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La fiducia degli italiani

Maggio 23
07:29 2012

L’enorme massa del debito pubblico italiano, vicina ormai ai duemila miliardi di euro, è detenuta al sessanta per cento dai risparmiatori italiani ed il rimanente è in mano estera, con percentuale in discesa. Credo sia opportuno analizzare questo dato che di per sé sembrerebbe poco importante, ma che ha dei significativi risvolti sia in campo economico che finanziario.

Un debito detenuto prevalentemente in mani italiane riduce il rischio di volatilità accentuate, vale a dire il saliscendi di quotazioni e soprattutto dell’altalena dei tassi di rendimento, degli scossoni determinati dalle agenzie di rating, cioè di quegli istituti che nei tempi passati hanno contribuito a generare ansie e nervosismi con i loro ‘voti’ e giudizi sulla bontà o meno dei titoli sovrani dei vari emittenti, ed anche ad attenuare l’opera spesso destabilizzante dei grandi fondi speculativi che giocano una rischiosa partita di compravendita di enormi quantitativi di titoli. Tutto questo in campo finanziario, mentre in quello economico, più legato ad aspetti politici, abbiamo assistito ad una sempre più crescente attenzione da parte del governo all’acquisto dei nostri titoli sul mercato interno. Già la precedente emissione di Btp Italia, il cui collocamento si è chiuso nel marzo scorso, è stata preceduta da un battage pubblicitario senza precedenti ed il risultato è stato straordinario in termini di raccolta, con più di sette miliardi di euro. Ciò ha consentito alle istituzioni finanziare centrali di avere un po’ di respiro sul fitto programma di emissioni volte ad allungare la durata media dei titoli, oltre che centrare un ulteriore effetto di non poco conto: il debito diventa tecnicamente e politicamente più controllabile. Abbiamo detto che l’altra parte, minoritaria, detentrice dei nostri titoli di stato è straniera, in particolare è rappresentata dai grandi fondi comuni d’investimento, da assicurazioni e da grandi investitori e che la loro presenza costituiva, fino all’anno scorso, il cinquanta per cento del totale ed oggi si attesta intorno al quaranta per cento e continua a calare.

Detto così potrebbe dare adito a qualche preoccupazione, in quanto se qualcuno disinveste, si rischia di mettere in crisi il sistema, ma fortunatamente c’è stata una pronta sostituzione di chi è intervenuto investendo a sua volta, in particolare il sistema bancario. Le banche, infatti, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, hanno usufruito dei cospicui prestiti messi a disposizione dalla BCE per acquistare a piene mani titoli di stato dagli appetitosi rendimenti. Una riflessione è d’obbligo: se continuasse così saremo in grado di assorbire ulteriori disaffezioni degli investitori stranieri? La domanda, però, nasconde un’ansia eccessiva. È vero che dall’estero hanno alleggerito le posizioni sul debito pubblico, in generale su quello europeo e non solo su quello italiano, per le crescenti preoccupazioni generate in campo politico dai recenti avvenimenti che coinvolgono stati membri ed in particolare la Grecia. Credo che su questo punto bisognerebbe spendere qualche parola in più, ma solo dopo aver concluso che se pur è vera la diffidenza degli stranieri sulle obbligazioni statali italiane, non si tratta tuttavia di disaffezione. I nostri titoli, infatti, rimangono appetibili sia per il tasso di remunerazione che per il giudizio sull’emittente. Sondaggi effettuati nei confronti di grandi investitori stranieri ci dicono che, partendo tutti dal presupposto che l’Italia non sia sotto il rischio di default, cioè di fallimento, stia tornando una certa positività che ancora non si concretizza nel tornare ad investire nel nostro Paese, ma se imboccassimo un circolo virtuoso, le preferenze degli investitori ci favorirebbero.

