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Fortunata, anti eroina tutta romana

Fortunata, anti eroina tutta romana
Giugno 13
18:51 2017

Fortunata film di Sergio Castellitto – Festival di Cannes 2017, sezione Un Certain Regard, Nastro d’argento per la Migliore interpretazione a Jasmine Trinca.

Fortunata (J. Trinca) tira a casa la giornata facendo la parrucchiera in nero, cresce la figlia di 8 anni, è separata dal marito guardia giurata (E. Pesce) che non perde occasione di umiliarla e condivide gioie e dolori col vicino bipolare cocainomane Chicano (straordinario e sensibile A. Borghi), affannato a sua volta dietro la madre, ex attrice di teatro e preda dell’alzheimer Hanna Schygulla della quale ritroviamo, nel volto, la fronte luminosa (straordinaria nei films Il matrimonio di Maria Braun di R. W. Fassbinder e Storia di Piera di Marco Ferreri, per citare solo due pellicole impreziosite dalla sua presenza).

L’incontro fortunato per la protagonista dovrebbe essere quello con lo psichiatra Patrizio (S. Accorsi), il suo contrario maschile: non è coatto, cerca di filare nel binario nel quale l’hanno messo gli studi e la professione, ragiona col cervello invece che con la pancia…solo che è abbastanza giovane anche lui e condivide con Fortunata un’infanzia segnata dalla presenza di genitori troppo ingombranti per difetti e carattere e invece di badare, come dovrebbe, all’equilibrio della piccola Barbara (carica di rabbia contro il mondo per la vita ‘da pacco’ senza volontà che le tocca) finisce per badare meglio e di più alla mamma, borgatara sì, più nuda che scoperta e sfacciata nella sua maschera teatrale con gli occhi eternamente bistrati, ma bella d’una bellezza carnale e vigorosa, mai stanca di gridare la propria fame di vita e d’un qualche futuro. La figura di Patrizio è, leggendo le critiche, una fra le meno approvate nella sceneggiatura architettata dalla scrittrice Margareth Mazzantini, ma la storia di Fortunata si rende meglio ‘leggibile’ nel contrasto con le poche tracce rimaste visibili di mondo medio basso borghese (quello di chi ha studiato, ha una sua professione, magari pagata poco) che possano marcare una differenza con la massa indistinta del coattesimo bollata, in modo evidente, proprio dall’ignoranza, dalla sua ostentazione e dalla mancanza di lucidità davanti alle questioni vitali. Patrizio questa patina che vuole lo distingua dagli altri non la perde mai: in una delle battute più trucide e riuscite del film scimmiotta il blabla borghese blaterando alla ex attrice straniera, un vuoto «quanto è importante il teatro» e l’attrice gli risponde che sì, è vero «ma quanto è più importante…la fregna…» (perché anche il teatro diventa feticcio che va ammuffendo alla mercé di una tradizione paludata e di stanchi finanziamenti statali). In questa scena, come in quella nella quale colei che pare l’ombra di un’Antigone che vaga dopo aver seppellito più o meno tutto ciò che poteva, prova a disegnare con le dita un sorriso sul volto bellissimo e disperato dell’unico figlio (che per eccesso d’accudimento la rispedirà via acqua al creatore), il personaggio di Hanna Schygulla, e così la cultura vera, quella che va conquistata con fatica, che produce sensibilità, pare riprendersi la propria importanza per la capacità che dona d’intuire la falsità come anche i prodromi della tragedia, pur nella distanza che spesso pare mantenere con la realtà della strada…

