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La guerra è sempre troppo lontana…

La guerra è sempre troppo lontana…
Maggio 20
14:06 2015

Se la guerra o le guerre non sono altro che narrazione e la loro distanza dalle nostre vite mantiene quel flebile legame con la rappresentazione della sofferenza e dell’orrore, qualunque cittadino europeo non può far altro che stabilire un rapporto frazionato con le altre migliaia di racconti sulla propria contemporaneità. Mentre il mito ancestrale del conflitto, qualunque esso fosse, ha pervaso per secoli la nostra dimensione umana, sottoponendolo ad una dialettica continua tra pace e guerra, tra contrazione e distensione, nulla ma proprio nulla rimane di questa consapevolezza nel nostro occidente evoluto ed economico-centrico.

Anche un conflitto come quello tra Ucraina e Russia sembra evolversi sotto l’egida di accordi tra le cancellerie europee senza però impattare seriamente sulla nostra quotidianità tranne quando, per vie oblique e tangenti la nostra vita, riaffiorano nella loro dimensione relazionale, di tutti i giorni. Il racconto di una badante ucraina che ha perso il proprio nipote durante una gita su una barca fatta saltare dall'”esercito filo russo” e non riesce a darsi pace seppure si occupa diligentemente del tuo genitore o l’ingombrante presenza di africani mimetizzati tra la folla che imbarazzano lo shopping compulsivo dei sabati pomeriggio e quelli degli sbarchi continui e incessanti sulle nostre meravigliose coste. Ecco, solo quando in maniera apparentemente ininfluente ciò accade, si ha un piccolo sussulto egoistico o forse solidale. Eppure, oltre la narrazione dei conflitti, ci sono morti e diseredati alla ricerca di quel sentimento di pietas che non possiamo e non dobbiamo reprimere. Il dilagare di asserzioni populistiche e demagogiche non fa altro che spostare il proprio sentire sull’asse della più becera semplificazione e questo mondo complesso ha bisogno di tutto tranne che di semplificare. Distanza, si invoca e invochiamo distanza da tutto ciò, seppure nella maggior parte dei casi sono state le politiche occidentali ad aver contribuito a creare instabilità e la gestione dei fenomeni di ritorno diviene ora il focus su cui orientare i nostri sforzi.
Certe decisioni, a chi non crede agli obiettivi enunciati, quelli che si prefiggevano di restituire la libertà ai popoli oppressi, son sembrate da subito peccare di superficialità, di pressapochismo strategico e infatti così si sono rivelati. Certi equilibri possono ridefinirsi solo se vi è una soluzione concreta e realizzabile. Gli ambigui e antichi rapporti con la Libia di Gheddafi, dittatore e partner economico delle democrazie occidentali, di cui si ricorda improvvisamente la sua natura antidemocratica si sfaldano improvvisamente quando a decidere è la Francia con cui contribuiamo ad eliminarlo ma per far posto a cosa? All’incontrollabile, al caos dei rapporti di forza tribali da cui riaffiorano eterni conflitti, sopraffazione e spregiudicatezza che rende anche a noi la vita difficile.
In Iraq, i fatti si raccontano da soli. Si è voluta una guerra, cui anche noi abbiamo partecipato, non perché Saddam rappresentasse il peggiore dei mali, ma perché si era convinti di riuscire a gestire una complessità politica e soprattutto etnico religiosa attraverso la menzogna dell’esportazione della democrazia. Risultato, è la formazione dello stato islamico ed un unico grande padrone delle istanze pseudo religiose, gli stati del cosiddetto Golfo Persico, con in testa l’Arabia Saudita, dietro cui si muovono sovvertitori interni ed esterni del Regno saudita, in testa il famoso agente della CIA Bin Laden, ma i sauditi sono prìncipi della City e acquistano squadre di calcio europee, marchi e griffe di sicuro ritorno economico e tanto altro ancora nel vaso di pandora di questa civiltà apocrifa. Finché una pallottola o un ordigno non penetrerà la nostra carne e le nostre sicurezze, rimarremo a discettare dei centri di accoglienza e delle invasioni “barbariche” mentre solo ad un passo da noi, ogni giorno, il tributo di sangue non tende a diminuire.
Le analisi sono sempre troppo puntuali, stringenti, all’interno del perimetro della ragione, dell’idea che tutto possa essere istruito e scandagliato in un reportage o in un documentario. La distanza emotiva è figlia della realtà descritta dai plot cinematografici, dell’interrogarsi a vuoto ma di umanità vera si tratta, non scordiamolo, e ciò che anche inconsapevolmente abbiamo provocato, ci torna indietro sotto forme drammatiche e insostenibili.

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