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Dogmatismo kantiano

Ottobre 10
22:00 2010

Nell’originaria speculazione filosofica, il Logos é l’intelletto divino colto nella sua opera creatrice. Presente ovunque nell’universo, esso si trova anche nell’animo umano: da qui la sua graduale ed arbitraria identificazione con la Ragione attuata dai pensatori classici. Ed è uno scambiare lucciole per lanterne, visto che la sapienza divina si trova in tutto il vivente e non soltanto nell’essere che – unico nel creato – è provvisto di facoltà razionali.
Su questo errore madornale, su questa presunzione smodata, su questa identificazione esagerata della ragione con l’intelligenza universale (mentre la scintilla divina, al contrario, può attivarsi solo abbassando la spocchia della dea Ragione) si fonda l’intero processo della cultura e della filosofia occidentale, vuoi nei suoi aspetti metafisici che in quelli umanistici, fino al Nichilismo dei tempi attuali. In fondo il Mithos subisce un identico processo degenerativo: viene trasformato in capriccio fiabesco ed onirico, così come il Logos viene trasformato in arida ragione. Ed ecco nascere e stabilirsi, tra i due, una incompatibilità totale. Entrambi, tuttavia, significano discorso, parola, e la differenza – originariamente – sta solo nell’angolo da cui si osserva il parlare dell’Essere, il rivelarsi delle cose. Nell’accezione originaria dei termini Logos, infatti, è il linguaggio diretto dell’Essere, mentre Mithos è il linguaggio con cui l’Essere appare nella mente umana. L’intero arco della cultura occidentale coincide esattamente con lo sviluppo di quella degenerazione che identifica appunto, da un lato, Logos e Ragione, e dall’altro Mithos e Favola, con ciò intendendo porre sugli altari la dea Ragione, depositaria del Vero, e ridurre il mito a pura e semplice illusione. Il razionalismo, tuttavia, non è meno illusorio ed arbitrario, quando crede di poter rinchiudere il mistero in aride formule, in risibili schemi mentali. La riduzione del mistero a dogma è in tutto simile alla riduzione del simbolo a feticcio o del mito a favola ripetitiva.
Il delirio trionfalistico della ragione viene giustamente posto sotto accusa e sotto analisi dal Criticismo kantiano. C’è tuttavia, a parer mio, un chiarimento importante e molto opportuno da fare. La condanna del razionalismo metafisico svolta dal grande pensatore tedesco è dirompente e rivoluzionaria per il secolo in cui viene pronunciata, ma oggi occorre andare oltre, superandone i limiti e portando a più mature conseguenze il percorso di sfiducia, da essa iniziato, verso le pretese della dea Ragione. A che servono infatti le riserve e le cautele kantiane sugli spropositi della metafisica tradizionale, se poi si resta comunque prigionieri dell’imperativo categorico? Il razionalismo è e resterà sempre dogmatico, in qualunque salsa lo si voglia condire. E a nulla serve il puerile tentativo di salvare la ragione concependo la norma morale come proposizione emotiva. L’emotività, infatti, non è che il risvolto passionale della dea Ragione. Sono due facce della stessa medaglia: lo schematismo dell’impalcatura mentale umana.
Se l’imperativo è categorico, esso non è e non potrà mai essere un Principio, bensì un Pregiudizio, perché il Principio non ha bisogno di imporsi in modi vessatori e diviene efficace solo quando l’intelletto felicemente lo accetti e lo ami come tale. Bisogna, in altri termini, appropriarsi liberamente dei Principi, per una sana vita morale, e non esserne succubi, come di fronte a comandamenti indiscutibili di cui non si capisce nulla: la genesi, lo scopo, il funzionamento e la struttura. Necessita dunque superare il moralismo coercitivo e condizionante dell’etica kantiana, non per distruggere i Principi, come si afferma nel relativismo attuale, ma per giungere ad una moralità più autentica e pregnante, dove i Principi non siano subiti passivamente, ma creativamente compresi e adottati dall’animo umano. Intendo dire che l’uomo deve essere il protagonista, non la comparsa, della propria vita morale.
Tutto questo non è psicologismo, né tanto meno metafisica razionale. È concretezza di vita, è saper vivere nel mondo secondo le regole del mondo, ma da amici e confidenti di se stessi, sentendosi parte viva del proprio mistero. È saggezza universale, buon senso. O anche sesto senso (che è poi la vera natura del senso, quando non sia inaridito,abitudinario e scontato). È vivere da eremiti tra la folla. È far girare i propri meccanismi psichici secondo ingranaggi universali. È toccare lo spirito, e pertanto essere se stessi, non un andare nel deserto miraggiati.
Quello di cui sto parlando è la sapienza del Logos che l’uomo può rintracciare nella propria stessa essenza, al di là del proprio intelletto e della propria sfera razionale. Bisogna chiarire che la vera natura del buon senso non è razionale, ma extrarazionale, viste le insensatezze e le assurdità di cui si rende responsabile la ragione umana. E non è certo ingabbiandola entro sbarre d’acciaio, o costringendola a viaggiare su di un binario obbligato, che la si possa far rinsavire. Assoggettandola oltretutto a imperativi di cui lei non sa nulla e che pertanto non saranno mai di prima mano.
Non dovrebbe, l’uomo, pensare in fotocopia, ma in originale, recuperando quella sapienza del Logos, che, essendo diffusa dovunque, risiede anche nell’animo umano. Non tuttavia nella sfera razionale, la quale non ha alcunché di universale in se stessa, considerato il suo schematismo partigiano. La ragione può nondimeno farsi ragionevole se si lascia illuminare dal mistero. Dico illuminare e non irretire, come avviene nell’etica kantiana. La ragione è un valore irrinunciabile quando sia equilibrata. Quando cioè non insuperbisca, ma neppure si pieghi, frustrata, di fronte alla maestà del mistero. E’ chiamata infatti a diventarne confidente ed amica. A quel punto recupera le stesse facoltà originarie del mito. Il quale allo stato sorgivo (mitpoietico) possiede una potenza di rivelazione straordinaria, che smarrisce nei momenti di flessione successiva, quando si trasforma in favola mitologica, stancamente ripetitiva.

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