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Dentro le contraddizioni della crisi globale

Marzo 31
23:00 2009

Il collasso del sistema finanziario reticolare e l’abbandono del quadro ideologico liberista da parte degli economisti di parte capitalistica, pone il dilemma di come cercare rimedi alla recessione globale. Vediamo, quindi, riaffiorare, dopo oltre un decennio di feroce demonizzazione, il ruolo del centralismo statalista. Come scrive Giuseppe De Rita in un articolo comparso martedì 3 febbraio 2009 sul “Corriere della Sera”: «…come sempre nelle crisi violente ed inattese, la reazione istintiva si orienta alla verticalizzazione decisionale, anche perché le drammatizzazioni mediatiche spingono verso l’alto la domanda e la ricerca di adeguati interventi. Siamo quindi tutti in attesa di quel che farà il governo; di quel che faranno le grandi centrali finanziarie e bancarie; di come potranno essere risolti i problemi delle grandi imprese in difficoltà…». Fin qui le prime timide risposte sono tutte orientate a correre in soccorso dei maggiori attori che hanno determinato il crollo del modello economico neoliberista. I governi nazionali, opportunamente sollecitati dai gruppi confindustriali e dai loro media ben ammaestrati chiedono a gran voce (pretendono, diremmo) di salvare il sistema del credito per non finire di gettare nella disperazione milioni di risparmiatori e di sostenere con aiuti di stato i colossi imprenditoriali per arrestare le contrazioni delle produzioni e provare a ritardare, a ritardare, non ad impedire, i licenziamenti. Il tutto in vista di un unico, cieco, stolto obiettivo: rianimare in qualsiasi modo il declino inarrestabile del PIL. Nulla invece sembra indirizzare l’azione dei governi centrali verso la ricerca di adeguate misure a sostegno delle reali vittime di questa vera e propria catastrofe economica. Nessun intervento a sostegno del reddito, pochi e desueti ammortizzatori sociali, tagli sempre più consistenti alle residuali politiche del welfare. Il cataclisma economico pare destinato ad estendersi, ad approfondirsi, a prolungarsi nel tempo.
L’esito che potrà produrre, almeno in una prima fase, è l’acuirsi di egoismi disperati ed aggressivi, la crescita di deliri populisti che ricercano capri espiatori e nemici esterni, la riproposizione di ben note forme di repressione e risposte securitarie. Sempre De Rita, nel già citato articolo dal titolo Il localismo che fa bene, suggerisce: «…è probabile però che sia un errore non far riferimento al modo in cui la realtà locale vive la crisi, in un’articolazione di atteggiamenti e comportamenti che è più chiaroscurata delle fosche tinte usate a livello centrale».
E allora non sarà il caso di riprendere in mano quel logoro slogan, che timidamente riecheggiava nel frantumato arcipelago della sinistra, all’indomani della sconfitta del 13 e 14 aprile …bisogna tornare ai territori, bisogna ripartire dal locale…? Quei territori per decenni consegnati nelle mani avide e ciniche dei grandi gruppi finanziari e trasformati in metastasi metropolitane, piene di parchi (?) commerciali, lottizzazioni edilizie e poli industriali, centri direzionali, centrali, inceneritori: il tutto senza un progetto, un’idea, un piano, senza aver prodotto segni tangibili di economia reale, capace di garantire occupazione buona e stabile.
Un uso irresponsabile dei beni comuni consegnati ad una pretesa libertà imprenditoriale con esiti finali puntualmente disastrosi per l’ambiente e per il futuro di quelle comunità. Da questo punto di vista il caso dell’inquinamento diffuso e invasivo nella Valle del Sacco, che attraversa territori situati nelle due province di Roma e Frosinone, è la manifestazione più eclatante di questo modello economico “sviluppista”, cieco ed insensato. Se nelle nostre comunità locali restano nonostante tutto, profonde radici e identità storiche e culturali, vale la pena orientare proprio a partire da esse, nuove azioni e pratiche politiche per ricercare un modello economico e sociale altro, capace di far fronte alla recessione globale, in termini solidali. In queste realtà locali resiste il valore del tempo, dei luoghi, il piacere di conoscere e apprezzare quelle ricchezze che non producono solo merci da accumulare. Permane il gusto dei rapporti umani e solidali. In queste comunità si può tentare di ripensare il rapporto tra vita e consumo, tra bisogno di merci e godimento dei beni naturali e culturali. Una riconversione ecologica orizzontale capace di liberare il senso comune dal dominio dell’economia acquisitiva, dell’ossessione di possesso, per restituirlo alla qualità del vivere e dell’abitare. In questo ritorno alla periferia si può giocare la scommessa di una correlazione proficua tra ecologia ed economia, di cui i soggetti territoriali diventano autentici protagonisti. Tutto ciò, stiamone pur certi, vale mille volte di più (e spiega mille volte di più) della insopportabile pletora delle petulanti richieste assistenzialiste di Confindustria, degli sghembi balbettii di Tremonti (che un giorno critica la globalizzazione ed il giorno dopo si accuccia fedele ai suoi piedi), degli inebetiti deliri dei cosiddetti “economisti” e “politologi”: sempre pronti a sostenere tutto ed il contrario di tutto pur di nascondere il punto di fondamentale verità alla base della crisi che sta avanzando.
