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Gramsci: gli operai sono i veri produttori – 2

Gramsci: gli operai sono i veri produttori – 2
Luglio 31
23:00 2009

Antonio GramsciIn questo periodo della sua vita, Gramsci studiando i processi produttivi nelle fabbriche, si impegna per far acquisire alla classe lavoratrice “la coscienza e l’orgoglio di produttori”. Collabora con alcuni giornali quali il Grido del popolo, foglio comunista di Torino e più tardi con l’Avanti!. Scrive su argomenti di lotta e di prassi politica, ma si appassiona anche al mondo dello spettacolo fino a diventare critico teatrale. È uno dei primi a capire che il dividere in categorie distinte la tragedia e la commedia, la farsa e il dramma è un errore che produce un concetto del tutto conservatore se non addirittura reazionario.

“L’umorismo e il senso del grottesco – sostiene – sono espressioni di altissimo valore e solo una cultura ottusa e bassamente classista può pensare di catalogare a livelli inferiori tutto ciò che produca riso e divertimento – anzi dichiara – Il primo valore di un’opera teatrale è l’attenzione che sa suscitare e il divertimento è l’aggancio più efficace perché si produca l’ascolto e l’attenzione”. Sappiamo che per lungo tempo Gramsci tenne in gran considerazione il teatro e le novelle di Pirandello. Oltretutto, lo dichiara esplicitamente, la sua origine culturale nasce dallo studio di Benedetto Croce, ma questo suo modo di giudicare e considerare il valore del filosofo e del commediografo siciliano subiranno una sterzata a capovolta in conseguenza della sua terribile esperienza dentro le carceri del fascismo. Un primo importante effetto lo acquisì presso l’isola di Ustica grazie al rapporto con i carcerati, alcuni politici, ma altri condannati per crimini comuni coi quali ebbe subito un rapporto particolare. Sapendolo colto e disponibile, i detenuti politici gli chiesero di organizzare una serie di lezioni alle quali avrebbero potuto partecipare anche i cosiddetti comuni. La richiesta di partecipazione fu superiore al previsto cosicché si decise di dividere i corsi a livelli diversi secondo il grado di preparazione degli allievi.
Gramsci ha scritto alcuni commenti a proposito di questa esperienza rendendosi conto che durante quelle sedute spesso si trovava ad apprendere più che a procurare insegnamenti. Scoprì che alcuni di quei carcerati conoscevano canti popolari della loro più antica tradizione che ripetevano forme poetiche con ritmi e cadenze che Gramsci aveva appreso studiando i novellatori medievali e del Rinascimento. A questo proposito accenna ad una ballata che propone lo stesso andamento di doppio settenario o endecasillabo con un novenario nel mezzo dei canti prodotti nella corte di Federico II di Svevia. Credo di aver indovinato di che strambotto si tratti: un canto in cui l’innamorato fa l’elogio della sua donna alla maniera dei poeti arabi che operavano nell’VIII secolo in Sicilia. Il cantore popolare a sua volta ci presenta la sua bella che si sta affacciando al balcone: la ragazza splende come la luna ed i suoi occhi sono due stelle della sera. Più o meno il canto dovrebbe essere questo:

 

A na fenestra se spontao la luna
intrammezza a du stidde Diana:
su tanti li baliori che me duna,
pari lu lampu de la tramontana.

 

Cioè:

 

A una finestra è spuntata la luna
con intrammezzo due stelle Diana:
son tali i bagliori che mi dona,
pare il lampo della tramontana.

