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La riduzione del ‘tempo’ ad oggetto di banalità – 1

Febbraio 10
02:00 2008

“La durata delle cose, misurata a periodi, specialmente secondo il corso apparente del sole”: questa è la definizione generica del concetto di ‘tempo’ fornita da un comune dizionario della lingua italiana.
Eppure, proprio attorno a tale categoria e a ai suoi molteplici significati (di ordine storico, filosofico o di natura astronomica) si è come addensata una coltre di fumo accecante, densa di luoghi comuni e rozze ovvietà, che sono persuasioni assai diffuse nella vita quotidiana di noi tutti. Gli stereotipi sul ‘tempo’ paiono proliferare senza soluzione di continuità, e quasi tutti, eccezion fatta per quei fenomenali campioni della lingua e del sapere umano, se ne servono abitualmente, forse inavvertitamente, magari per riempire il vuoto raccapricciante di certe conversazioni, in altre parole per coprire i ‘tempi morti’ della nostra esistenza. Sovente infatti, ci capita di ascoltare asserzioni totalmente insensate, che farebbero inorridire le nostre menti qualora fossimo soltanto un po’ più attenti e riflessivi, meno pigri o distratti. ‘Ammazzare il tempo’, tanto per citare uno dei casi più dozzinali, è un modo di dire quantomeno sciocco perché non significa nulla se non che si uccide la propria esistenza. La persona che ‘ammazza il tempo’, cioè che impiega malamente il proprio tempo vitale, non sapendo cosa fare, non avendo interessi gratificanti, né occupazioni di tipo mentale (come leggere e scrivere) o di carattere fisico (come gli sport), tali da motivare il vivere quotidiano, non coltivando passioni che potrebbero impreziosire la qualità del proprio tempo esistenziale, finisce per annichilire se stessa, divenendo un essere ansioso, depresso, accidioso, ma non ozioso.
Prestiamo attenzione alle parole: chi parla bene pensa bene, ma soprattutto vive bene…
Invero, l’otium dei latini, per il cristianesimo più bigotto, influenzato da filosofie mistiche orientali e da una forma volgarizzata dello stoicismo, rappresenta il vizio supremo: infatti, l’accidia è compresa tra i ‘vizi capitali’ osteggiati dalla tradizione giudaico-cristiana. Nondimeno, l’otium era l’ideale di vita proprio della cultura classica greco-romana, ispirata da una concezione epicurea, nutrita da orientamenti filosofico-esistenziali che privilegiavano la ricerca della felicità e del piacere di vivere quali finalità somme da perseguire in quanto capaci di liberare l’intrinseca natura della persona umana. Dunque, l’otium era ed è la condizione dell’individuo privilegiato, del ricco padrone di schiavi, padrone della propria e dell’altrui vita, della persona che non è costretta a lavorare per sopravvivere, che non deve travagliare e può dunque sottrarsi alle fatiche materiali necessarie al procacciamento del vitto e dell’alloggio, non ha bisogno di stancarsi fisicamente perché c’è chi si affanna per lui, e può dunque godersi le bellezze, il lusso e quanto di piacevole la vita può offrire. L’ otium, in altre parole, è il modus vivendi del padrone aristocratico, del patrizio romano, del parassita sfruttatore del lavoro servile, che non fa nulla ed ha a sua disposizione tutto il tempo per poterlo occupare nella ‘bella vita’, ovvero in un’esistenza amabile e gaudente per sé, quanto detestabile e dolorosa per i miseri che nulla posseggono, neanche il proprio tempo, sprecato e annullato per ingrassare e servire i propri simili!
(Continua)

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