Quando l’economia si fa rappresentazione astratta, proiezione di aspettative speculative invece che di reali valori di produzione territoriale (ed in questo senso vale la pena di ribadire che il concetto di “economia globale” è un mero ossimoro), di occupazione stabile e sostenibile e di ricchezza diffusa, la sola in grado di sostenere realmente i consumi; quando tutto ciò si verifica, e si è già verificato, il collasso del sistema non è un incidente di percorso, ma l’unico esito possibile del cosiddetto mercato. Di un mercato che, di fatto, mercato non è, perché si pratica solo postulando l’esclusione dai cicli economici reali della stragrande maggioranza degli attori sociali: lavoratrici e lavoratori, imprenditoria locale, la rete complessa degli stakeholders locali, cittadinanza in primis.
Cerchiamo di analizzare la questione un po’ più in profondità, ponendoci alcune essenziali domande. È possibile considerare “mercato” un sistema economico composto di grandi interessi multinazionali che parassita le risorse pubbliche in fase di avvio, di esercizio e di crisi e massimizza i profitti, concentrandoli nelle ristrette ed avare mani di pochi capitani d’industria (e c’è pure chi li ha definiti “coraggiosi”)? Può essere considerato sostenibile un tale sistema, non solo nel lungo ma anche nel medio periodo, che scarica tutti gli aggravi della dispersione energetica dovuta alla movimentazione su base multinazionale dei beni e della captazione delle risorse, sui territori, aggirando le responsabilità ambientali, i diritti del lavoro, a partire dalla sicurezza, comprimendo gli ammortizzatori sociali, deprimendo i livelli salariali?
La risposta non può che essere negativa ad entrambe le domande. Tornare, dunque, ai territori non deve essere considerato come semplice istanza di partecipazione allargata, di base, democratica. Tornare ai territori significa, innanzitutto, riconoscere alla complessa rete degli stakeholders locali la loro prerogativa e priorità nella ridefinizione degli assetti economici ed occupazionali. I territori reali, i loro carichi antichi e saggi di storie, tradizioni, culture, modalità di accesso ed uso delle risorse configurano un’economia cento volte più concreta, praticabile e sostenibile di quella proposta sinora dal libero mercato, dalla circolazione indiscriminata di beni, risorse e lavoro che, di fatto, si è sempre tradotta in circolazione indiscriminata di molti profitti nelle mani di pochi. Il cambio radicale di prospettiva di cui la sinistra di questo paese deve coraggiosamente sapersi fare promotrice consiste nell’individuare i territori, le loro economie locali, a filiera corta, non come terminali della crisi imperante, il luogo in cui si scaricano disoccupazione, mala gestione dei servizi e deliri tardo-industrialisti, ma come il reale ammortizzatore della crisi.
Ancora una volta, ancora di più, l’ecologismo si configura non come un pensiero da anime belle, borghesi, agiate, ma come il punto di caduta definitivo del conflitto, annoso e da sempre attraversato da vene ricattatorie, tra capitale, lavoro e qualità della vita. In un gioco continuo nel quale si è considerato l’aggravio delle sorti ambientali come prezzo da pagare all’occupazione o, viceversa, la salvaguardia dei territori e delle sue vocazioni naturali, microeconomiche, come deprimente dello sviluppo e del lavoro. Si tratta, in sintesi, di reagire all’ipotesi, portata avanti con lucida ferocia da Confindustria e dalla rete politica trasversale che ad essa fa continuo riferimento, per la quale il costo definitivo della crisi lo debba pagare la cittadinanza ed i lavoratori. Per contro quella che a nostro avviso deve essere uno dei portati più potenti del pensiero della nuova sinistra italiana, il fondamentale della linea politica in materia economica, vogliamo sia una proposta forte in direzione della contrazione dei cicli economici, del risparmio consistente sui costi energetici per la movimentazione delle merci, della nascita di forme auto organizzate di nuovo lavoro cooperativo che trattenga la ricchezza prodotta negli ambiti locali. Lavoro che si struttura sulla valorizzazione delle vocazioni autentiche dei territori, agricole e turistico/culturali, abbandonando recisamente l’ipotesi industriale.

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