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Il tempo della memoria

Marzo 04
02:00 2008

Il 20 luglio 2000, con la legge 211, il Parlamento italiano istituiva il Giorno della Memoria, aderendo ad una proposta internazionale di commemorare le vittime del nazismo e dell’olocausto dedicando ad esse la giornata del 27 gennaio, a ricordo del 27 gennaio 1945, data in cui le truppe dell’Armata rossa in marcia verso Berlino raggiungevano la località polacca di Oswiecim (Auschwitz in tedesco, nodo ferroviario e sede di caserme abbandonate, dove era stata costituita una struttura -Konzentrationslager- destinata ad accogliere per il lavoro forzato e per la eliminazione di massa migliaia di persone), e abbattevano i cancelli del KL, prendendo atto di una realtà, quella dei campi di sterminio, già peraltro nota agli Alleati e al Vaticano già dal 1942. La commemorazione, cui hanno aderito anche altre nazioni come la Germania e la Gran Bretagna ha visto l’adesione dell’ONU in seguito alla risoluzione 60/7 del 1 novembre 2005, e viene regolarmente celebrata con grande partecipazione a Roma, dove esiste una numerosa comunità ebraica rimasta vittima del rastrellamento operato il 16 ottobre 1943 nel Ghetto, durante l’occupazione tedesca della città. Quest’anno a Roma il I, III e XI Municipio, particolarmente coinvolti all’epoca nelle attività di Resistenza hanno voluto commemorare con l’iniziativa “Pedalando nella memoria” rivolta agli studenti delle scuole medie inferiori e superiori, fissata al 20 gennaio 2008, con tappe nei luoghi storici di quegli eventi, da Largo Martiri delle Fosse Ardeatine, Piazza 16 ottobre 1943, Piazzale San Lorenzo, per concludersi a Via Tasso, tristemente nota prigione tedesca e attualmente sede del Museo della Resistenza. Se la giornata del 16 ottobre è divenuta pagina di letteratura nel racconto di Debenedetti, anche la prigionia a Via Tasso ha trovato la sua memoria letteraria nell’opera di Guglielmo Petroni “Il mondo è una prigione”, certo meno celebre dell’altra; come del resto tutta la figura di Petroni appare più defilata, e la sua voce sommessa, scontando forse il rifiuto di prendere ‘ordini di scuderia’ e lezioni di morale da chi ancora a ridosso di quei tragici eventi si era reso conto che “certi argomenti già cominciavano a servire meno… anzi, a quelli che s’ingegnavano d’interpretare il futuro, apparivano sempre più chiaramente evitabili”. Poiché Petroni, ritenendo che l’etica non sopporti padroni, scriveva anche: “Occorreva stare attenti che gli entusiasmi collettivi… ci impedissero di ricordare che cosa ereditavamo; occorreva saper distogliere gli occhi dalle piazze, pur senza ignorarle, e continuare a guardare in noi come singole realtà, negli altri come creature che sarebbero tornate in balia di ciò che è incontrovertibile condizione umana. Considero più che giustificato lo stato d’animo che allora fece sì che, anche a molti ch’io stimavo, il libro apparisse segnato da un’ombra di tiepidezza; anzi si disse, da un vago sentore di disfattismo: già tornavano alcune parole, pensiamoci”. E ancora: “Mettersi dalla parte degli eletti, di quelli che hanno avuto ragione, porre gli altri entro l’errore è il maggior contributo alla confusione dei sentimenti; siamo tutti colpevoli, l’ho imparato sempre più, specialmente quando, arrivati in mezzo a noi coloro che avrebbero dovuto aver per diritto di logica tutte le ragioni, ci siamo dovuti accorgere che anche questi portavano in se stessi l’inevitabile bagaglio di colpe”. Ecco perché Petroni restò comunque relegato ad un ruolo secondario, al di là di ogni effettiva valutazione di carattere artistico, e il suo scritto percepito più come testimonianza. Se del resto la letteratura della Resistenza nel suo complesso rappresenta (come poi accadrà del resto anche per la cosiddetta ‘letteratura industriale’) un prodotto ‘a caldo’ della magmatica reazione ad eventi eccezionali, che avevano visto uomini normali coinvolti in vicende straordinarie, è pur vero che essa solo raramente trascende il valore testimoniale per attingere la perennità dell’opera d’arte; nasce e resta letteratura ‘parziale’, sia per la sua peculiarità storica che per il suo essere ‘di parte’. E ciò non ci disturba quando ci viene proposto senza ambizioni di universalità. Molto più ci lascia perplessi, invece, quando l’”essere di parte” viene proposto a dei giovani, ancora in età scolare, nel quadro di manifestazioni sacrosante, e da un pulpito di ufficialità e autorevolezza, come purtroppo ci è accaduto di recente di vedere. Poiché invece riteniamo che, soprattutto ai giovani, si debba proporre un modello di società costruita su valori condivisi, altrimenti davvero diventa il mondo “una prigione le cui dimensioni non cambiano l’impossibilità di oltrepassare le barriere della vita”.

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