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Lettera al padre di Aldo Onorati

Gennaio 02
08:41 2013

Intervista ad Aldo Onorati su Lettera al padre.

– Professor Onorati, ci parli della storia editoriale di Lettera al padre, che oggi giunge alla sua sesta pubblicazione.
– Uscì con l’editore Armando nel 1979. Ebbe il successo che ebbe, perché era controcorrente: riabilitava la figura paterna di contro alla moda della ‘morte del padre’. Io credo che sia ancora attuale, anzi: ora più di prima, data la decadenza dei valori etici, del senso del sacrificio, dell’appiattimento culturale operato dalla televisione, il disinteresse dei giovani a farsi una posizione morale in società (e la colpa non è loro soltanto, bensì del sistema che mostra il successo da raggiungere non col lavoro, lo studio, i principi saldi della Storia, ma con l’apparire comunque, in tv, al cinema, in politica, nella canzonetta, purché si diventi famosi, non importa come).

– “Lettera al padre” è un caso tipico di ‘long seller’. Come spiega il successo lento ma duraturo, al di là delle mode e delle stagioni, che il pubblico continua a decretare per diverse sue opere?
– Manzoni (e poi Kafka) diceva che un libro deve scagionarsi da sé. Io non ho mai forzato affinché una mia opera venisse sopravvalutata, non sono ricorso a raccomandazioni di partito, ad amici e potenti, a editori di grido. Ho scritto e pubblicato. Il fatto che, da sole, si ristampino (tutte) in continuazione, mi fa sperare bene per il futuro, quando io, come persona, non ci sarò più. Tuttavia, da anni è come se non ci fossi, perché i miei libri non li raccomando in nessun modo, non avendo io né un posto di potere né un carattere adatto ai giochi delle camarille. Eppure, essi procedono, da soli, in Italia e all’estero.
– Quali furono le reazioni all’apparire del libro? Qual era e come venne giudicata la sua valenza eversiva?
– Le recensioni furono talmente tante, e i dibattiti ecc., che, per una sola volta,- entrai anche nelle classifiche dei libri più venduti. Molti quotidiani dedicarono l’intera terza pagina per i pro e i contro di una novità coraggiosa: la rivalutazione del padre. Mettiamoci nei tempi in cui uscì: la moda politica e psicanalitica indicava la libertà e l’emancipazione del giovane attraverso la morte del padre. Io ho rivalutato il ruolo della figura paterna scrivendo una lettera al mio ‘papà’, lettera che Domenico Rea definisce il contraltare mediterraneo a quella di Kafka.
– Perché, per analizzare la figura del padre attraverso il ricordo di suo padre,- fra le tante forme di cui disponeva (romanzo, diario, saggio, etc.) scelse di utilizzare il ‘libero percorso emotivo’ di una lettera aperta?
– Non lo so. È nata così. Di getto, ma la elaboravo dentro da anni. Sempre, prima di scrivere una qualche pagina, io attendo che il serbatoio dell’emozione e del pensiero sia stracolmo. Quando il magma infuocato è nella massima compressione, il vulcano esplode naturalmente. Sono un autore non sistematico, a differenza dei professionisti della penna (ai quali, magari, un editore o un partito politico assegnano un tema e il successo è stabilito a priori): professionisti che ogni mattina (come faceva Moravia, al contrario di Foscolo) si siedono alla scrivania e qualche cosa debbono tirare fuori per forza.
“Lettera al padre” è stato, negli anni, più volte adottato come testo di lettura nelle scuole. Quali soddisfazioni ne ha ricavato da studenti e insegnanti?
– Incontrare i ragazzi è molto istruttivo. Loro sanno pormi domande intelligenti, sanno mettermi alle corde. Da almeno trentacinque anni giro l’Italia per incontrare classi di ogni estrazione. Esco sempre risollevato e gratissimo per la loro attenzione, sapendo di aver offerto uno spunto e di averne colti, da essi, molti di più.
Coerenza, rettitudine, idealismo, equilibrio, comprensione, fiducia nel prossimo, abilità nel motivare le persone: sono alcuni dei tratti caratteristici della figura paterna da Lei tratteggiata. Quale tra questi semi, germogliando, è stato più determinante nella sua formazione umana di figlio, di insegnante, di padre?
– L’ottimismo della volontà. Mio padre fu un idealista; sbatté la testa al muro, ma dette un senso alla vita. Da lui ho appreso il coraggio di remare contro-corrente, di perdere nella logica del mondo, di schierarmi con gli indifesi, di ribaltare (come ho fatto anche in altre mie opere) l’ipocrisia del servire il più forte. Ma soprattutto la libertà, che significa puntare ai valori, ai sentimenti, non al successo attraverso il cinismo e le raccomandazioni. Guardi: il tempo farà giustizia. Oggi noi ci nutriamo delle idee e dell’esempio di coloro i quali forse in vita furono ignorati o perseguitati. I vincitori di allora stanno nell’oblio. Ciò vale anche per le opere d’arte.
Il concetto-base del libro è che la continuità tra le generazioni non può prescindere, come più volte si è tentato di divulgare, dalla figura paterna, nella sua capacità di porsi come fulcro, fondamento, esempio. Il padre come garante dei valori, “custode silenzioso” (ma vigile) dei percorsi di sviluppo dei figli, ponte fra il sé e il mondo. Che cosa pensa del ruolo e, dunque, della rappresentazione simbolica del padre nella società contemporanea?
– Io indico non solo la paternità biologica, ma soprattutto quella ideale. Se uno non trova nel proprio genitore i valori portanti della storia e della società, deve cercarli in un Maestro autentico, non in qualche idolo di fumo. Non tutti i padri sono all’altezza del loro delicato compito. Talvolta la loro violenza o indifferenza distrugge un’anima; però, se si trova un esempio a cui guardare (e non pochi padri lo sono anche oggi), perché vergognarsi di lodare e amare il proprio genitore? Magari solo per far parte del gruppo che, per sentirsi originale e ‘cresciuto’, si droga, ammira i controvalori e coloro che li incarnano?
Che cosa disse suo padre Feliciano di questo libro, dopo averlo letto?
– Nulla, almeno alla prima edizione. Quando uscì quella scolastica, proferì soltanto: «È un libro che farà bene a molti, anche in futuro.»

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