Notizie in Controluce

 Ultime Notizie

Memorie d’Africa – 2 -La lancia di Petro

Ottobre 08
15:08 2011

La lancia di Petro.
Oggi 17 settembre 2011 sono stato ferito da una lancia Maasai. Non me lo aspettavo, e non credo che se lo aspettasse neppure lei. È la lancia di Petro.TTPetro, non ostante il nome di incerta derivazione, era un Moran Maasai, un giovane alto e ben piantato, con un bel viso aperto, la muscolatura lunga e snella sotto la rossa tunica e il rosso mantello a quadretti scozzesi, con i lunghi lobi delle orecchie traforate e gli incisivi estirpati per ingannare il tetano, i sandali fatti di copertone, la sua corta spada infilata nel fodero rosso, e i mille ornamenti che gli tintinnavano addosso ad ogni passo. E la sua lancia. Un arnese meraviglioso, luccicante come fosse d’argento per le mille ripassate di pietra smeriglia che ogni giorno Petro gli ammanniva, carezzandola come fosse un bimbo. Una lama lunga un metro e venti, lanceolata e sottile come una foglia, ma dura come l’acciaio, infilata in un corto manico di legno levigato dall’uso e lucido come mogano tirato a cera, a sua volta conficcato in un lungo terminale appuntito, spesso come un quadrello di ferro, e anch’esso splendente al sole. Su quell’attrezzo Petro si appoggiava spesso, quando per riposare alzava al ginocchio una gamba e lasciava tutto il peso sull’altra, restando stagliato contro la savana come un rosso fenicottero. Petro viveva nel Maasailand, in quella sterminata pianura compresa tra le pendici del Kilimanjaro e le colline di Chulu Range dove Hemingway visse e narrò i suoi più esaltanti giorni africani. Era un ragazzo sveglio, furbo e veloce, un po’ guascone e un po’ furfante, ma attento e vigile come un leopardo. Era il capo degli askari del Nyati Camp, cioè delle guardie che garantivano la sicurezza dei clienti al campo, controllando di giorno e soprattutto di notte che nessun animale feroce si avvicinasse alle tende del campo e, soprattutto, alle cucine, attirato dall’odore della carne nella dispensa. Lui e i suoi compagni venivano dal vicino villaggio ed erano stati assunti al Nyati Camp dopo lunghe trattative con i rappresentanti anziani della comunità Maasai, che in cambio dell’affitto del terreno su cui sorgeva il campo avevano preteso anche lavoro per i loro uomini. I Maasai sono grandi contrattatori, e quasi ogni giorno dal villaggio sottostante si vedevano tra le acacie e le euforbie le sagome rosse degli anziani in fila indiana risalire lentamente verso il campo, con la loro andatura dinoccolata ma fiera, le lance in spalla e in mano l’agenda delle richieste da contrattare. Arrivavano, ci si salutava calorosamente, grandi strette di mano, poi tutti seduti a bere il tè e a spulciare una ad una le richieste della comunità, cercando di arginare le più stravaganti. Una volta arrivarono a chiedere che almeno due dei loro guerrieri fossero assunti come autisti. Al nostro obbiettare che essi non avevano la patente e che non avevano mai portato un veicolo, ci risposero candidamente che prima avremmo dovuto mandarli a scuola guida. Nella savana. Distanti circa tre ore di pista dal più sperduto paesino. Comunque Petro e i suoi quattro amici erano stati assunti come askari, guardiani, con grande soddisfazione per la sapienza con cui svolgevano il loro ruolo. Soprattutto alla sera, quando dopo cena i clienti si radunavano attorno al fuoco acceso all’aperto per perdersi con gli occhi dentro al firmamento, la presenza di Petro e dei suoi askari diventava quasi magica. Lentamente l’euforia comiziante dei clienti, garruli e felici nel raccontarsi gli avvistamenti di animali fatti durante le escursioni giornaliere nel Parco di Tsavo veniva meno, si spegneva nel crepitare dei grossi tronchi, si rattrappiva nel circolo di luce tremolante sopraffatto dall’immenso buio della notte africana, e tutti si acquietavano fissando il fuoco, seguendo le faville e i pensieri, ma sobbalzando ad ogni minima eco di un bramire lontano, o di un ridacchiare isterico di jene. Allora lentamente le sagome dei Maasai, intabarrati nel mantello per ripararsi dal limpido freddo della notte, accucciati a ravvivare il fuoco dei due grossi tronchi, o in piedi a sorvegliare il buio oltre il cerchio magico, assumevano una carica di assoluta superiorità su qualunque altro essere circostante, divenivano il punto di riferimento degli sguardi e degli spiriti ad ogni sobbalzo per un frusciare tra i rami, e ingigantivano nella loro fisionomia appena accennata dalla luce delle braci. Quante esitazioni tra i clienti prima di decidersi ad abbandonare la