 

Gramsci a questo proposito ricorda la definizione di Benedetto Croce davanti ai canti popolari: “Si tratta – dichiara il filologo – di ripetizioni meccaniche di poemi della cultura superiore e – ribadisce – la cultura dominante è sempre espressione della classe dominante”. Ma ecco che Gramsci si rende conto forse per la prima volta che questa definizione è del tutto falsa giacché quel canto in volgare siculo certamente è di origine più antica delle ballate prodotte dai poeti di corte di Federico imperatore e quindi anche la metrica e i ritmi espressi dal popolo nascono qualche secolo prima di quelli che ritroviamo sui libri di testo della poesia aulica del Duecento, testi che ci hanno sempre insegnato essere all’origine della poesia italica. Ma l’emozione più alta Gramsci la prova assistendo sempre ad Ustica, forse nell’ora d’aria, quindi nel campo interno al carcere, ad un’esibizione di due carcerati originari delle valli montane della Calabria, molto probabilmente dediti alla pastorizia. Essi armati ciascuno di un bastone si producono in un duello feroce e nello stesso tempo di un’eleganza straordinaria: più che lottare con l’intento di colpirsi, i due contendenti si producono in danze fatte di scatti agilissimi nei quali fanno roteare i bastoni cozzando l’un contro l’altro i legni a velocità inaudita. Muovono rovesciando il corpo e passando i bastoni da una all’altra mano compiendo vere giravolte con le quali sfuggono a botti tremendi seguiti da grida secche e cantate quasi a sfottò.
Egli commenta: “Non era di certo quella un’esibizione fine a se stessa: la bravura dei due contendenti non era tanto espressa dal tentativo di colpire duramente l’avversario, quanto piuttosto quello di riuscire a non colpirsi l’un l’altro dando al contrario l’impressione di volersi massacrare a vicenda. Ad un certo punto ho intuito che quella pantomima era parte di un rito molto antico prodotto con lo scopo di allenamento ad un conflitto vero dove il nemico non era solo da considerarsi un essere umano, ma poteva tradursi in orso o lupo o addirittura in branco di lupi. Quel roteare vorticoso del bastone e quello sfuggire con salti e affondi rovesciati era certo il prodotto di un agire per cercare di sopravvivere ad attacchi di morte”.
Tutto il popolo di sinistra è di certo a conoscenza delle diatribe e dei conflitti che allontanarono definitivamente Palmiro Togliatti da Gramsci ed è quindi quasi paradossale scoprire che il primo a credere nel valore universale delle opere del più importante intellettuale del Partito comunista si sia rivelato proprio Togliatti. Egli mirava a fare di questo suo antagonista il teorico di una “riforma intellettuale e morale” in continuità con il Risorgimento. Il punto massimo dell’assurdo di questa operazione sta nel fatto che Togliatti intendesse realizzare un’azione di politica culturale “finalizzata ad attenuare la vocazione proletaria del Pci” e per far questo aveva pensato di servirsi del maggior sostenitore del valore inarrivabile della cultura popolare.
Un paradosso, appunto, giacché è risaputo che il contenzioso che determinò l’irrisolvibile diverbio furono proprio le idee “costituzionali” di Gramsci – il suo cosiddetto “comunismo liberale” -, ritenute fortemente eretiche in quanto oltretutto in contrasto con la linea cosiddetta del “social-fascismo” imposta da Mosca, e fu proprio quella drastica censura a produrre quell’isolamento in carcere che gli causò la fine d’ogni contatto umano: una situazione che lo portò alla più dolorosa delle condizioni. “Potevo preventivare i colpi degli avversari che combattevo, – scrive in una lettera alla cognata Tania nel 1930 – non potevo preventivare che dei colpi mi sarebbero arrivati anche da altre parti, da dove meno potevo aspettarli”.
Ad ingigantire questa situazione giunge in carcere una serie di lettere inviate a tutti i detenuti politici in attesa di processo: in queste missive a firma di Ruggero Greco, lo scrivente compie una gaffe madornale poiché indica Gramsci, Terracini e Scoccimarro come i massimi capi del partito. Insomma, si tratta di una autentica delazione, uno sgambetto mortale. Gramsci si sente tradito, messo con le spalle al muro. Di certo è un tale colpo basso che gli crea una vera e propria débacle fisica e morale: la sua salute peggiora a vista d’occhio. Inoltre possiamo ben dire che questa trappola infame allontanò per sempre Gramsci dal partito, proprio lui che con tanta forza aveva lottato per farlo nascere. (Fonte: il Cacao della domenica)

(Fine)

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