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Il giardino di Daniel Spoerri: il ‘900 (secolo breve e crudele) veloce e creativo

Il giardino di Daniel Spoerri: il ‘900 (secolo breve e crudele) veloce e creativo
Luglio 13
16:31 2020

Hic terminus haeret

(Serena Grizi) L’accumulo, lo scarto, la serialità diventano bellezza, a patto che siano incorniciati da questo scenario. Condividere lo spazio con gli artisti con cui si è trascorsa la giovinezza. Gli anni 2000: l’assoluto della pietra, della materia, isole espressive dentro isole di paesaggio e passaggi aperti tra bosco e radure, ponticelli e acque. Antichi segni di pietra e nuovi.

Il Golem d’acqua è un’apparizione fra le tante (incredibili) nel Giardino di Daniel Spoerri in quel di Seggiano (GR), materiali di questa scultura: elementi di condutture e saracinesche idrauliche di Angelo Maineri e il gigante azzurro si staglia dal verde della collinetta che sovrasta le sorgenti presenti nella proprietà, guardiano di queste, saluto vero alle meraviglie che verranno, attorniato dalle teste scultoree e astrologiche di Eva Aeppli (le sue opere ci hanno ricordato più di tutte altre sculture/presenze viste a Praga ma sono solo suggestioni…). Eva Aeppli e Jean Tinguely, entrambi artisti che saranno coppia anche nella vita (lui poi sposerà Niki de Saint Phalle di cui conosciamo un altro importante parco d’arte in Toscana); Spoerri li conosce diciannovenne a Zurigo nella sua nuova vita di cui si dirà poco più avanti. Gli ‘assaggi’ di Spoerri scultore sono tanti e molto diversi tra loro: quando si ispira a Roland Topor scolpisce La lettrice sarta e Mamma muntagna. Ingresso vietato senza pantofole è un omaggio a Joseph Beuys, ma perché ricorda in qualche modo le i mucchi di abiti e masserizie lasciati dalle famiglie di ebrei appena spogliati dei loro averi dai nazisti prima di essere atrocemente spediti ai loro supplizi? (ed è un omaggio ad un artista, danzatore e scultore come Spoerri, quasi suo coetaneo, che prima aderì al nazismo e poi se ne pentì). «Hic terminus haeret», recitano le parole virgiliane all’ingresso del parco e non c’è nulla che in questi sedici ettari di campi dorati, querceti, boschetti e colline che guardano il bel borgo di Seggiano (X secolo), sembri raccontare la tragedia di Spoerri danzatore e artista, ma anche cuoco collezionista romeno naturalizzato svizzero il cui padre fu trucidato dai nazisti, la cui famiglia rifugiatasi a Zurigo prese il nome dello zio paterno. Ma i tritacarne tornano come incubi anche se divengono fontane canterine; elmi, dagli austroungarici a quelli delle ultime guerre popolano angoli del giardino: in alcuni altarini soppiantati, al culmine, dall’Omino Michelin (che il potere ormai non sia più dei guerrafondai ma in mano ad un consumismo planetario che per altro, per spadroneggiare, passa attraverso simboli simpatici e rotondeggianti invece che acuminati e spaventosi?). Eppure l’incubo, quell’incubo, pur aleggiando, si vuole che non turbi più di tanto l’intero della produzione artistica: non è dato saperlo, ma sembra anche giusto che sia così, altrimenti la mostruosa visione avrebbe vinto anche sui posteri. Hic terminus haeret: anche il passo virgiliano procede con un suo andamento, che non è poi così pacifico, ma di tutto il passo l’artista sceglie solo queste tre parole, e nel contesto haeret si traduce più come passaggio che confine.

