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La fissione nucleare compie 70 anni – 35

Febbraio 28
09:56 2011

La pila atomica in TV (seconda puntata)

Il narratore è Arthur H. Compton. «Tra i membri della commissione di indagine, scelsi il componente più giovane: si chiamava Crawford Greenewalt, già famoso per il suo talento precoce e promettente dirigente della Du Pont de Nemours, una multinazionale specializzata in impianti chimici di produzione e in armamenti. Attraversammo il campus e ci accomodammo sulla balconata, dove ora – durante il programma televisivo della CBS – sono in piedi Enrico Fermi, Leo Szilard e Leona Marshall.

Al cospetto di una pila alta 10 metri. «Vedemmo questa enorme pila di uranio e grafite: era alta circa 30 piedi e su di essa aveva già provato un notevole numero di esperimenti preliminari: erano ormai pronti per l’esperimento finale, il cosiddetto esperimento critico. Ricordo distintamente le istruzioni di Enrico Fermi a Walter Zinn, volte a fare estrarre le barre di controllo progressivamente di una entità sempre maggiore. Sulla base degli esperimenti precedenti, i più consapevoli erano coscienti del fatto che questo sarebbe stato il giorno della verità. Si stava andando incontro alla prima reazione a catena della storia, innescata dall’uomo, erano questi il giorno, l’ora, forse il minuto. Si potevano ascoltare i contatori di radiazioni emettere un tintinnio come coppe di champagne contigue in un grande vassoio. Tintinnavano con frequenza sempre più elevata fino a diventare un vera e propria soneria. A quel punto sono stati disattivati i contatori e attivati i galvanometri: la macchia di luce di questi ultimi ha cominciato a salire, con rabbiose impennate. Fino a raggiungere la metà della scala. A quel punto, Fermi ha detto con voce perentoria: ‘Inserite fino in fondo la barra di controllo’. Immediatamente dopo l’esecuzione di questa manovra, lo spot di luce del galvanometro è precipitato a livello zero. La reazione a catena e il rilascio di energia nucleare erano stati innescati, controllati e spenti. Allora Fermi disse in tono calmo ma sostenuti: ‘Ragazzi, è fatta !’ Fischi, grida, applausi. Il sorriso di Fermi esprimeva soddisfazione estrema. Eugene Wigner estrasse, da qualche nascondiglio recondito, un fiasco di Chianti. Fu vuotato celermente in bicchieri di carta e firmato da tutti i presenti. Un po’ in disparte, il sottoscritto osservava le espressioni del viso di tutti i protagonisti. Fermi era rilassato, Szilard invece era cupo e preoccupato, mi aveva detto più volte, delle ripercussioni internazionali dell’esperimento della pila e della costruzione della bomba che sarebbe seguita».

Le rosee prospettive del futuro presidente della DuPont.
Continua la narrazione in prima persona di AHC: «Ma, più di ogni altro, ho rilevato la attitudine del viso di Crawford Greenewalt. Aveva l’espressione di chi ha visto per la prima volta l’arcobaleno. Aveva assistito a un miracolo, niente di meno che un miracolo, la porta dorata di una nuova epoca. Mentre camminavamo attraverso il campus per riguadagnare l’ufficio dove aspettava il resto del comitato di rassegna e controllo dell’esercito, cominciò a confidarmi i pensieri tecnologici più intimi. Il giovane ricercatore di allora, attuale presidente della DuPont, parlava di nuove fonti di energia per muovere le ruote della macchina industriale, di nuove metodologie della ricerca scientifica e medica, di nuove possibilità di cui si era fino a ora soltanto sognato. La storia degli ultimi dieci anni è nota a tutti. Erano molti anni che non tornavo in questo posto, al suolo in cemento segnato con il gesso bianco, al montacarichi per fare salire e scendere uranio e grafite, a questo sogno divenuto realtà. Confesso di provare un forte senso di nostalgia».

ERM. Ora, lasciate che vi presenti Enrico Fermi. Se non fosse sfuggito al regime fascista di Mussolini, il nemico avrebbe avuto forse la bomba prima di noi.

Il reattore nucleare non è una bomba: e viceversa. «Il mio nome è Enrico Fermi. Sono nato a Roma. Il 2 dicembre 1942, ho interpretato la parte del regista: in altre parole, non sarei riuscito a fare nulla senza l’aiuto e la collaborazione degli altri ragazzi e ragazze. Questa stanza mi appare oggi molto diversa da quella di 10 anni fa: l’ambiente mi sembrava più grande, il soffitto più alto. In quel particolare giorno, ci eravamo raccolti sulla balconata dove mi trovo ora. Malgrado qualche somiglianza tra il funzionamento di una pila atomica e quello di una bomba atomica, esistono pochi esperimenti o strumenti in fisica che si muovano tanto lentamente come la reazione che ha avuto luogo in quella particolare macchina. Questa condizione era pianificata: non volevamo una esplosione, neppure la remota possibilità di una esplosione. La reazione procedeva così lentamente che gli osservatori riuscivano a malapena a distinguere i mutamenti avvenuti sugli strumenti di controllo: soltanto grazie a opportuni calcoli, è stato possibile affermare che avevamo raggiunto lo stato di criticità della reazione, in cui cioè questa ultima era in grado di autosostenersi. Avevamo preso alcune precauzioni estreme: c’era una barra di controllo, denominata zip (in inglese, “chiusura lampo”) manovrata da Walter Zinn. Qualora si fosse reso necessario, questa barra sarebbe stata inserita nel reattore, in caduta libera, guidata dalla forza di gravità. Dopo alcune ore di avvicinamento progressivo al punto critico, lo abbiamo raggiunto: il rilascio energetico ha allora cominciato ad aumentare. Se avessimo mantenuto quelle condizioni fino alle ore della notte, quella erogazione energetica avrebbe continuato ad aumentare raggiungendo intensità elevatissime. Tuttavia, dopo un tempo ragionevole, abbiamo inserito le barre di controllo e l’intensità si è subito affievolita».

