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“Dentro l’uragano” di Franco Campegiani

“Dentro l’uragano” di Franco Campegiani
Novembre 09
08:38 2021

Devo confessarlo: non è facile mettere mano alla prefazione di “Dentro l’uragano” del poeta e filosofo Franco Campegiani, nonostante io conosca tutta la sua opera, seguendo fin dalla giovinezza il lievitare del suo pensiero e l’innesto di esso nel verso. A una lettura a caldo, che poi ho ripreso per un approfondimento, mi ha investito una prorompente energia vitale, come una forza delle cose, un tutt’uno con la terra madre, rapitrice e rigeneratrice. E’ tale “urto” che mi ha spinto a proseguire d’un fiato nella lettura, per tornarvi con minore coinvolgimento emotivo onde esplorare i segreti di tanto fascino: un “urto” epico, che già si addensa nella prima lirica “Lettera a Pasolini”, dove Campegiani osserva che s’è disseccato per sempre il fiume del sacro primordiale: e a me sembra che la primordialità sia un’essenza-chiave, una sorta di innesto vitale nel pensiero di questo autore concreto e visionario, terrestre e metafisico a un tempo.

Il discorso assume presto un tono profetico e biblico, dove, a parte la bellezza e la forza delle metafore, delle allegorie, dell’asciuttezza semantica che contiene l’aggettivo nel sostantivo (rara avis), si presenta un nodo gordiano, dall’autore tenuto presente “ab ovo”: il bene e il male, dualità-unità, inseparabili. Caino e Abele sono fraternamente il bene e il male di una pianta salutare, non ancora divisi. Le parole hanno il timbro di una vox clamantis in deserto: è la voce di colui che parla, o grida, nel deserto, ma ha il battito di un Annuncio. E’ il pianto muto, petroso, della verde innocenza contadina che ha visto annullare le vigne dei padri dalla piovra metropolitana, dal cemento e dall’asfalto. La visione di questo “sposo della terra” definisce saggia la campagna (si legga la poesia centrale “Tellure”: il simbolismo dell’amplesso del puro amore del contadino con la dèa Mater porta a designare una sorta di nuova religione, ove ogni pomo è il padre, il figlio e lo spirito santo).

Siamo a un rivisitato “umanesimo tellurico” (mi si permetta il conio azzardato, ma altrimenti non so definire questa fusione lievitatrice dell’uomo con la Natura). Siamo di fronte a un concetto unitario e salvifico, dove il tramonto si innesta con le aurore e la “vestale generosa” si dona spezzandosi come il pane. Io trovo metafore di una potenza descrittiva e gnomica straordinaria, ove i segreti degli abissi convergono in un centro di pulsazione universale, come a dire che il vertice di tutte le espressioni della vita è uno, indivisibile, comprendente il cielo e la terra, il bene e il male, per cui noi potremmo risorgere dalla bufera cosmica e rinascere dal cuore di un lapillo. Solo un sentimento georgico può attingere a tali altezze: ed oggi la nostra madre forse è morente, se non morta.

Il dolore del figlio, di colui che tale la sente come forza generatrice, si esplica in grovigli di ipermetri ed ipometri che formano una musicalità che non è mai un assolo, ma un concerto di vari strumenti, che noi non possiamo ascoltare se non ci connettiamo con il sentire panteistico (si fa per dire) del poeta, il quale dichiara che Dio è tutto e niente, è dovunque e da nessuna parte. Tocca a noi di amare, di vivere e morire. Torna la sua “teoria autocentrica”, in cui l’uomo deve riscoprirsi come un tutto, come il principio e la conclusione e, nello stesso tempo, l’autoriflessione del nulla da cui nasce il caos primigenio e la realtà dello “gran mar dell’essere” (per dirla con Dante).

