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Hina Saleem, ribelle e vittima di costrutti culturali

Hina Saleem, ribelle e vittima di costrutti culturali
Settembre 01
02:00 2006

Hina Salem Esistono omicidi ed omicidi. Quello di Hina Saleem è un omicidio ragionato che, anche se avvenuto in territorio italiano, ha tutti i connotati di un rito sacrificale, tribale, con la precisa funzione di cancellare l’offesa di una donna alla sua famiglia pakistana. Così è stata giudicata Hina dal tribunale famigliare, colpevole di oltraggio all’onore dell’intera famiglia. Così, è stata immobilizzata e giustiziata, sgozzata come un agnello, un maiale, senza un’onorata sepoltura. Il cadavere è stato deposto alla meglio nel giardino di casa. Chi ha appreso la notizia, ha senza alcun dubbio provato sensazioni forti di sgomento, di incredulità, raccapriccianti. Come si può arrivare a tanto? L’audacia dell’atto scellerato è stata, se così si può affermare, una sorta di autorizzazione a procedere, che trova le sue radici nelle più profonde forme di modelli culturali della società pakistana, non tralasciando anche modelli culturali dell’intero subcontinente indiano. Ma attenzione! Parliamo anche di modelli di cultura che costituiscono gli schemi di riferimento di una maggioranza massiccia di immigrati che sono ospiti sul territorio nazionale italiano. Per queste culture, la donna deve essere protetta, affidata alla custodia maschile, che fa di lei la rappresentazione dell’onore, familiare, sociale, religioso. In base ad un antichissimo codice tribale dei pashtun – il pashtunwali – la donna che offende l’onore della famiglia e quindi degli uomini che la prendono in custodia, deve essere uccisa. Il suo sangue sarà il riscatto dell’onore familiare. Anche se nel Corano non viene menzionata nessuna minaccia alla donna ribelle, comunque la lapidazione è contemplata per ogni forma di adulterio, o di disubbidienza ai canoni morali prescritti dalla cultura islamica. Queste affermazioni sono chiaramente espresse negli hadit del profeta Maometto, che indicano la rigorosa condotta da seguire dalla donna, in famiglia e nella società. Le trasgressioni sono legittimate ad essere punite con la morte. L’omicidio è un atto che esprime uno stato di collera insostenibile da parte di chi lo compie. Non dimentichiamo che le attenuanti per l’omicidio di una donna, compiuto per lavare la vergogna, e quindi difendere l’onore della famiglia, erano ampiamente contemplati nel nostro codice penale con l’art. 587, abolito solo nel 1981. Ma la persistenza del concetto d’onore per omicidi nei confronti di donne di facili costumi è contemplato ancora oggi nel nostro codice con la presenza dell’art. 621 c.p. Anche nella nostra cultura, quindi, la donna è ancora sottomessa a quel costrutto di modello familiare, che la considera proprietà privata, sede dell’onore familiare, che però appartiene all’uomo, e che ha l’obbligo morale di difenderlo. Ciò che la donna, che sia pakistana, afgana, indiana o italiana, altera, con il suo comportamento contraddittorio alla morale di riferimento, nell’uomo che la protegge è lo stato emotivo. Con un suo presunto comportamento condannabile, provoca nell’uomo emozioni che innescano a catena un processo di comportamenti che purtroppo sono espressione di un linguaggio culturale appreso in contesti spazio temporali. Non vi è dubbio che l’emozione sia una costante umana. Ma ciò che la altera e la rende significativa, sono le idee, i pensieri, i sentimenti, che costituiscono l’essenza di espressioni comportamentali culturali. E la collera, la rabbia sono emozioni forti, non solo fisiologiche, ma anche abbinate ad un’interpretazione di una causa e di certe forme di comportamento. L’omicidio d’onore è un atto collerico esasperato, dettato da un’emotività che scaturisce da un sistema concettuale preciso, da credenze, attitudini e desideri, legati ad un contesto che si è sviluppato storicamente e culturalmente. Questo genere di delitto d’onore, ricordando Aristotele nella Retorica, non è altro che la traduzione di un’offesa in un’emozione giudiziale. Sono atti di comportamenti che scaturiscono da concetti perpetuamente appresi, nel contesto di una particolare società, morfologicamente determinata nella sua sostanza etica da costrutti religiosi e sociali. E questi concetti che strutturano i modelli di comportamenti, sono acquisiti non solo in contesti culturali particolari, ma sono da considerarsi fenomeni pubblici, capaci di costruzioni di senso, come la lingua parlata e la stessa conoscenza. Ecco perché possiamo anche non comprendere un caso particolare di collera, che sfocia in un omicidio ragionato, come è stato quello di Hina Saleem. Thomas Hobbes precisò che laddove gli animali possono apprezzare il danno, solo agli uomini è concessa la sensazione dell’offesa.
Chi guarda dal di fuori questi fatti luttuosi, si rende conto che può fare molto poco o quasi nulla affinché non si ripetano ancora e ancora. Il fatto è che, dicendola come Roy D’Andrade, ciò che la pubblicità cerca di fare e di inculcare nell’animo della gente, la cultura lo fa con grande efficacia. Riallacciandoci proprio a questa affermazione, una soluzione quindi ci sarebbe, ed è proprio riuscire ad operare sulla cultura, attraverso forme di educazione che indirizzino verso una concettualizzazione comunitaria, interculturale e transculturale, valorizzando proprio nelle emozioni quella parte di sensibilità che predilige il bene comune, di tutta l’umanità.

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