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La malìa del Caprone azzurro

Dicembre 02
13:34 2014

Quando la sera il Poggio di San Martino cominciava a buttare manciate d’ombra sopra le grotte del Cunicchio, la gente povera si radunava attorno ai focolari, pieni di fumo aspro, e fra un colpo di tosse ed una bevuta di vino ancora più aspro, nascevano le storie.
Erano racconti suggeriti dalla natura del luogo, perché le colline sono dolci, il lago è pieno di misteri e il vento racconta nella valle cose bizzarre, quando viene dal monte di Santa Fiora, verso il finire del giorno.
Tempi e tempi fa, gli aruspici venivano ad interrogare qui i voli delle poiane per riferire le risposte degli dei. Da allora i posti hanno conservato una specie di magia, evocata spesso dal vino, cavallo della fantasia.
E così capitava, ogni tanto, di sentire storie come questa.
Si diceva che fosse azzurro e avesse una voce umana molto, molto dolce: era il Caprone! Quello che i preti chiamano il Diavolo, mentre con l’acqua santa spruzzano la Casa del Cempene, tessuta di rovi e di macerie.
La Casa del Cempene era stata una villa romana, costruita negli ultimi anni della repubblica. Poi il tempo l’aveva accarezzata tanto a lungo da consumarne la struttura, e la fantasia popolare l’aveva fatta diventare il covo delle streghe.
Erano donne. Le donne delle Coste che, prima o poi, dovevano avere in sé il germoglio del seme diabolico, inserito nel loro petto fin dalla nascita. Sì, le donne delle Coste avevano in sé il dèmone degli antichi luoghi, nel grembo. Gestato come un fanciullo per esplodere nell’orgia.
Si radunavano perciò, la sera di ogni sabato, lì, alla Casa del Cempene e suonavano sommessamente il cembalo: il cempene, appunto.
Suonavano piano, piano, lente, con insistenza, finché, poco prima di mezzanotte, il Caprone azzurro si rigenerava nel respiro della vecchia terra madre, nata dai fuochi, nella notte dello spazio.
Azzurro. Come i dèmoni nelle tombe di Tarquinia. Azzurro, come il cielo, nemico degli etruschi, dal quale venivano i fuochi del fulmine, la grandine, i venti rabbiosi. Gli etruschi erano uomini di terra e gli dei benèfici erano laggiù, negli spazi fantastici dell’ipogeo.
Il dèmone azzurro veniva evocato dal canto, e le donne che lo avevano partorito lo seguivano in silenzio, lungo i sentieri che il piede dell’uomo aveva graffiato sui fianchi delle colline. Fino alla valle perlata e poi fino al lago.
Allora il Caprone saliva sopra una barca di pescatore e con la voce morbida pronunciava una frase. Voce di carezza, fame millenaria di donne violentate e péste nell’amplesso bruto. Voce d’incanto. E la barca con tutte le streghe si staccava dalla riva e se ne andava fino all’isola della regina strozzata.
Allora lo scoglio si svegliava dal sonno e sorgeva con veloce tenerezza l’erba dei desideri. Dovunque. Le streghe scendevano dalla barca e cominciavano a ballare col Caprone, fino all’orlo della pazzia, fino a che l’erba si affastellava da sola sopra un tufo rotondo e il Caprone chiamava lo spirito del fuoco che dormiva dentro le bocche deformi delle rocce.
Il fuoco veniva su, quieto, quasi senza rumore e bruciava l’erba. Restava solo un pugno di cenere sopra la pietra di tufo giallo. Le streghe la prendevano, e con l’olio d’oliva spremuto a dicembre, quando la luna piena si lava il viso con la tramontana schietta, facevano l’unguento. E lo portavano con sé, in piccoli orci di coccio. L’unguento serviva per volare. Nell’olio c’era la cenere di belladonna.
Tutte le streghe, di notte, non potevano uscire dalla porta di casa, ma solo dalla finestra, dopo essersi unte il petto con l’unguento. A volo, nelle crepe oscure della valle.
