di suoni, onda ipnotica, sortilegio incantatorio, espansione lirica dei confini dell’individuo. Si pensi ancora a Shelley, grande romantico inglese, che nella sua Difesa della poesia definisce i poeti come “ierofanti di un’ispirazione non appresa; specchi delle ombre gigantesche che il futuro getta sul presente; parole che esprimono ciò che essi non intendono; trombe che chiamano alla battaglia e non comprendono ciò che ispirano; influenza che non è mossa ma muove”.
E tuttavia: non sempre il dettato poetico obbedisce a questo “entusiasmo”. Ci sono casi in cui la cosiddetta “ispirazione” abortisce, o non riesce al meglio, perché è impura, e il momento creativo disturbato o non opportuno: nessun miracolo è scontato! Più spesso si parte da un grumo informe di materia e da lì, pazientemente, si procede con gli strumenti di un accanito e incontentabile labor limae: correggere e correggere senza posa, alla ricerca della migliore resa espressiva. Anzi: è rarissima la poesia “sacramente necessitata”, che nasce già bell’e pronta, perfetta così com’è.
Il poeta non può rinunciare mai del tutto alla propria razionalità, nello stesso istante in cui si apre al massimo volume della fantasia. È un po’ come Teseo che si addentra nel labirinto per affrontare il Minotauro: ha bisogno del filo di Arianna (cioè della ragione) per uscirne vivo.
Anche per questa capacità di mettere in contatto e coniugare la parte razionale e quella irrazionale, contribuendo al riordino delle energie – e dunque agli equilibri mentali e vitali dell’uomo – la poesia è un’arte completa, meravigliosa e soprattutto utile a ciascuno di noi, poeta o non.



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