Nel vasto d’una radura, radiosa di sole e verde (è la primavera in Toscana), chi non passerebbe sotto un elegante berceau di rose che poi si rivela essere, da molto vicino, il Corridoio di Damocle, un roseto la cui struttura è di falci taglienti che pur sospese su rose rosso (sangue) e gelsomini non promettono niente di buono. Ma perché non passarci sotto se in fondo ci aspetta il Muro delle dodici ultime cene di donne celebri che morirono, sembra, di ciò di cui vissero: l’imperatrice Sissy di sobrietà e di nostalgie (se non fosse stata assassinata); Isadora Duncan, danzatrice, della sua magnifica sciarpa di seta; Cleopatra dei misteri dell’Oriente, e del suo mito, e niente è sembrato mai così ben raccontato. Sentite queste strette al cuore non si potrebbe rinunciare alle ‘rotondità’ del Continuo di Roberto Barni; al Banzai, Banzai, Banzai! Di Ay-o; alle presenze certe (seppure volanti) di Not Vital, artista svizzero antinazionalista col suo Daniel Nijinski Superstar o a quella di Un visitatore di Esther Seidel.

La pietra scolpita non è lasciata a se stessa: studiate le distanze, la luce che potrà ricevere durante il corso della giornata, delle stagioni, come il travertino di Agate Tyche di Johann Wolfang Goethe; o Sentiero murato labirintiforme dello stesso Spoerrri ispirato ai petroglifi precolombiani. (nell’immagine d’apertura)

Ma parlarne, scriverne, potrebbe ridurre la portata della visita. Che, non del tutto inopinatamente, “deve” svolgersi al contrario: meglio prima lasciarsi catturare dal paesaggio, dalla strada che si fa tra le opere (se su una collina vi aspettano Unicorni (Spoerri) e oche e guardiani ancestrali da Dies Irae, Olivier Estoppey, può capitare che vi attraversi la strada un giovane ed elastico capriolo (sorpreso dalle chiacchiere degli umani da poco de-loccati dal Covid); che un divano d’erba vi inviti ‘per finta’ alla sosta. Una volta che avrete l’impressione d’aver attraversato più d’un secolo di storia fra astute altre presenze che v’aspettano dietro i tronchi o al varco d’un ponticello, allora starete per uscire davanti a Il bacio di Ugo Dossi e vi chiederete se davvero avete visto quel che avete visto (compresi quei paesaggi avvolti dalle chiome primaverili, le radure nelle quali echeggiano i canti dei fagiani e dove, come per novelli “Dorothy che va ad Oz”, è stato lasciato un viale sfalciato solo per il vostro passaggio, buono per scarpe o scarpette; c’erano davvero tutti quei materiali (pietre, bronzi, marmi, corten, e resine e plastiche e malte)? Una intera stanza d’artista in Rue Mouffettard a Parigi?…e allora, solo allora, andrete a cercare qualcosa da leggere. Chi sono gli artisti? Perché, cos’hanno visto e pensato? Cominciando, così a seguire altre decine di incredibili percorsi… Da questo passaggio non si vede retorica, dichiarava Daniel Spoerri: «Nel frattempo so che è inutile. È come per un filo d’erba: l’uomo nasce, cresce e poi muore. E facendolo cerca un posto il più possibile al sole e se lo gode. Punto».

«All’inizio volevamo scardinare il mondo con la nostra arte (…) È stato il critico Pierre Restany a scegliere il nome. A quel tempo tutto doveva essere “nuovo”, come il nouveau roman, la nouvelle vague e la nouvelle cuisine. Per me la migliore descrizione di ciò che io e Jean Tinguely, Yves Klein, Arman, Christo e Françoise Dufrêne facevamo, era descritto da Paul Eluard nel suo componimento Donner à voir: noi prendevamo semplicemente delle cose e le mostravamo. Ad esser franchi, a me il termine Nouveau Réalisme sembrava un po’ sciocco, ho cercato di dirlo ma non è servito a niente, ero giovane e dovevo essere felice di far parte del gruppo». Da un articolo di Flavia Foradini del 13/05/2012 apparso su Il sole 24 Ore

http://www.danielspoerri.org/giardino/it/

L’articolo appare in altra forma su Variazioni

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