I paesaggi di Campegiani sono sempre delle protasi a illuminazioni di pensiero, e, comunque (si legga “Neve”), appartengono a paesaggi dell’anima. Nascono da uno spunto descrittivo, ma non si fermano alle cose. Salgono a considerazioni che sovrastano l’incipit, per sollevarsi a cogitazioni universali. E, all’improvviso, come il classico fulmine a ciel sereno, ti colpisce un distico onnicomprensivo quale “Mi hai trovato infine / in fondo ai silenzi”. E devi fermarti, perché la luce abbagliante costringe a chiudere gli occhi per riaprirli quando l’effetto si sopisce. Di questi “scherzi” l’autore ne fa tanti. Come lo straordinario quadro-tempesta “Ho dentro un grido selvaggio”: è vero, qualcosa di selvaggio c’è nella poesia di Campegiani, se intendiamo per questo termine la mancanza di contaminazione con la civiltà finta che segue quella autentica, la civiltà contadina (in senso lato).

Morta l’epopea georgica, l’uomo non ha abitato più il pianeta azzurro, ma si è trasferito in un mondo virtuale, in cui egli non esiste più, né il mondo esiste, perché ha preso piede l’apparenza. Ecco perché il “selvaggio” di Campegiani si sposa col mistico, il primordiale col metafisico. Bisogna soffermarci su “La mia fede”, ove il filosofo pone i pilastri nel midollo lirico del suo essere. E’ una poesia-pensiero piena di antitesi, di sdegno etico, una dichiarazione “ufficiale” dell’unione salvifica e irrinunciabile di Bene e Male (ecco il disprezzo della dualità Caino – Abele, definiti “spregevoli plagiari”).

L’avo spargeva saggezza e amore; non condannava, e per ciò neppure sapeva perdonare: saggezza estrema della nuda “necessità” dell’esistenza. Combatteva il nemico senza odiarlo e pretendeva il rispetto che sapeva dare. Laudator temporis acti? No, non credo. Semmai, ricercatore della motivazione misteriosa del crollo umano. Ed ecco un altro distico di quelli che entrano nelle ossa come un pugnale: non risulto all’anagrafe / ed è per questo che sfuggo alla morte. Anche morte e vita hanno la stessa fusione di bene e male. C’è il senso dell’unità concentrica. Il dualismo corpo-anima ci ha fermati nel supremo gelo della falsità cancellando il sacro delirio del molteplice, del contraddittorio, del sostanzialmente impossibile perché reale e visionario a un tempo.

Segnalo “L’Essere è qui”, in cui ci sono “dichiarazioni” di poetica che vanno considerate come sentenze conclusive e, al tempo stesso, di apertura: conclusive in quanto definiscono il pensiero di Campegiani; di apertura perché da esse bisogna ripartire nelle riletture. Devo fermarmi un attimo a considerare tale potente lirica dichiarativa, didascalica: c’è l’eterno ritorno del tempo ciclico, il dramma della vita mortale in eterna gestazione, dove nulla è regalato e gravosa è l’armonia; “l’eterno è lo sguardo nascosto di me stesso”, esplicita Campegiani, e qui sta un nucleo da dipanare come il classico nodo gordiano, talché fare l’esperienza del contrario “è” – aggiungo – crescere nella fede del contrario. “L’oltre sta qui”.

Aggiungerei quale corollario alla lirica “speculare”, la poesia “Nemico fraterno”: e qui pure devo fare qualche osservazione. “Nemico fraterno” è tremenda: una serie di antitesi vitali (come, ad es. – e mi si perdoni l’ardire – quelle del XXXIII del Paradiso di Dante, per intenderci), straordinarie, che non starò qui a illustrare: il che sarebbe impossibile e forse mi porterebbe fuori strada; ma è necessario leggerla e rileggerla, in quanto la filosofia di Campegiani si compendia in questi “assurdi” che, in verità, sono i più vicini alla realtà complessa e contraddittoria della vita. In fondo, l’autore parla a se stesso e con se stesso combatte la battaglia irrisolta e irresolvibile dell’esistenza (una e molteplice).

