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Etica e valori nel mondo contemporaneo

Novembre 01
02:00 2007

Con l’avvento dell’età postmoderna, dopo millenni di sonno e dominio incontrastati, l’etica è stata, per così dire, “svegliata” e chiamata a giustificarsi, a render conto del proprio stesso essere, del proprio ruolo all’interno del mondo. È così andato in crisi un sistema gerarchico di valori certi e condivisi, strutturato rigidamente su una molteplicità di precetti un tempo pacificamente riconosciuti, da parte di tutti, come validi, come assumibili a criterio di condotta. Si è frantumato il “pensiero metafisico”, ovvero la visione univoca della realtà, insieme alla pretesa di poterla descrivere compiutamente, in termini di Verità. L’etica si è particolarizzata: è divenuta affare privato, di cui ciascun individuo può dirsi insieme creatore responsabile ed unico referente. Non è più, quindi, un sistema universale, ma si articola in una molteplicità di singole “opzioni morali”, insindacabili e irriducibili a unità. L’uniformità etica del vecchio pensiero metafisico è pertanto vissuta come repressiva. I laici temono ogni riferimento “forte” alla verità. Sostenitori di un “pensiero debole” e incapaci di tematizzare il discorso sui “principi primi”, si fanno teorici e promotori di un’“etica senza verità”. Le potenze etiche tradizionali (Dio, Chiesa, Stato) hanno perso terreno come autorità e guide per la prassi. L’uomo rinuncia consapevolmente a un orizzonte metafisico e procede, di conseguenza, a una lettura non sacrale del creato. La fiducia nella Ragione e nella sua capacità critica di poter conoscere il mondo senza appellarsi al Nume, al Trascendente, lo porta a prendere sul serio l’immanenza delle cose, l’autonomia intrinseca di ciò che è. In tale scenario desemantizzato, o meglio risemantizzato, improntato al paradigma culturale che Max Weber ha – con efficace formula – definito “politeismo etico”, gli individui finiscono per sentirsi e considerarsi reciprocamente “stranieri morali”, gettati in un mondo che, se da una parte li costringe sempre più a vivere gli uni al fianco degli altri e ad interagire, dall’altra non pretende e non permette più che parlino il medesimo linguaggio etico, né che condividano un piano omogeneo di valori. Da questo sistematico sabotaggio dei punti fermi, da questo vuoto di luoghi cardinali, da questo ipertrofico “nulla” che sgomenta le coscienze, consegue un mondo disancorato, senza un vertice né un centro, dove è facile smarrire i propri passi. Si pensi in particolare alle giovani generazioni, sballottate fra gli opposti richiami dei modelli educativi ricevuti (ormai inadeguati, per rapida obsolescenza, dinanzi al rapido e continuo cambiamento degli scenari) e i “falsi” valori del consumo, dell’effimero massificato, delle mode studiate a tavolino, da loro eletti, in mancanza di meglio, proprio per supplire a una disperata mancanza di punti di riferimento, di modelli “forti”. La stessa assenza dei genitori (impegnati nel lavoro o pericolosamente attratti, in ossequio a tendenze educative di stampo liberal, da stili più evanescenti e attenuati, quasi di parità amicale, nell’esercizio delle loro funzioni, peraltro insostituibili), assenza non adeguatamente rimpiazzata (causa famiglia nucleare) dalle figure salvifiche dei nonni, produce danni spesso irreversibili nello sviluppo psichico dei giovani; i quali restano disorientati e, vivendo il disagio in prima persona, tendono a compensare altrove e in altro modo quel vuoto affettivo, come e dove gli è viceversa possibile, sublimandolo con palliativi talora anche distruttivi, quali una bottiglia o un ago di siringa. I ragazzi oggi sono tendenzialmente scettici e cinici proprio perché è il mondo circostante che ha insegnato loro ad esserlo. Elidono a priori ogni discorso (o pensiero), poiché gli resta difficile accettare la sospensione di incredulità che comporta l’adesione sincera a qualsiasi discorso (o pensiero). Non sanno spendere il credo necessario per porsi all’ascolto leale e paritario di quanto li circonda. Non sanno imbastire un dialogo autentico: comunicano in modo schizofrenico e compulsivo, con frasi gergali o parole abbreviate, soprattutto mediante pratiche asettiche e talora anonime come sms o chat multimediali. Spesso non sanno parlare (così come, a monte, gli riesce disagevole il pensiero), preda di una spaventosa penuria di lessico e di idee: del resto, ha sempre parlato e pensato la TV, per loro, fin da bambini. Hanno paura di prendersi sul serio e di essere scherniti per qualunque manifestazione “umana”, di peso e significato poco più che superficiali. Li trovi allineati su un piano di “gioco al ribasso”, come se la vita fosse non un valore assoluto, quale è, ma un male necessario, qualcosa di indegno, di cui liberarsi prima possibile: una strada attraverso cui passare riportando il minor numero di danni. Come se fosse ormai pacifico ed acquisito aver rinunciato all’uomo, aver smarrito le sue tracce. Come abitanti di un’epoca da post– totale, nel peggiore dei mondi possibili (après moi le déluge). Sono, malgrado ogni apparenza, soli ed introversi. Focalizzati intorno al disagio che procura loro la percezione di un nulla interiore, di un buco incolmabile. Per questo forse, per non sentire troppo a lungo il silenzio di quel vuoto, provano frequente il bisogno di “sballare”, di stordirsi, di dimenticarsi, di uscire da se stessi. Sofferenti di danni invisibili, di scompensi sottili, di ferite senza quando e senza dove. Pieni di rabbia, spesso, di insospettabile, sconvolgente aggressività. Bisognosi di affetto, di cura, di tempo riappropriato: di modelli forti cui ancorare la propria deriva – che tuttavia, paradossalmente, non potrebbero lo stesso mai accettare, per contrasto di spinte interiori e risorgente forza distruttiva. I laici postmoderni che (punte dell’iceberg) hanno teorizzato e benedetto questo scenario desolante di “pensiero” (e non si parla di torri d’avorio, ma di modelli reali di vita sociale, che si riproducono a livello microscopico, individuo per individuo), non si rendono conto che, negando implacabilmente e sistematicamente l’assoluto, finiscono a loro volta per assolutizzare la negatività, restando intrappolati nella stessa libertà che li affranca dalle “gabbie” precedenti. Per correggere un “errore”, insomma, ricadono nell’errore opposto. Anche per tale asfissia da “vicolo cieco”, la laicità è andata incontro a una sorta di consunzione interna, a una progressiva crisi di identità e di senso. Hanno perso smalto e mordente – esaurita la carica “incendiaria”, da impatto iniziale – i suoi moduli stancamente e ripetitivamente negativistici. Da qui lo scaturire di fresche istanze spirituali, la richiesta di riflessione etica e di “nuovi valori”, provenienti anche da ambienti culturali insospettabili, come quelli scientifici, proprio in quanto irrimediabilmente sganciati dal riferimento a punti fermi di stampo tradizionale e, dunque, già da tempo portabandiera del “pensiero debole” a matrice laica.

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