L’unguento serviva anche a far morire l’amore. Bastava toccare qualcuno con la punta del dito intrisa, e quello, uomo o donna, non avrebbe potuto mai più innamorarsi. È questa l’angoscia della schiavitù: quando la frusta è la sola carezza. Con l’unguento si potevano fare anche i filtri per procurare la morte o le malattie lunghe che nessun medico sapeva curare.
E questa è la tribolazione degli odi, affogati nella paura: suoni vecchi di carni percosse, graffi di falco nel cuore.
E su tutto vegliava il Caprone, con l’occhio luminoso e la voce persuasiva, che dava il senso di una dolce vertigine a tutti quelli che avevano la sorte di ascoltarlo.
Peppe lo sapeva. Peppe era un pescatore. Aveva sentito tutte le storie dei vecchi e sapeva ogni cosa sul Caprone e sulle streghe. Peppe aveva un’inquietudine dentro di sé. Ogni lunedì mattina aveva notato la sua barca fuori del posto dove l’aveva arenata la sera del sabato precedente. Chi usava la sua barca?
Un sabato sera decise di nascondersi per vedere quello che sarebbe successo.
Le barche del lago antico sono piatte, senza chiglia e triangolari. Con i remi decentrati e lunghi per remare in piedi, a faccia avanti. Le barche sono grandi ed hanno una punta aguzza. Peppe prese un mucchio di reti e le gettò sulla prora. Poi ci si rannicchiò sotto, la sera di un sabato qualunque, mentre il sole, che aveva corteggiato le isole tutto il giorno, se ne andava a lavarsi laggiù al mare, rosso di rabbia per la loro freddezza.
Peppe attese finché il cuore prese a gemere e le membra divennero tutto un formicaio.
Ma, quando ormai non ci sperava più, sentì un sommesso suono di cembalo e vide, lì sulla rena, il Caprone con la lana azzurra e le donne in estasi. Le guardò. Una la riconobbe subito. L’Assunta, la sua ragazza.
Gli venne una cosa strana: come se una pinza gli tirasse giù la gola, dentro lo stomaco. Rimase fermo. Tonto.
Il Caprone salì in barca, con le zampe anteriori sul largo sedile e quelle posteriori sul fondo. Come un vecchio pilota, curvo verso la prua. Le streghe, dietro di lui, s’erano raggruppate sulle fiancate. E parevano pipistrelli di miele attaccate alle tavole.
Il Caprone disse soavemente: «Vai per sette!». Ma la barca non si mosse perché erano di più. Allora si volse alle donne: «Qualcuna di voi è incinta?». «No! No!» risposero tutte alla rinfusa. «Eppure qualcuna di voi ha un figlio dentro!» E disse alla barca: «Vai per otto!» e la grossa barca si staccò dalla riva, lenta e morbida sull’acqua.
Fu sull’isola subito, come lo scoppio d’un baleno, ma come se la cosa fosse durata un secolo. E scesero. La grande capra azzurra con le donne.
Allora fiorì tutta l’isola come quando si riscalda il grande padre Equatore. L’isola della regina strangolata dall’avarizia d’un guerriero, simbolo di tutte le donne in cerca di libertà.
Lungo le fiatate del profumo le streghe ballarono tutta la notte e l’erba si radunò da sola sopra il masso. Venne il fuoco su, dalle gole buie della roccia e fu portato, sul rombo dei cembali, l’olio lucido, a ruscelli.
Il cuore femmina del mondo ebbe il momento del frutto vietato, senza paure di maschio. Col fiato della bestia e il brivido dei sogni.
Poi si sentì, lontano, il primo tocco dell’Ave Maria e l’unghia del tempo afferrò di nuovo la vita. La barca tornò, per otto respiri, e tutto si spense in un frullo mentre il primo bacio del sole faceva diventare rossa la femmina dell’orizzonte.
Peppe restò solo, oppresso da una pena, come un macigno che pesasse sul cuore. Essa era maledetta. Aveva osato rompere il giogo della vita per il volo verso i cieli oscuri della notte libera.
