La giustizia al tempo di Socrate e il sistema attuale – 2
Vi era dunque una massiccia partecipazione dei cittadini (in qualità di giudici popolari) alla amministrazione della giustizia; vi era poi la convinzione che con tale elevato numero di giudici fosse più difficile la corruzione degli stessi. A ciò si univa un sistema di sorteggio elaborato e complicatissimo tendente anch’esso a favorire la massima imparzialità. Infatti ogni giudice che si presentava alla mattina per mettersi a disposizione del tribunale, doveva depositare una tessera metallica con il suo nome e la sezione di appartenenza. Questa tessera veniva inserita in una urna e quindi presa a caso dalla stessa ed inserita in uno strumento rettangolare chiamato Kleroterion, una specie di pilastro con tante fessure nelle quali correvano poi anche delle scanalature dove venivano inserite palline bianche e nere. Dalla combinazione di questo meccanismo (tessere e palline) venivano fuori i nomi dei giudici assegnati ad ogni diversa causa. Tale esasperazione nel sorteggio doveva servire a tranquillizzare l’opinione pubblica, gli addetti ai lavori ed infine coloro che si vedevano giudicati.
In realtà le sentenze dell’Eliea erano condizionate da una serie di cause generali e di circostanze contingenti. Nell’epoca ateniese non esisteva, come avviene oggi, la Pubblica Accusa (pubblico ministero) ed il processo poteva indifferentemente essere promosso da qualsiasi cittadino e per qualunque accusa. La differenza essenziale, che è di una rilevanza enorme, con il processo romano e quindi con quello attuale, è l’assenza di un diritto penale sostanziale, assenza dunque di un codice che prevedesse i fatti costituenti reato per i quali soli si poteva essere chiamati a rispondere in giudizio. Poteva dunque accadere che anche un omicidio potesse non essere perseguito (ove nessuno ne facesse richiesta in tal senso). D’altra parte anche un cittadino che non fosse direttamente toccato da un evento delittuoso di qualsiasi natura, poteva chiedere che se ne discutesse in giudizio.
Le cause, infatti, erano principalmente di due tipi. Le dike (i cosiddetti processi privati) nelle quali la persona interessata (ad esempio parte lesa per omicidio, furto, falsa testimonianza etc.) chiedeva la condanna del responsabile ed il risarcimento. Diremmo oggi che si trattava di cause nelle quali si esercitava (almeno sotto il risvolto civilistico) un diritto soggettivo. Le altre denominate graphè erano cause nelle quali colui che agiva non era direttamente leso dall’azione illecita ma agiva nell’interesse della collettività (ad esempio chiedendo la punizione per un furto che non lo riguardava). Il cittadino, in questo caso funzionava da pubblico accusatore (diremmo oggi che siamo nel campo degli interessi legittimi). Vi era infine la graphè paranomon, uno speciale mezzo di tutela della democrazia contro l’operato di cittadini che in forza della loro carica (ad esempio come componente dell’Ecclesia o della bulè, il governo dell’epoca, o di altre istituzioni) avessero fatto emanare disposizioni contrarie alla legge o alle procedure. Curiosamente vi era un prescrizione di dodici mesi, quindi il responsabile non veniva più perseguito passato tale tempo, ma la decisione illecita poteva sempre essere annullata a richiesta delle istituzioni attraverso i loro rappresentanti chiamati syndikoi. Tale procedimento andò via via trasformandosi in strumento di lotta politica tra le varie fazioni fino a diventare una specie di riedizione dell’ostracismo, ormai abbandonato da circa un secolo.
Seguitando a delineare i tratti essenziali della giustizia ateniese si deve ricordare come nel processo vi fosse una attività istruttoria molto carente ed elementare svolta da magistrati che si limitavano a svolgere compiti più propri di un cancelliere o addirittura di un usciere. Nel processo non vi era assistenza di esperti di diritto, non presidenti o giudici togati, né la difesa di avvocati. Era lo stesso imputato che leggeva o mandava a memoria una arringa preparata per lui da un logografo (letteralmente scrittore di discorsi), discorso che doveva essere contenuto in un tempo rigidamente prefissato e scandito dalla clessidra (a seconda dell’importanza della causa da pochi minuti ad un massimo di 48).
Il voto era segreto e la decisione dei giurati era completamente libera ed essi creavano una sentenza ad hoc per ogni causa essendo svincolati dal rispetto di codici o di precedenti giurisprudenziali. Né era richiesta per essi una particolare preparazione culturale e tanto meno giuridica. Poteva accadere così che la sentenza fosse il frutto della suggestione generata nella giuria da un discorso particolarmente efficace o accattivante preparato dai logografi più bravi e celebrati, una specie di spettacolo alla fine del quale vi era il rischio di un giudizio superficiale e non ancorato al rispetto dei fatti e della “verità processuale”. È vero che anche oggi vi sono i “principi del foro” ma, per quanto bravi o affabulatori, trovano un limite nel rispetto della procedura, nel contraddittorio tra le parti e nella norma del diritto sostanziale, cosicché la loro bravura concorrerà soltanto in parte all’accertamento della verità processuale e la sentenza sarà essenzialmente più giusta perché emessa in ossequio di regole certe, fra tutte quelle procedurali che non sono inutili cavilli ma veri e propri paletti a difesa di tutti e soprattutto dei meno abbienti (salvo eccezioni ormai famose ma pur sempre eccezioni).
Altro limite grandissimo della giustizia ateniese è la quasi totale assenza dei gradi di appello, ciò che impediva un riesame della questione con diversi giudici e poi il controllo di legittimità (oggi ricorso per cassazione). In realtà vi era una specie di appello alla Ecclesia (assemblea generale) ma esso comportava un procedimento complicatissimo ed era pressoché inutile, in quanto l’Ecclesia praticamente mai sconfessava l’operato dell’Eliea che era una sua creatura (emanazione).
Insomma, la giustizia ateniese, al di là delle buone intenzioni iniziali, puramente teoriche, attraverso una maniacale applicazione di uomini e sistemi di sorteggio (Aristofane magistralmente descrive nelle “Vespe” i limiti della giustizia dell’ epoca descrivendo un popolo maniacalmente dedito ai processi spettacolo e pervaso dal gusto sadico della condanna) non era in grado, in moltissimi casi, di fornire sentenze “giuste”. Ecco dunque la condanna a morte di Socrate promossa dalla denuncia di tre giovani che danno voce al malcontento popolare nei confronti del filosofo che tentava di educare, con metodo dialettico affatto nuovo, al culto della saggezza, della verità e del bene. La sentenza, per quanto si può ricavare dall’Apologia e dagli altri dialoghi, fu una sentenza esclusivamente emotiva con motivazioni politico-religiose conservatrici.
Dunque dalla “vicenda Socrate” noi possiamo trarre insegnamenti non solo riguardanti la filosofia e l’etica (i messaggi più importanti) ma anche l’apprezzamento per l’evoluzione e la raffinatezza (non certo fine a se stessa) del sistema giuridico attuale che è effettivamente garantista e, salvo eccezioni fisiologiche, essenzialmente giusto.
Un’ultima considerazione sulla vicenda riguarda una speciale attenzione che noi dobbiamo dedicare alla “virtù” della tolleranza. Pensiamo che spesso le cose hanno più facce e si possono presentare con aspetti fuorvianti. In sostanza Socrate era considerato dai suoi concittadini semplicemente un “rompiscatole”. Noi dovremmo imparare ad aspettare almeno un po’ prima di etichettare come tali alcuni personaggi (della cultura, della scienza etc.) che ci fanno riflettere sia pure in maniera provocatoria.
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