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La bellezza della scienza nell’arte della parola -2

Gennaio 10
23:00 2011

Ben diverso il tono delle Lettere copernicane che, in conseguenza delle caratteristiche di determinazione del destinatario e privatezza, proprie del genere epistolare, consentono all’autore dichiarazioni esplicite, in una scrittura piana e diretta, con l’obiettivo di conciliare la teoria eliocentrica con il dettato delle Sacre Scritture («procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio» – Lettera prima, del 1613, a don Benedetto Castelli). Ne Il saggiatore, la serrata dialettica con cui è condotto lo smantellamento della Libra di padre Grassi non impedisce a Galileo di fare incursione in un altro genere, la favola, con il raffinato apologo dei suoni.

Introdotto dal preciso connotato di genere della indeterminatezza spazio-temporale («nacque già in un luogo assai solitario un uomo»), il racconto procede marcando ogni grado nell’acquisizione di consapevolezza del protagonista, e quindi nell’avanzamento nella conoscenza, con il segnale della “meraviglia”, che abbiamo visto topico nella scrittura di Galilei («stupefatto e mosso dalla sua natural curiosità», «or qual fusse il suo stupore, giudichilo chi partecipa dell’ingegno e della curiosità che aveva colui […] ma qual fu la sua meraviglia quando […] ma…poi…crebbe in esso lo stupore […] trovossi più che mai rinvolto… nello stupore»). E del resto non recita il contemporaneo (e sincero ammiratore di Galileo) Marino: «È del poeta il fin la meraviglia?» Né manca l’accenno ad un’altra componente centrale della poetica barocca, l’artificio («con grandissima meraviglia andava osservando con che bell’artificio…»). Ma, non appena entriamo nel contenitore alto del dialogo (selezionato da tutta la tradizione umanistico-rinascimentale come forma privilegiata del trattato, sulla scorta del modello platonico, ma innovazione galileiana per esporre contenuti scientifici), ecco che la densità del procedimento retorico cresce, la trama testuale si infittisce di dittologie e accumulazioni (spesso ternarie), simmetrie, parallelismi e chiasmi, in un ripetersi continuo e martellante, dove il messaggio viene a volte sopraffatto e travolto dall’elemento fonico, reiterato a battere un ritmo incalzante, con un effetto quasi ipnotico di stordimento, paradossalmente non dissimile da quello delle litanie liturgiche. Così nel Dialogo, frutto maturo e vertice della lunga e appassionata relazione di Galilei con la bellezza e l’arte della parola, questa trova anche la sua più esplicita celebrazione: «Ma che dico io di Virgilio o di altro poeta? Io ho un libretto assai più breve d’Aristotile e d’Ovidio, nel quale si contengono tutte le scienze…: e questo è l’alfabeto; e non è dubbio che quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con quelle consonanti o con quell’altre ne caverà le risposte verissime a tutti i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di tutte le arti». Dunque la scienza che si fa parola, la parola che si fa testo e travalica ogni scienza: «Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare…a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni? E con qual facilità? Con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane».
La bellezza e grandiosità dell’oggetto (l’universo), percepito attraverso i sensi, strumenti di conoscenza (la «sensata esperienza»), mette in moto il ricercare dell’artista e dello scienziato, volto rispettivamente a rifondarne l’immagine attraverso l’artificio, o ad indagarne i meccanismi. E l’immagine della statua, più volte introdotta da Galileo nel Dialogo, quasi come leit-motiv, istituzionalizza in qualche modo la contiguità della ricerca artistica a quella scientifica e viceversa («questi meriterebbero d’incontrarsi in un capo di Medusa che gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar più perfetti che non sono […] mettere a canto alla sposa una statua di marmo, e da tal congiungimento stare attendendo prole […] ‘l sapere scoprire in un marmo una bellissima statua ha sublimato l’ingegno del Buonarruoti assai sopra gli ingegni comuni […] s’io guardo alcuna statua delle eccellenti dico a me medesimo…sapresti levare il soverchio da un pezzo di marmo e scoprire sì bella figura che vi era nascosa? […] è un modo di contener tutti gli scibili assai simile a quello col quale un marmo contiene in sé una bellissima, anzi mille bellissime statue»). La “meraviglia” accompagna il ricercare, e il Marino immaginerà una «Casa dell’Arte» che ne accoglie gli strumenti: tutte le macchine cioè impiegate nell’indagine della natura per acuire la percezione sensoriale (il cannocchiale, per esempio), e tutti i libri dell’umanità. Ma cos’è la «Casa dell’Arte»? Un contenitore simbolico (come il Tempio del Sapere nella Città del Sole di Campanella, o la Casa di Salomone nella Nuova Atlantide di Bacone), introdotto da Marino nel canto X (il canto delle “meraviglie”) dell’Adone, lo sterminato poema erotico-allegorico (pubblicato nel 1623 e destinato anch’esso alla condanna ecclesiastica nel 1627) che, prendendo spunto dalle Metamorfosi di Ovidio, diluisce in 40000 versi la vicenda di Venere e Adone, facendone anche metafora del viaggio della conoscenza (secondo riletture recenti che rivalutano il poema come proposta di una teoria della conoscenza basata sull’esperienza dei sensi). In esso Galilei, annoverato tra i grandi inventori, trova un posto d’onore e una entusiastica celebrazione: «Tempo verrà che senza impedimento/ queste sue note ancor fien note e chiare,/ mercé d’un ammirabile stromento/ per cui ciò ch’è lontan vicino appare/ e…/ specolando ciascun l’orbe lunare,/ scorciar potrà lunghissimi intervalli/ per un picciol cannone e duo cristalli.//Del telescopio, a questa etate ignoto,/ per te fia, Galileo, l’opra composta,/ l’opra ch’al senso altrui, benché remoto,/ fatto molto maggior l’oggetto accosta./ Tu, solo osservator d’ogni suo moto/ e di qualunque ha in lei parte nascosta,/ potrai, senza che vel nulla ne chiuda,/ novello Endimion, mirarla ignuda». (G. Marino, Adone,X, 42-43, in Tutte le opere di G. B. Marino, a cura di G. Pozzi, vol. II, Milano, Mondatori, 1976). Qui la «sensata esperienza» di Galilei diviene appropriazione sensuale del reale, e l’allusiva veste mitologica involge anche l’operare della scienza in un velo di edonistico compiacimento.

(Continua)

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