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“Ellie Parker” di Scott Coffey

“Ellie Parker” di Scott Coffey
Maggio 01
02:00 2007

Quello che caratterizza un film come Ellie Parker (2005) è l’apoeticità. Si indugia su un’emozione per pochi secondi, senza che venga approfondita. Certo, è difficile non vedere, in questo lungometraggio del regista esordiente Scott Coffey, gli esperimenti di Warhol degli anni sessanta, con il suo realismo documentaristico e parodico. In Ellie Parker manca però il candore che imprimevano gli stilemi recitativi degli attori pop, in film come The Nude Restaurant (1967), in cui dal catastrofismo balenava, come per miracolo, la scintilla di un’umanità che, individuale qual era, impacciata e ridicola come la si poteva percepire, riusciva a evocare intimità comunicative e relazionali impreviste e accessibili allo spettatore: icone appunto, e poetiche insieme. E manca un sostrato simbolico, una percorribilità del testo cinematografico che, senza sovraesposizioni di contenuto, sia lì a infittire nel suo ornato la storia, al di là dei fili grossi dell’intreccio.
In Ellie Parker l’omonima protagonista è un’attrice australiana alle prime armi, trasferitasi a Hollywood. Corre da un’audizione all’altra, come una forsennata, a scapito della propria individualità. Certo, il metodo Stanislavskij – che non mira tanto alla perdita dell’individualità, quanto alla perdita della personalità sostituendola con un’altra mimetica – può produrre simili effetti psichici se un’attrice, anziché dedicarsi a un ruolo per volta, è costretta a interpretarne frammentariamente una tale quantità da non essere in grado di mimetizzarsi in nessuno. Altro che Debra Winger o di Jennifer Jason Leigh, che spendono mesi a preparare i propri ruoli: per Ellie quattro, cinque personaggi al giorno diventano un vero problema.
Il film, benché tagliato su registri amatoriali e girato in videocamera, non è per questo meno artato della più controllata iconografia di un prodotto delle major hollywoodiane. Di trucchi, in Ellie Parker, ce ne sono fin troppi, a cominciare dalla recitazione sopra e sotto le righe della parossistica Naomi Watts, che passa in rassegna un articolato ventaglio di registri espressivi, tranne quello naturalistico, tenuto ermeticamente nel fondo del suo vaso di Pandora. Ne esce fuori tutta una serie di situazioni grottesche, senza soluzione di continuità, che ricalcano l’esilarante cattivo gusto di una Jenny McCarthy, ma, pèrsone il disarmante candore, si presentano sotto l’angosciante velo della tragicità. In questo Watts è attrice che sa mettersi in gioco, al punto da proporsi nel più smaccato neodivismo, con mani infilate fin in fondo alla gola e una mimica da ossessa.
Ellie Parker è un manuale di tutto ciò che non si dovrebbe fare, non solo nel cinema hollywoodiano o in spettacoli di prima serata alla TV, ma nella vita quotidiana in genere. La malcapitata depressa Ellie è seguita ovunque con la videocamera, dall’automobile alle sue penose audizioni, dalla camera da letto alla tazza del water, in una continua reificazione della sua immagine. Qualsiasi intimità, partecipazione emotiva, indulgenza sentimentale, condivisione di idee, prerogative e aspirazioni con la protagonista ci è negata per eccesso di esteriorità.
La recitazione di Watts è chiara su questo punto: l’attrice australiana interpreta un personaggio banalissimo, con una recitazione che ha del dilettantesco, lontana anni luce (se non per l’istrionismo) dalle sue straordinarie prove in Mulholland Drive (2001) di Lynch e 21 grammi (2003) di Iñárritu. Si conforma alla voluta apoeticità del film, al continuo negarsi e contraddirsi dei registri, alle atmosfere frammentistiche prodotte dai repentini incessanti ribaltamenti di situazione. Al punto che, abusato, il meccanismo diegetico si inceppa, ravvivato appena, deus ex machina, dal duetto fra Watts e quell’icona del cinema hollywoodiano che è Chevy Chase, esilarante meno del solito, ma pur bravo nel togliersi di dosso la sua patina iconica.
Scott Coffey è spietato, non tanto nella sua critica metalinguistica al cinema (che mi sembra ormai di moda), ma per quello che riguarda il senso dell’immagine umana in genere. Indulge sul bel viso di Watts, ma subito ne spezza ogni incanto, costretta qual è a farci ridere della sua disperazione e a non concederci nulla di sé, meno che mai la propria icona. Basta un movimento un po’ impacciato dell’obiettivo per far perdere l’intimità con un bel viso, e Coffey dimostra di saperlo. Naomi Watts, che è anche il produttore del film insieme a Coffey, è, qui, non solo l’anti-Garbo e l’anti-Marilyn, ma anche l’anti-Swinton di Jarman: l’omaggio del regista alla sua attrice è negato. L’effetto, voluto o non voluto, è che ci fa venire nostalgia dei maestosi antecedenti. Perché il metalinguaggio del cinema accresce la nostra sensibilità e discrezionalità critica, ma con il cinema ci piace anche sognare, tenere aperti spazi di umana progettualità.
Alla fine del film si resta con la domanda: com’è veramente Ellie Parker? Ragazze disperate come lei, benché possa importarcene poco, esistono per davvero. Un intero film su Ellie non ce l’ha fatta conoscere meglio. Il taglio sadico del regista, che ci fa ridere delle disavventure della sua eroina, mette in luce proprio la banalità della vita altrui che scorre nell’impotenza individuale di farsi riconoscere, da noi spettatori come dai suoi interlocutori, in una città che non le vuole bene. La satira sul cinema proposta da Coffey finisce per essere una critica all’anestetismo che per noi, nella società moderna, è diventato pane quotidiano. Peccato per l’effetto monocorde che, a forza di essere sopra e sotto le righe, il film non riesce a scrollarsi di dosso.

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