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Intervista a Luca Verdone

Marzo 31
22:13 2013

D. – Quali sono le radici della sua multiforme vocazione artistica?
R. – Credo che la personalità di ogni uomo, e dell’artista in particolare, si formi nell’infanzia. Sono le prime o le primissime impressioni del bambino ad accendere il pensiero, condizionando l’atteggiamento futuro, il modo di guardare alle cose. Quest’ultimo è di fondamentale importanza: specie per chi, come me, esercita una professione interamente dedita all’immagine. Le condizioni che portano a una definizione della personalità sono molteplici: l’ambiente familiare, gli stimoli che ne ricevi, le persone che incontri, quel che ogni giorno respiri, vedi, ascolti. Molto formativo per me è stato il fatto che mio padre mi portasse sempre in giro, con sé, negli ambienti che usava frequentare. E incontrava per la maggior parte artisti, scrittori, cineasti: questo ha inevitabilmente finito per plasmare e caratterizzare la mia personalità, orientandola in modo decisivo. C’è da dire, però, che alcune predisposizioni le avevo innate. Ero infatti un bambino estremamente ricettivo e attento alle cose, che osservavo con atteggiamento che definirei “affettivo”. La curiosità: elemento indispensabile a qualsiasi vocazione artistica.

D. – Che cosa significa, per lei, essere un artista?
R. – L’artista è anzitutto un uomo che vive, oltre ad esistere; e vive nella misura in cui sa mantenere accesa la scintilla della curiosità. L’artista è un bambino che si ostina a ricercare e coltivare i propri interessi, usando dei “balocchi” preferiti. Vivere, in fondo, è continuare a giocare. L’artista pesca i simboli della realtà e li condensa in un segno significante.
D. – Il suo rapporto con la macchina da presa. Cosa rappresenta e cosa permette di fare? Quali emozioni veicola?
R. – L’obiettivo è come la penna per lo scrittore. È il mezzo che ti permette di esprimere l’emozione, che scandaglia la realtà, che ne isola i contesti, che ripropone un colore, una prospettiva, un paesaggio. Un volto, per noi che ci occupiamo di cinema, può essere un paesaggio da esplorare. E viceversa: il paesaggio può avere o ricevere l’imprinting originario dell’artista che lo legge, il segno e il senso della sua emozione in quel momento particolare. Il cinema è immagine, certo, ma implica soprattutto la capacità di mescolare e ricreare un tempo con dei fotogrammi, attraverso il montaggio. Mentre la pittura è isolamento di un contesto che viene proiettato in uno spazio-tempo infinito e assoluto, il cinema è processo di immagini ordinate e costruite per creare il movimento. Il cinema, infatti, è la “scrittura del movimento”.
D. – La sua passione per l’arte figurativa.
R. – Basilare, poiché mi ha spinto e mi ha aiutato a fare cinema. Sono partito dai quadri, prima di arrivare alla pellicola. Si tratta di un interesse lontano e originario, come attestano i miei studi universitari di storia dell’arte. La mia fortuna è stata avere un maestro eccelso come Cesare Brandi, che mi ha insegnato a “leggere” le opere d’arte: bagaglio utilissimo di conoscenze e abiti percettivi, cui attingo ogni volta che inquadro qualcosa con l’obiettivo e ne monto le immagini, dopo averlo filmato.
D. – Il rapporto fra scrittura e immagine.
R. – Importantissimo. Bisogna peraltro distinguere fra la scrittura con finalità editoriali e/o letterarie, e la scrittura per il cinema. Quest’ultima non è letteraria. È in un certo senso più tecnica, più specifica. Il cinema ha dei tempi suoi, che devono essere abilmente descritti da uno sceneggiatore nella stesura del copione per un film. Saper scrivere per il cinema è tutta questione di tempi. La scrittura cinematografica tende a descrivere, con caratteristiche spiccate di precisione e sintesi, quella che sarà la ripresa della scena da girare. Funziona in ragione della visibilità, della capacità di rimandare l’immaginazione di chi legge a quella scena.
D. – Il cinema italiano. I registi e i film che ha amato di più.
R. – Fellini, anzitutto, per la sua capacità di interpretare la realtà trasfigurandola, toccando, nel sublime, tutte le corde dell’animo umano. Amo la leggerezza della sua profondità: quel senso di spensierato, malinconico distacco che occorre avere verso le cose della vita, sottolineandone a volte il lato comico o grottesco. Fellini è il mio modello. Io parto dallo stesso presupposto: il cinema come rappresentazione di una realtà filtrata attraverso la nostra immaginazione. Lui è inarrivabile, in questo. Un altro regista che amo è Sergio Leone, con cui ero legato da sincera e profonda amicizia. Mi ricordo che seguii da vicino tutta la genesi e la fase preparatoria di C’era una volta in America. Il primo libro su Per un pugno di dollari lo scrissi io, per i tipi dell’editore Cappelli di Bologna. Sergio mi mandava spesso in giro per il mondo (Parigi, Londra, ecc.) a parlare di progetti editoriali. Di film del cuore ne ho una diecina: La dolce vita, “Otto e ½, Casanovae Satyricon, di Fellini; poi Ladri di biciclette e Miracolo a Milano, di De Sica; Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e soprattutto Il buono il brutto il cattivo, di Leone.
D. – Il cinema italiano, oggi.
R. – Ha spunti interessanti, ma è succube della TV. Purtroppo non se ne può fare a meno: dovremo per forza attingere ai mezzi televisivi. Il pubblico nelle sale andrà sempre più ad assottigliarsi. Saremo chiamati a fare film “giusti” per la TV e la distribuzione dell’home video. Le fonti di finanziamento cambiano: il produttore si sta trasformando in un collettore di canali di risorse eterogenee.

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