La sicurezza della pila. «Il mio nome è Samuel K. Allison. Sono nato a Chicago, a quasi mezzo miglio da Ellis Avenue, ma ho studiato alla Università di California-Berkeley. Che cosa ho fatto nell’ambito del progetto? In varie occasioni, un po’ di tutto. Allo Stagg Field una pila di uranio e grafite. Un’altra volta sono stato a capo di un gruppo di chimici. A Hanford, nello stato di Washington, capitanavo una squadra di ittiologi per una ricerca che riguardava il possibile inquinamento del fiume Columbia, con conseguente danno alle famiglie di salmoni. Mi dispiace non sia presente Al Graves: lavora a Los Alamos, nel New Mexico, e non ce l’ha fatta a liberarsi e venire fino a qui. Il giorno dell’esperimento critico, lui era stato in cima a quella piattaforma pronto a intervenire, se ve ne fosse stato bisogno: cioè nel caso che la pila fosse sfuggita al controllo degli operatori in consolle. Aveva tra le mani un grosso contenitore pieno di una soluzione liquida di cadmio. Il cadmio, nei confronti di una reazione a catena, ha lo stesso effetto dell’acqua nei riguardi del fuoco. Pensavamo che, se fosse andato tutto in malora, avremmo sempre potuto affogare la pila nella soluzione di cadmio. Siamo stati felici che la circostanza non si sia presentata: avremmo rovinato la purezza chimica di uranio e grafite e reso inutile il loro uso in esperienze successive».

Il brevetto della pila è a nome di Fermi e Szilard. «Sono Leo Szilard, sono nato in Ungheria 54 anni fa. Nel 1939, insieme con Enrico Fermi, ho concepito l’idea di reazioni a catena in un sistema costituito da uranio e grafite. Il 2 dicembre 1942 mi trovavo qui per vederlo all’opera. Quel giorno la mia presenza significava per tutti l’avverarsi della mia dichiarazione di intenti: ve lo avevo detto. Ricordo che quando è calata la sera e tutti erano andati via, eccetto Fermi, gli strinsi la mano e dissi: Credo che questo sarà ricordato come un giorno nero nella storia della umanità».

Il nuovo mondo: gli indigeni (cfr. i neutroni) sono stati friendly. Dopo il successo dell’esperimento sono stati alzati i calici e poi anche i tacchi. Gli scienziati sono tornati al livello stradale della vita quotidiana: da allora, la maggior parte di costoro non è più tornato in questo edificio. Hanno mantenuto il più assoluto silenzio per il resto della guerra e della pace. Comunque, prima dell’esodo generale dai sottoscala dello Stagg Field, era necessario informare le alte sfere dell’esito dell’esperimento critico: l’anello della catena cognitiva da informare era James B. Conant ad Harvard, in modo che potesse girare a Washington la bella notizia. Compton lo fece con la più circospetta delle telefonate. Oggi, Compton si schermisce come attore, ma si è offerto di riprodurre la telefonata per i nostri telespettatori come tributo a Fermi. Hello, Dr Conant. Credo sia interessato a sapere che il navigatore italiano è approdato nel nuovo mondo. Gli indigeni si sono mostrati assai amichevoli. La nave è salva e sono tutti felici. La missione continuerà appena possibile. Arthur Compton è oggi presidente della Washington University di Saint Louis. Le sue parole sono immortalate in una targa di bronzo sul muro esterno dello Stagg Field. Dicono: Il 2 dicembre 1942, l’uomo ha realizzato qui la prima reazione a catena autosostenentesi, dando inizio al rilascio controllato di energia nucleare.

Le conclusioni di Edward R. Murrow. «Fermi e Szilard sono stati due dei molti stranieri che hanno contribuito a questo progetto. La scienza americana non è onnisciente e neppure autosufficiente. Il potere non è assoluto, dipende dal progresso. Tradizionalmente, gli scienziati americani hanno sempre accolto con favore i loro colleghi di differenti nazionalità. Oggi, come conseguenza della legge McCarthy sull’immigrazione, sarebbe assai difficile per Fermi e Szilard entrare in questo paese. Il permesso di immigrazione è stato negato a molti scienziati stranieri. Stranieri non comunisti. Questa situazione non è figlia della grande tradizione americana. Esiste una frase lapidaria, pronunciata da un uomo chiamato Adolf Hitler: Il grande potere di uno stato totalitario è di costringere coloro che lo temono a imitarlo. Buona notte e buona fortuna».
(Edward R. Murrow, See It Now, CBS Television, 1 dicembre 1952) † (Deceduto il 31.08.2010)

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