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L’Italiano di tutti: i Promessi Sposi e la questione della lingua

L’Italiano di tutti: i Promessi Sposi e la questione della lingua
Settembre 23
08:39 2020

Come docente di italiano, durante l’Esame di Stato di questo particolare 2020, c’è stato soprattutto un autore che ho più volte chiesto ai miei studenti: il milanese Alessandro Manzoni. Un autore spesso non molto amato nell’ambito scolastico, poiché è stata “imposta”  negli anni di studio agli studenti, sin dai tempi del dopo l’Unità D’Italia, la sua opera maggiore, I Promessi Sposi: un’opera dalla (ingannevole) storia semplice, ma che propone al lettore diverse chiavi di lettura, in particolare per i personaggi che ne vivono la storia. Tra le varie questioni fondamentali della stesura dei Promessi Sposi, c’è quella che viene indicata dalla critica letteraria “la questione della lingua”: la discussione fra letterari era volta a capire quale dovesse essere la “parlata locale”, cioè la lingua giusta, per scrivere un’opera letteraria. Oggi per noi questa risposta sembrerebbe scontata: si sceglie l’italiano standard, quello studiato a scuola e che si parla in un contesto sociale pubblico, ovvero un contesto non sia quello familiare (in cui spesso si utilizza il dialetto per le conversazioni). Ai tempi di Alessandro Manzoni, però, la scelta non fu così immediata.

Facciamo un piccolo passo indietro, partendo da un breve excursus sulla stesura dei Promessi Sposi, per contestualizzare storicamente il lavoro svolto da Manzoni. Lo scrittore milanese ha impiegato ben ventuno anni della sua vita nella stesura del romanzo di tutti i tempi, un’opera nata per regalare diletto ai lettori dell’Ottocento, ma non solo. Uno degli obiettivi di Manzoni è stato quello di creare un libro che potesse essere compreso da una fascia di lettori molto ampia; nello specifico di comporre uno scritto capace di delineare un contesto storico preciso e da cui poter trarre un insegnamento morale. A I Promessi Sposi è da riconoscere il merito di aver trasmesso una cultura storico – letteraria a tutto tondo, supportando la creazione di una lingua italiana unitaria.

Nell’aprile del 1821 Manzoni inizia la stesura del romanzo, che terminerà nel 1823, al quale dà il titolo provvisorio di Fermo e Lucia. Tuttavia il libro non soddisfa pienamente lo scrittore, che ne inizia il rifacimento a marzo 1824, e dal quale decide di eliminare alcuni fatti storici ritenuti futili, dando vita così a tre volumi che denomina I Promessi Sposi. L’opera viene pubblicata nel 1827 e l’edizione dell’epoca prende il nome di ‘Ventisettana’. Il drammaturgo milanese però non si ritiene ancora soddisfatto: lo scrittore è cosciente del fatto gli italiani avevano la necessità di una lingua unitaria ed è convinto che la soluzione sia nella lingua fiorentina parlata, quella delle classi colte. Il suo viaggio a Firenze risolve questa problematica: Manzoni trova la lingua dell’unità. Così nel 1840 viene pubblicata la definitiva edizione del romanzo, la ‘Quarantana’ (un’edizione a fascicoli).

 

La questione della lingua per la stesura del suo romanzo, portò Manzoni a essere spesso attaccato dai suoi oppositori, che però non possedevano, rispetto a lui, una soluzione migliore per l’intricata problematica linguistica dell’epoca. Nel momento storico vissuto dallo scrittore milanese, cioè in pieno Romanticismo, Manzoni cercò di incarnare mediante la forma artistica della scrittura una rinnovata religione e una più viva pratica morale per il nobile scopo di educare il popolo, diffondendo lo spirito nazionale vivo in quegli anni. Il dibattito sulla lingua del popolo italiano era uno dei cardini della questione unitaria, perché la lingua è il primo e immediato mezzo di educazione del popolo e di italianità.
Manzoni trova la sua formula linguistica nella lingua realmente parlata, e in particolare nella lingua parlata di Firenze: il concetto di lingua di uso comune unito alla città di Firenze è l’identificazione di un vero e proprio mito. La lingua parlata tutti i giorni è la lingua istintiva ed efficace, senza virtuosismi letterari; Firenze è la patria di quella che viene indicata come la  nostra prima letteratura, con il maestoso lavoro linguistico svolto da Dante Alighieri per la sua Divina Commedia. Nel contesto storico del Sommo Poeta il volgare si articolava in numerose varianti dialettali, nobilitate anche dalla Scuola poetica siciliana di Federico II, e questa lingua letteraria era utilizzata in forma aulica nei componimenti dei poeti medioevali. Nel Cinquecento, con le Prose della volgar lingua (1525), Pietro Bembo indicava il toscano come il modello della lingua italiana, aggiungendo fra gli autori da imitare Boccaccio e Petrarca. Alessandro Manzoni con la sua ricerca linguistica attribuì al fiorentino un ruolo essenziale nell’unificazione linguistica, sociale e culturale del paese. Proprio per l’edizione ventisettana del suo capolavoro, il viaggio dello scrittore milanese a Firenze fu significativo: con il soggiorno sulle rive dell’Arno, «nelle cui acque risciacquai i miei cenci»,  riferì lo scrittore (un modo di dire ormai storico nella nostra lingua), Manzoni trionfò, donando agli italiani quella preziosa lingua nazionale che, oltre i confini, i limiti regionali e le divergenze ideologiche, ci rende dopo secoli davvero uniti.

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