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Mezzogiorno dell’animo: squarci di pietas

Mezzogiorno dell’animo: squarci di pietas
Gennaio 17
10:31 2012

Questa è una raccolta quasi stesa come un diario, con continui cambi compositivi. La lettura ci invita ad una gravitazione di spazio e tempo, con sbalzi di anni e di versi, ricami metrici e soliloqui prosastici, sillabazioni sdrucciole, paronomasie, sortite d’humor inaspettate, strofe classicheggianti: il continuo compositivo è libero perché testimonia il multistrato del soggetto, il dolore, l’ospite venefico della raccolta. Il dolore è un prologo di echi rimati, perché ha la classicità del tempo umano; non è errante ma intessuto nel corpo dell’esistenza, e il primo tomo si apre con il Proemio che attende un giro perfetto e si conclude con un mantra “grava e duole il limbo, grava e duole il parto”: la negazione stessa della vita si presenta alla porta e il primo dolore, l’abortum è l’antefatto narrato in sapienza metrica.

Il poeta ha scelto di scandire “Mezzogiorno dell’animo” in sezioni già enunciati poesia per poesia nell’introduzione. Undici più una: l’ultimo scritto è una traduzione che l’autore produce e (si) dedica al poeta ispanico Francisco De Icaza, il Madrigale della morte, specchiandosi nell’ultimo atto del dolore, quello del ricordo di un ormai perduta vita e ne è anche in parte via d’uscita, grazie alla pietà dello spirito, con il conforto dell’ultimo verso, in una rinascita nel corpo stesso della terra “sembra che il tuo corpo ce lo restituiscano in fiori”. La sponda che attraversa il dolore vive anerobica, centellinata in ogni azione umana, in ogni sentimento si possa provare, perfino in quello supremo della Fede. La tracimazione è cronicizzata, gli argini umani non reggono.

…Vi scorre dentro un fiume

che, nel trafiggerci di colpe

al suo penoso e senza senso

fatale epilogo d’abbandono.

L’Eden è perduto, l’uomo poeta è un Cristo di cartone. In “Un dì d’aprile”, lo sguardo è perso “Porto infine un segno, il marchio dell’infermo”. Gli Epitaffi fermano il tempo nella gravità della morte.

Mondato sperma di castità

dei pensieri l’utero feconda

tornando gravido dal ventre

altri natali la tomba attende

Tutti i luoghi prodotti dall’uomo sono infestati, anche quelli lontani dell’animo.

Signore, quel che ho visto

è l’ornato giardino perduto.

Prego ancora, con fede,

coraggio che non desiste.

Il viaggio è anche a ritroso, chiama chi ha già cantato la stagione della perdita: l’omaggio è nel trimetro giambico di Catullo (Porgimi il reale) e nel classicheggiante riletto di Kavafis (Itaca). L’Esegesi è brevissima. Gli Scherzi del Dolore sono invece umoristici (che scherzi sarebbero?) con l’anagramma di una parola – cerino – alla fine di ogni verso della sestina di Anagrammatico. La descrizione della condizione umana è qui svolta come un ciclo, in cui la scrittura cerca squarci di pietas per ricondurre a termini di sopportazione l’imposizione di un anti-valore, da cui sembra impossibile sfuggire. Nell’animo, la luce piena è il Mezzogiorno, da cui poter attingere almeno la speranza o la fede di una speranza. 

Non nascemmo soli e senz’amore.

Dio e Padre e Madre, misericordia

nella famiglia che vuole ricomporre,

L’amore è il fine e non l’astrazione,

compierlo è un’epopea interiore

d’indagine, intelletto, iniziazione.

 

[Fonte: Rainstars.net]

 

Didascalia foto: Il sacro fuoco della poesia di Andrea Bisighin realizzata durante la tappa di Legnago di CicloInVersoRoMagna 2011

Il sacro fuoco della poesia

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