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La relazione etica nel pensiero di Emmanuel Lévinas – 1

La relazione etica nel pensiero di Emmanuel Lévinas – 1
Aprile 10
02:00 2008

Ospitalità di Abramo - XV sec.La modernità ha come suo manifesto inaugurale la celeberrima proposizione Cogito ergo sum che R. Descartes considera il fondamento stesso della filosofia, l’unica che resiste incrollabilmente a qualsiasi tentativo di messa in dubbio. Ciò equivale ad affermare che solo il pensiero autoreferenzialmente costituito è reale, e perciò può ergersi a criterio attraverso cui misurare nientemeno che la verità stessa dell’essere. Descartes pensa che questa assoluta certezza sia di natura intuitiva e si basi sull’evidenza che il Soggetto ha di sé medesimo: nella seconda delle Meditazioni metafisiche il filosofo francese introduce la figura del genio maligno “che impiega ogni suo sforzo nell’ingannarmi sempre”; ma se egli m’inganna sempre “non v’è alcun dubbio che io esisto; e m’inganni finchè vorrà, egli non saprà mai fare che io sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa”, cosicchè, conclude Descartes “questa proposizione: Io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito”1. È solo a partire dal Cogito che viene quindi certificata la realtà di un mondo esterno, peraltro ridotto a mera res extensa. Molta parte della filosofia contemporanea ha contestato quest’impostazione razionalistico-coscienzialistica circa il rapporto tra l’io e il mondo delle cose, o anche tra l’io e l’altro, che a questo evento filosofico decisivo sembra doversi far risalire. E. Lévinas, ad esempio, filosofo lituano di origine e fede ebraica (1905-1995), vissuto fin da giovanissimo in Francia, dove ha insegnato in varie università dopo aver sperimentato la tragedia del lager, ha sviluppato tutto il suo percorso filosofico in totale controtendenza rispetto a questa riduzione della infinita molteplicità dell’essere (la “meraviglia originaria”) alla sovranità dell’io, nella quale è già presente in nuce la dittatura di quel pensiero unico totalizzante che dall’idealismo hegeliano in poi sembra essere la cifra dell’Occidente e della sua malattia nichilista. Tuttavia, nel rapporto istituito da Descartes tra il Cogito e l’idea di Dio, Lévinas scorge già l’esigenza di un’uscita del Cogito dalla sua autosufficienza. Già nella prefazione di Di Dio che viene all’idea Lévinas, discutendo questa tematica, riflette sul decentramento che l’idea di Dio (cioè dell’Infinito nella coscienza finita) produce nella granitica solidità del Cogito: “pensiamo che l’idea-dell’-infinito-in-me – o la mia relazione a Dio – mi accade nella concretezza della mia relazione all’altro uomo, nella socialità che è la mia responsabilità per il prossimo: responsabilità che non ho contratto in alcuna «esperienza», ma di cui il volto d’altri, in forza della sua alterità, in forza della sua stessa estraneità, parla del comandamento venuto non si sa da dove”2. Così Lévinas introduce quella categoria del volto, vero perno attorno cui ruota la sua contestazione della filosofia occidentale: con la sua identificazione di pensiero ed essere, sostanzialmente rimasta immutata da Parmenide ad Hegel, la metafisica occidentale ha instaurato “l’imperialismo del Medesimo”, e così ha radicalmente oscurato l’alterità come epifania della trascendenza, come luogo vivente in cui si dispiega l’eccedenza del senso; di qui gli esiti immanentistici e disumanizzanti della civiltà tecnocratico-appropriante dell’Occidente. Cosicché per Lévinas ciò che va apertamente criticata è proprio l’ontoteologia, cioè quel connubio fra metafisica e ontologia (che possiamo far risalire alla Metafisica di Aristotele) che ha oscurato l’originarietà dell’etica, riducendola per lo più a semplice descrizione di princìpi pratici dedotti da una struttura generale dell’essere già categorialmente (cioè astrattamente) predeterminata. Dunque, l’uscita dall’autosufficienza del soggetto è anche rottura dell’immanenza, cioè è anche uscita dall’essere inteso come totalità compiuta: qui accade l’etica e si apre lo spazio della trascendenza: altri non è sostanza, categoria, essere, ma è, appunto, volto che proviene da un altrimenti che essere, da un altrove inoggettivabile. L’etica è l’evento della relazione concreta con un volto che si autosignifica senza rinviare ad alcun contesto (sociale, culturale, psicologico, ecc.) e si presenta nella sua nuda datità come trascendenza assoluta, proprio nella sua irriducibile e non-categoriale particolarità; nel volto d’altri io vengo “disarcionato” dalla mia egoità e investito di una responsabilità perentoria: “Dire eccomi. Fare qualcosa per l’altro. Donare. Essere spirito umano significa questo”3. Come già emerso dalla precedente citazione, il volto d’altri non è oggetto d’esperienza, non si lascia cogliere dall’intenzionalità dello sguardo oggettivante: si impone scandalosamente al punto da trasformare il nominativo “io” in accusativo “me”: altri è letteralmente il mio accusatore e trasforma la mia soggettività in soggezione, realizzando così un vero e proprio rovesciamento dell’appercezione trascendentale di kantiana memoria, quell’Io penso, cioè, erede non-metafisico del Cogito: “Lévinas, con la stessa decisione con cui propugna il passaggio da una filosofia dell’essere ad una filosofia dell’autrement qu’être, propone di passare da un soggettivismo che trova nell’unità trascendentale dell’appercezione il proprio «punto supremo» ad un autrement di cogito o di «io penso», e cioè: a) un soggetto che originariamente non è costituito dal, e non consiste nel, pensiero; b) un soggetto che originariamente non è costituito dal, e non consiste nel, nominativo «io»; c) un soggetto che originariamente non è costituito e non consiste ontologicamente, come sostanza e/o come libertà”4. In uno dei suoi primi testi di grande spessore speculativo, Dall’esistenza all’esistente, Lévinas descrive, attraverso acute analisi fenomenologico-esistenziali ispirate ad Essere e tempo di Heidegger, l’emergere di questa soggettività personale dall’impersonalità dell’il y a, quel c’è vischioso e anonimo il cui carattere opprimente ben conosce Roquentin, il protagonista della Nausea di J.P.Sartre; egli dichiara di voler tentare “di avvicinarsi all’idea dell’essere in generale nella sua impersonalità per analizzare poi la nozione di presente e la posizione in cui sorge, all’interno dell’essere impersonale, come per effetto di un’ipostasi, un essere, un soggetto, un esistente”5. Ebbene, questo esistente personale è declinato dal Lévinas maturo come dedizione, pazienza, spossessamento, soggettività che si costituisce paradossalmente “come esteriorizzazione, e come esteriorizzazione passiva, avente luogo cioè non in un mero esprimersi del soggetto, bensì in una «denucleazione» da parte dell’altro”6. Questa denucleazione è operata anche dal desiderio, ma non inteso come volontà di appropriarsi di ciò che manca: infatti “il Desiderio degli Altri – la socialità – nasce in un essere che non manca di nulla o, più esattamente, nasce al di là di tutto quello che potrebbe mancargli o appagarlo… Il movimento verso gli Altri, anziché completarmi o contentarmi, mi coinvolge in un caso che, per un verso, non mi riguardava affatto e avrebbe dovuto lasciarmi indifferente… La relazione con gli Altri mi rimette in discussione, mi svuota di me stesso e non finisce mai di svuotarmi, scoprendo in me sempre nuove risorse. Non sapevo di essere tanto ricco, ma non ho più il diritto di serbare nulla”7. Ciò comporta un’assunzione di responsabilità radicale: discutendo sul rapporto tra la relazione etica e il tempo, Lévinas afferma che è l’evento del volto nella sua unicità, è la sua ingiunzione verso di me che interrompe l’io come godimento e appropriazione: “l’ingiunzione esalta la singolarità appunto perché si rivolge ad una responsabilità infinita. L’infinito della responsabilità non traduce la sua immensità attuale, ma un accrescimento della responsabilità che va di pari passo con la sua assunzione; i doveri si ampliano nella misura in cui si attuano. Più attuo il mio dovere e meno diritti ho; più sono giusto e più sono colpevole”8. Emblematico a tal proposito è il riferimento lévinassiano alla celeberrima frase di Aleša Karamazov nei Fratelli Karamazov di F. Dostoevskij: “Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti, per tutti e per tutto, ed io più degli altri”. Tuttavia questo io non si designa, ma dice «eccomi», “Io che dice io, e non colui che singolarizza o individua il concetto o il genere: Io, ma io unico nel suo genere che vi parla alla prima persona”9. Io realizzo la mia unicità personale solo aprendomi all’accoglienza dell’altro e testimonianza ne è l’ardita e suggestiva esegesi del secondo comandamento compiuta da Lévinas: non “Ama il prossimo tuo come te stesso”, ma “Ama il prossimo tuo; è te stesso”, cioè “Questo amore del prossimo è te stesso”10. Chi sono io? Colui che dice “eccomi” ad Altri! In tal senso, la figura di Abramo nell’episodio biblico delle Querce di Mamre si presenta come il paradigma dell’accoglienza incondizionata verso l’altro, quell’Altro attraverso cui Dio in persona formula la sua promessa escatologica: “Il Signore riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio»” (Gen. 18, 10)11. Abramo, il cui “eccomi” è alla base della fede d’Israele e di tutte le religioni monoteiste, l’uomo della pace possibile.
(continua)
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1 R. Descartes, Meditazioni metafisiche, in Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Bari, 1967, p. 206
2 E. Lévinas, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano, 1983, p. 12
3 E. Lévinas, Etica e infinito, Città Nuova, Roma, 1984, p.110
4 M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, Laterza, Bari, 1992, p.74
5 E. Lévinas, Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Casale Monferrato, 1986, pp.12-13
6 M.M. Olivetti, op. cit., p.75
7 E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova, 1985, pp. 67-8
8 E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 250
9 E. Lévinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p.96
10 E. Lévinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 114
11Bellissima l’analisi di questo celebre episodio biblico compiuta da E. Bianchi, Ero straniero e mi avete ospitato, Rizzoli, Milano, 2006, pp. 66-80

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