Certo, in Europa aleggia il fantasma della mancanza di coesione e soprattutto di quella visione unitaria economica e politica che abbiamo avuto già occasione di enunciare e quindi siamo tutti coinvolti in un vortice di reciproca diffidenza che agevola gli attacchi di chi vorrebbe affossare l’euro e la comunità europea. Ecco quindi che torniamo alle problematiche odierne che vedono in prima linea la Grecia ed il suo destino in Europa. Dal punto di vista economico la nazione ellenica pesa circa un tre per cento del totale complessivo degli aderenti all’Unione Europea e, seppur dolorosa, la sua fuoriuscita non rappresenterebbe un grosso problema, ma lo sarebbe dal punto di vista della considerazione internazionale in quanto viene ad essere minato il principio di solidarietà e coesione degli stati membri, innescando un possibile effetto domino che potrebbe investire i Paesi economicamente più deboli e già provati come la Spagna, l’Irlanda ed il Portogallo. Peggiore soluzione sarebbe quella di abbinare all’uscita l’abbandono dell’euro da parte ellenica e ritorno alla dracma, con effetti devastanti sulla già disastrosa condizione del Paese: costerebbe ai Greci circa mille miliardi di euro e le conseguenze sono facilmente immaginabili. Ma come si pone l’Italia in questo scenario e, soprattutto, come è vista alla luce di questi accadimenti? «Negli Stati Uniti i fondi d’investimento sono alla finestra per quanto riguarda l’Italia. Ma, rispetto ad un anno fa, sono più ottimisti sul nostro Paese. Se anche la Grecia uscisse dall’euro, escludono un effetto contagio…» Sono le parole dell’amministratore delegato di una Società di gestione che ha recentemente concluso il suo viaggio in America, intervistando i principali attori dello scenario finanziario d’oltreoceano. D’altra parte alcune considerazioni sono possibili in quanto supportate da dati concreti: l’Italia non ha problemi di bilancio in quanto l’avanzo primario, seppur piccolo, c’è. La credibilità sull’azione governativa si sta faticosamente ricostruendo per aver ‘fatto i compiti a casa’, pur tuttavia dobbiamo frenare l’ingordigia di tutti coloro che basano la propria esistenza sull’intrallazzo e la corruzione, principali cause dei disastri ellenici, entrando nel concetto di controllo super partes che purtroppo è relegato in infimo piano nella nostra cultura e che costituisce, secondo me, il vero nostro tallone d’Achille. Le vere eccellenze italiane in tutti i vari settori della vita economica, scientifica e sociale, stentano ad emergere, quando non prendano direttamente la strada dell’estero, a causa di quell’incombente presenza di pastoie create nei decenni dalla burocrazia e dalle obsolete abitudini che non ci consentono di guardare all’innovazione ed è ormai facile usanza addebitare la colpa dello statu quo a chi ci ha preceduto. Dovremmo dotarci di un sistema di controllo serio ed affidabile di cui dubito ci sia la volontà di creazione. Rischio la retorica e mi fermo, ma vorrei soffermarmi su un recentissimo accadimento e su una considerazione. È su tutti i giornali che un colosso finanziario del calibro di JP Morgan abbia dovuto dichiarare pubblicamente una perdita secca di circa due miliardi di dollari (ad oggi sembra siano quasi quattro) per una scelta operativa sbagliata, difesa inizialmente dal suo amministratore delegato che oggi ha ammesso il suo errore e chiesto scusa. Siamo di fronte ad un altro potenziale rischio di crac finanziario. Questo è il fatto. La considerazione di cui sopra è questa: ci si accorge subito o quasi di un guasto al sistema solo perché esiste un insieme di controlli che fa scattare l’allarme (e nel sistema americano le società finanziarie sono monitorate giornalmente per cui è estremamente difficile eludere la sorveglianza), mentre da noi ancora si discute sulle cause del crac di alcune istituzioni finanziarie e si arriva ad una risposta (se ci si arriva!) solo dopo decenni. Si potrebbe obiettare che anche da noi esistono le istituzioni delegate a controllare. Ed è vero, ma la domanda è: quanto sono efficienti e, soprattutto, autonome?

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