calda sicurezza del focolare e attraversare il buio dei pochi metri utili per raggiungere la tenda e il sonno, quanta incertezza nell’essere i primi ad abbandonare quell’ipnotico e silenzioso raduno, spezzandolo con un sommesso «Beh, noi andremmo a dormire..» e poi incerti «… chi ci accompagna in tenda?» E allora Petro, con la sua lancia luccicante nel buio, e una lampada a petrolio a illuminare il cammino di quella strana gente che non vede nella notte, li scortava con la sua andatura dinoccolata, portandoli al sicuro porto della tenda, e lasciando la lampada davanti all’ingresso come baluardo per le fiere. Quando tutti erano al sicuro, spesso restavamo io e Petro per lunghe ore attorno al fuoco ad ascoltare i rumori notturni. E lui mi insegnava a distinguere il sommesso ronfare del leopardo, il richiamo dei babbuini, il gutturale ragliare delle zebre. Ma quando a volte si sentiva risuonare il basso, profondo, orripilante ansimare dei leoni, vedevo una luce diversa nei suoi occhi, come un’entusiastica allerta, e una inesprimibile voglia di sfida. Un giorno, durante una uscita a piedi con Petro, ci imbattemmo in due leonesse con tre cuccioloni che stavano facendo la posta a una tana di facocero, con un’aria piuttosto annoiata dall’attesa del lungo assedio. Erano ad un centinaio di metri. Io guardai Petro. Lui mi fece segno di fermarmi e di stare immobile. Non era facile. Dopo un poco mi disse di seguirlo e lentamente salimmo su un monticello di sassi, da dove eravamo molto bene visibili. Gli chiesi se così non era pericoloso, perché le leonesse ci avrebbero visto benissimo. E lui mi rispose alzando la sua lancia: «È proprio quello che voglio, che mi vedano bene, così capiscono che io non ho paura di loro, ma loro devono avere paura di me». Infatti, dopo qualche decina di minuti, le leonesse si alzarono lentamente, e con aria indifferente si allontanarono in direzione opposta alla nostra seguite dai baldanzosi cuccioloni. Ecco, questo era Petro. Una notte, mentre dormivo nella mia tenda, sentii l’inconfondibile rumore di una caccia all’ultimo sangue a poca distanza dal campo. Sentivo i ruggiti e l’ansimare degli leoni, i disperati urli della vittima, e poi… il silenzio. La mattina all’alba uscii dalla mia tenda e mentre il sole picchiava sulla cima del Kilimanjaro, schizzandola di rosa e rimbalzando sulla pianura avvolta nella bruma, vidi il volteggiare degli avvoltoi a qualche centinaio di metri più in basso nella savana. Immediatamente dopo la mia attenzione fu rapita da due sagome rosse, che nell’incerta luce dell’alba lasciavano il campo in direzione degli avvoltoi. Andai alla grande tenda che serviva da sala da pranzo dove già si stavano preparando i tavoli per la colazione, presi un lungo caffè americano e mi sedetti ad aspettare. Dopo una mezz’ora vidi le sagome rosse risalire l’erta che li riportava al campo. Gli andai incontro. Arrivarono ansanti ma con un sorriso che si fermava a pochi centimetri dai lunghi lobi traforati. Petro portava in spalla una coscia di giraffa. E una giraffa vi garantisco è enorme. L’avevano sottratta ai leoni che, oberati dal cibo, si erano addormentati a poca distanza dalla carcassa. Petro mi guardò soddisfatto e disse: «Questa è una buona colazione». Dopo poco il coscio era sul fuoco a rosolare. Ecco questo era Petro, e questa è la sua lancia. Me la regalò alla mia partenza dal campo, in segno di eterna amicizia, ma soprattutto in cambio di un coltellino svizzero multiuso, che gli aveva rapito gli occhi nel momento stesso in cui aveva visto comparire le forbicine dal piccolo manico. La sua lancia ieri mi ha guardato dalla sua postazione sul pianerottolo delle scale di casa, dove negli anni ha fatto buona guardia, ma ha anche preso un brutto velo di ruggine. Petro non lo avrebbe mai permesso. Allora l’ho presa, e con lo smeriglio l’ho ripulita e affilata. Ma evidentemente era troppo tempo che non assaggiava il sangue, e la tentazione è stata troppo forte. E così, mentre ripassavo il filo della lama, si è presa due gocce del mio sangue dal dito medio della sinistra. Così, tanto per ricordare i bei tempi.

Articoli Simili

0 Commenti

Non ci sono commenti

Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?

Scrivi un commento

Scrivi un commento

MONOLITE e “Frammenti di visioni”

Categorie

Calendario – Articoli pubblicati nel giorno…

Aprile 2024
L M M G V S D
1234567
891011121314
15161718192021
22232425262728
2930  

Presentazione del libro “Noi nel tempo”

Gocce di emozioni. Parole, musica e immagini

Edizioni Controluce

I libri delle “Edizioni Controluce”