Fortunata è sincera, non sa che farci a quello che le capita, come tante altre come lei, le iperrealiste pop-amiche che le starnazzano attorno colorate di vestiti e trucchi, carni sode (il grande tesoro dei poveri bellezza e gioventù!) e gravidanze rotondeggianti vissute come Grandi Madri neolitiche (qui i maschi continuano ad essere assenti sempre e comunque, e questa è la domanda per la Mazzantini: ma perché?). Fortunata crede ancora alla famiglia, ha provato a formarne una ma forse più perchè c’era in ballo una nascita (?), cerca il lavoro con la L maiuscola, ma assieme all’amico Chicano perde il negozio da parrucchiera ed è costretta a renderlo alla ricca cinese che s’era resa disponibile a prestarle i soldi e qua torna l’altro argomento centrale parlando di italica decadenza. Anche i popoli che riescono già a dominarci economicamente non disdegnano l’estetica e le sue sirene (le donne cinesi amano le manicure e il trucco-parrucco) ma esercitano la loro fermezza spirituale facendo esercizi per corpo e mente in gruppo, negli spazi concessi dal rione Torpignattara, sotto qualsiasi tempo meteorologico, e intanto conquistano posizioni.

Altro grande protagonista del film è proprio l’ambiente attorno: è agosto e allora dagli con prati brulli, stoppie d’erbacce, desolata polvere che incarta i palazzoni che ne i Ragazzi di vita pasoliniani stavano ancora venendo su: i palazzoni hanno fatto il futuro solo di chi li ha costruiti e così assieme al disfacimento d’uno sfondo pieno d’immondizia d’ogni risma, scritte, serrande abbassate per colpa della crisi che ha finito di spazzare vie le speranze del self made man, pare venuto meno il presente che Fortunata interroga chiedendo: «ma se non basta più il lavoro allora che basta?». Se è tutto troppo sporco, troppo caldo, e neppure la spiaggia restituisce più ristoro ma solo corpi senza vita, nuovissimi o vecchi di trent’anni, allora la mano torna al passato e il presente anche Fortunata lo vede scorrere dalla finestra incorniciato fra due quinte di ruderi (quelli dell’acquedotto alessandrino) così che fa ancora capolino la tragedia (i ruderi ricordano le scenografie ai cori magnifici di quella greca e un romano passato imperiale che dicono sia stato grande…).

Insomma, la figurina di Fortunata, paragonata a Mamma Roma (più per il contesto che per il ruolo forse), non se ne può andare da sola per la Capitale come le eroine un po’ coatte anche loro di Paolo Virzì (che però gli cerca contraltari come l’amica nobile e raffinata, La pazza gioia, o un compagno coltissimo, Tutti i santi giorni), ma se ne va accompagnata da una storia antica e recente che non le può, non le deve, lasciare la mano. Se il paragone tra il Sergio Castellitto di questa pellicola e l’Ozpetek del bellissimo Un giorno perfetto (omonimo romanzo di M. Mazzucco) c’è sembrato quello più calzante soprattutto per l’equilibrio che Edoardo Pesce sa dare al suo Franco, a ben pensarci questo è il lavoro di Castellitto regista più equilibrato e di mano felice… Anche l’addio di Patrizio che pecca, però, stando alle parole di Pasolini «Peccare non significa fare il male: non fare il bene, questo significa peccare» che si porta via tutta quella che potrebbe essere la fortuna di Fortunata (dispensata da uno dei pochi deus ex machina dei tempi contemporanei, il lotto) sta a rimarcare il fatto che quei soldi (che pure contano) potrebbero essere spesi male quanto quelli dei poveri e ignoranti di È stato il figlio (film di Daniele Ciprì dal bel romanzo di Roberto Alajmo). Perché, purtroppo, finché non si raggiunge coscienza di se stessi, della propria emarginazione, con tutto l’affetto sincero per Fortunata, donna di reali virtù quali il bene disinteressato e la compassione, non può esserci nemmeno…fortuna. Pare che qui si giudichi ancora vero il concetto che prendere coscienza della propria condizione, studiare, essere preparati resta la cura all’ignoranza, al coattesimo e in parte anche alla decadenza d’una nazione. «La continuità tra il ventennio fascista e il trentennio democristiano trova il suo fondamento sul caos morale e economico, sul qualunquismo come immaturità politica e sull’emarginazione dell’Italia dai luoghi per dove passa la storia.» P. P. Pasolini. (Serena Grizi)

 

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