Il discorso che in genere l’uomo tiene con i suoi simili, spezzando in dualità comode l’odio e l’amore (uno affibbiandolo altrui; l’altro a se medesimo), Campegiani lo svolge davanti a uno specchio ideale, sicché Caino e Abele tornano “uno”, e quest’unità che condanna e perdona a sua volta, porterà ramoscelli d’ulivo e colombe alla mensa comune. Io credo che non sia facile andare oltre nella potenza allusiva e nella novità allegorica che supera le metafore, ove la guerra dell’io contro se stesso e di tutti contro tutti dovrà sfociare placata quando odio e amore troveranno dentro all’individuo-uno un modus vivendi.

Si lega idealmente al nucleo gnomico-lirico centrale la splendida lirica “Salmo”, uno dei vertici della poesia contemporanea, piena di varianti sul tema apicale, con invenzioni che tolgono completamente la declamazione per arrivare al simbolo, alla translitterazione, al postulato messianico che fa di questo autore una sorta di portatore d’una sacralità che non ha redenzione, ma soffre dell’assurdo e tenta di risolverlo pensando che il trono del Messia è la Croce. Potrei continuare a veglia, perché ogni lirica reca in sé qualcosa di bello e di inusitato, ma devo chiudere, non prima, però, d’aver indicato uno sbocco – almeno momentaneo – del pensiero di Campegiani nei 15 versi di “Parmenide”, ove un’altra risposta-domanda cancella il tutto e lo riconferma accorata: l’autore rimette in discussione le radici della cogitazione nei presocratici, e, così facendo, riapre il cerchio del tempo concluso ma in continua roteazione nei misteri del cosmo e della vita. Questa silloge è un “unicum”!


Due poesie di Franco Campegiani

Case nere lungo i viali asfaltati
           
Il male d’oggi è chiuso in un recinto
di plastificate muraglie,
ghetto refrattario in una cupola
agli spiragli di luce.
E solo tenebre incontri
senza più coscienza delle tenebre,
case nere lungo i viali asfaltati
senza più finestre,
un dolore inconsapevole,
una notte senza sbocchi
che rifiuta l’impasto con le aurore,
un nulla radicale in estinzione,
un nero che più non genera nero,
un incubo, un’oscura follia
superba e paga di se stessa
che rifiuta il bacio dell’alba
e si occulta all’amplesso lievitante,
al groviglio fremente della vita,
e muore…
Quanti gridi di dolore nelle notti
si schiudevano all’alba in battiti d’ali!
Mai mi dicesti
che c’è un male che fa bene,
ma lo capivo dai tuoi gesti,
padre contadino,
dall’urlo muto
delle viti che potavi,
dal sudore vivo della fronte,
dalle doglie della terra partoriente
che con amore coccolavi
affinché tutto risorgesse
nuovo e bello dalle brume invernali.
Quanti gridi di dolore nelle notti
esplodevano all’alba in battiti d’ali.

L’Essere è qui

L’aldilà sprofonda nell’abisso,
scivola nel vuoto, precipita a ritroso
verso gli inizi perenni, verso l’eterna fine,
in cieli e terre senza spazio e senza tempo
da cui riparte sempre la ruota della vita
per tornare al mondo dove tutto è rovesciato
e l’amore ridotto a misera cosa…
Ma è ancora qui l’amore, è qui l’altrove,
in eterna gestazione dentro il grembo
di questa vita mortale, dove nulla è regalato
e gravosa è l’armonia, sudata e pianta.
L’eterno è lo sguardo nascosto di me stesso,
l’ombra che mi cammina accanto,
un sosia, un doppio che terribilmente
mi conduce sul quadrato per pormi all’angolo
e tempestarmi di pugni d’amore,
un ciclone che mi ricorda di tornare
a colui che sono, all’essere che si scaraventa
in questa vita e resta in quella
per fare l’esperienza del contrario.
E crescere nella fede del contrario.
L’oltre sta qui, nel cordone ombelicale
che mi lega all’altro di me stesso,
al mistero da cui sono generato,
alla bocca del vulcano che mi sputa
e mi risucchia nel ventre suo radioso,
nei suoi gorghi incandescenti.

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