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L’incontro di Civiltà – Luigi Maria Lombardi Satriani intervistato da Paolo Gattari

Luglio 01
02:00 2007

Il giorno 9 aprile 2007 è stata pubblicata in forma video su www.fulm.org  (sezione AUDIOVIDEO) l’intervista all’antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani, professore di Etnologia all’Università di Roma “La Sapienza”, autore di molte opere di carattere scientifico, per due mandati consecutivi Presidente dell’Aisea (Associazione Italiana per le Scienze Etno Antropologiche) ed eletto al Senato della Repubblica nelle liste dei DS nella 13° legislatura. Nell’intervista viene analizzato il rapporto fra la cultura occidentale e quella islamica, l’approccio con l’alterità e il ruolo che svolge nel dibattito l’antropologia culturale. Infine si focalizza l’attenzione sulla natura contraddittoria del forte ritorno al relativismo culturale che pervade alcune zone del pensiero di sinistra in Italia. Questa osservazione scaturisce alla luce del fatto che proprio l’opera dell’etnologo Ernesto de Martino, molto legato agli intellettuali che hanno fatto la storia della sinistra del nostro paese, ha contribuito in modo assolutamente innovativo al superamento della dicotomia etnocentrismo/relativismo attraverso la formulazione del concetto di etnocentrismo critico. È importante cominciare a confrontarsi con il dibattito sulle culture restituendo all’antropologia culturale il ruolo centrale che dovrebbe competerle e che invece troppo spesso, soprattutto nel nostro paese, viene assunto da sociologi, politici o rappresentanti della chiesa cattolica.

Professor Lombardi Satriani il mondo occidentale, inteso in senso antropologico e non geografico, è da sempre coinvolto nel confronto con la cultura islamica. Senza entrare nel merito degli stimoli emersi dal famoso articolo di Samuel P. Huntington (The clash of civilizations?) potrebbe analizzare quale secondo lei è la situazione in questo momento?  

La situazione in questo momento è piuttosto grave. Si osserva infatti l’incontro tra due integralismi: da una parte l’occidente che presentando la parte per il tutto da un’immagine dell’islam come del  nemico. Dall’altra parte si pone l’integralismo di natura islamica che a sua volta identifica l’occidente come un tutt’uno, dimenticando la sua natura policroma che ne è invece parte integrante. Tutto questo accade per scopi talvolta strumentali che possono essere la legittimazione di scelte politiche (per esempio la guerra in Iraq) o la continua criminalizzazione dell’occidente e degli Stati Uniti. Altre volte invece i motivi sono riconducibili con molta più semplicità all’ignoranza e alla mancanza d’informazione che ancora oggi sono così diffuse in occidente come negli altri paesi.

Dunque in un panorama come quello da lei descritto i moderati, in una come nell’altra parte, hanno un ruolo piuttosto marginale?

Sicuramente si. Oggi infatti viene premiato il grido e l’affermazione roboante, non l’analisi e il discorso critico. Una delle cause di questo è il ruolo dei media e della televisione, così spesso citato a ragione; infatti soprattutto in tv è importante la visibilità che si conquista più facilmente ed efficacemente con l’arroganza che con la pacatezza.

Vorrei ora passare alla situazione italiana per capire il motivo per il quale gli interlocutori per l’analisi di questi temi siano spesso solo politici, sociologi, membri della chiesa o giornalisti. Per quale ragione così spesso è proprio l’antropologia a rimanere fuori dal dibattito relativo al confronto con l’altro?

L’antropologia è silente o non raggiunge il pubblico. Dobbiamo però dire che non è così in tutti i paesi. Per esempio nella vicinissima Francia nel comitato di bioetica è presente un’antropologa, cosa che non avviene in Italia. Da noi si sconta una visione parcellizzata delle scienze e dei campi di ricerca. Così accade che nell’analisi di un fenomeno si interroga il sociologo per gli aspetti sociali, il giurista per quelli giuridici e per ciò che riguarda l’etica ci si rivolge al sacerdote attraverso una progressiva riduzione dell’etica alla religione, della religione a confessione e della confessione a chiesa cattolica apostolica romana. Al contrario, non per accendere un conflitto tra discipline, ma le categorie del bene e del male e il concetto di incontro con l’altro sarebbero di pertinenza antropologica. Dal canto loro alcuni  antropologi sono corresponsabili per una visione che considera banalizzazione qualsiasi tipo di confronto intellettuale che non passi attraverso i libri. Questa è una visione a mio parere del tutto superata dai fatti, ma ancora molto presente in alcuni ambienti accademici. Al contrario è proprio la contaminazione il valore da riconsiderare. Uso il termine riconsiderare perché nella nostra cultura abbiamo assolutizzato il concetto di purezza, assumendo l’impurità come forma deteriore. Invece è proprio il meticciato una delle risorse   più importanti  della contemporaneità che andrebbe vissuto come un valore e non come una condanna da accettare. È proprio per questo che da tempo sto lavorando in ambito accademico su una codificazione del “diritto meticcio”che possa tenere conto della multietnicità sempre più protagonista della nostra società.  

L’evoluzione del pensiero antropologico ha percorso un tragitto che partendo da un approccio etnocentrico al rapporto con l’alterità e con le culture, è arrivato a posizioni relativiste. È corretto affermare che proprio l’opera dell’italiano Ernesto de Martino ha contribuito in modo assolutamente innovativo al superamento di questa dicotomia attraverso la formulazione del concetto di etnocentrismo critico?

È corretto. Dovremmo sottrarci alla logica del cosmopolitismo di maniera come a quella del provincialismo. Ernesto De Martino, attraverso l’etnocentrismo critico supera l’antinomia o accettare tutto o negare tutto. Non possiamo non essere etnocentrici perché non possiamo non considerare le categorie interiorizzate; dobbiamo però essere consapevoli e accettare lo “scandalo” dell’incontro etnografico con il culturalmente alieno.

Gli scritti demartiniani si nutrono di quella che possiamo considerare la radice stessa della cultura di sinistra italiana, da Gramsci a Carlo Levi. Come spiega il marcato carattere relativista delle istanze della sinistra radicale di fronte al problema della convivenza con la cultura e la religione islamica nel nostro Paese? Può essere il solo antiamericanismo a spingere a tali posizioni?

Esiste in questo momento sicuramente un americanismo di maniera che pervade una parte della sinistra, mosso probabilmente  dalla paura di essere tacciati di veterocomunismo. Dall’altra parte esiste anche un antiamericanismo di maniera del tutto ideologico. Non è infrequente l’equivalenza essere contrari a Bush (nel caso per esempio della guerra in Iraq) e di conseguenza trovare naturale e consequenziale l’essere contrari agli americani nel loro complesso. Dunque si può auspicare un recupero della dimensione critica del pensiero e del confronto dialettico; non essere schierati con una fazione, considerando questo come salvacondotto sufficiente e necessario alla verità. Questo può servire ad andare oltre i pensieri torbidi, che aleggiano in Italia sia a destra che a sinistra, e oltre la miopia critica, all’interno della quale campeggia anche questo ritorno così forte al relativismo culturale.

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