Bisognava fermarla. Fermare il male della profonda orgia dei sogni. Cercò di camminare, ma era difficile.
Era domenica e già suonava il primo tocco della messa. La messa si diceva lassù, nella chiesetta di San Pancrazio, quasi appena all’alba. Ci andava tutta la gente, perché dopo c’erano i lavori da fare per la campagna e i padroni dei poderi non sapevano aspettare; come ogni padrone sulla terra.
Peppe corse, inciampò, si stracciò la pelle, ma arrivò prima di tutti, mentre il prete suonava la campana del terzo cenno ed oscillava dal sonno, quasi come la vecchia fune che teneva in mano.
Peppe gli disse: «Stamattina servo la messa io!». Il prete, alto, magro, aquilino, domandò: «Perché?». «Perché sì! Ho fatto un voto!». «Allora…!». E Peppe si mise a fianco dell’altare e cercò di ricordarsi come si serviva la messa ai tempi dell’infanzia.
Il prete cominciò in un latino masticato male e la gente rispose ancora peggio. E fra la gente, c’era l’Assunta. Fresca, bella da far stare male: tutta pulita, con un rametto d’erba strana nella crocchia dei capelli.
Peppe era uno straccio. Voltò il messale e inciampò. «Stanotte non hai dormito?» sussurrò il prete tra un’invocazione e l’altra. «No! No! Non vi preoccupate!».
La predica fu un’ossessione. Peppe la visse quasi come uno che aspetti la mannaia. E proprio quando stava per non farcela più, il prete alzò l’ostia per l’offertorio. Peppe versò il vino nel calice e attese, col piattino di vetro e l’ampolla dell’acqua, che il prete si lavasse le mani. Sua nonna gliel’aveva detto: «Quando il prete lava le mani, se non si butta a terra quell’acqua, le streghe che sono in chiesa non trovano più la porta e restano a morire lì dentro».
Il prete mormorava le preghiere della lavanda quando vide, stupito, che Peppe se ne stava andando. Egli non sentiva più niente. Col piattino stretto fra le mani uscì dalla porta della sacrestia. Il prete e la gente ci restarono male, però la messa doveva continuare.
Nessuno si accorse del lampo di disperazione che si era acceso negli occhi dell’Assunta.
Peppe lavorò. Non si sa dove, murò il piattino profondamente. Poi accese la pipa e aspettò. La gente uscì, la messa era finita. Ma l’Assunta no! Dicono che sbattesse fra i banchi come i palombacci quando entrano nel roccolo e diventava più scura, più esile. Aveva negli occhi la nostalgia dell’azzurro. Si unse con l’unguento, quando non c’era più nessuno, e s’alzò in volo, dentro la chiesetta.
Ma in quel luogo non c’era potere per i figli del Caprone. L’Assunta, arrivata al tetto, si capovolse e cadde. Batté con violenza sul pavimento consacrato e lo macchiò di se stessa. Una grande macchia scura che le donne, la sera, dopo aver detto il rosario, inutilmente tentarono di pulire: quella macchia c’era e c’è ancora. E un’altra cosa c’è ancora… Là, nel muretto dove Peppe aspettava la sua vendetta, una pianta monca, stravolta, senza foglie, somigliante ad un uomo curvo e rannicchiato che fuma la pipa, anch’essa nodosa e contorta, come una disperazione. C’è chi giura che, quando l’Assunta s’era infranta sui mattoni, avesse urlato: «Che tu possa aspettare in eterno!». E un rumore dolce di cembali aveva avvolto Peppe in una melodia di legno e radice. E la gente che racconta questa storia, sente per la schiena uno scorrere di serpente che solo una buona bevuta di vino può raddolcire. Ma non è lo stesso brivido, quello che sentono gli uomini e quello che corre fino al cuore delle donne. Poiché il Caprone azzurro è sogno, dove le paure e i desideri si baciano negli orizzonti, quando il respiro della bestia va a mescolarsi col piccolo essere di terra, tessuto d’angoscia.

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