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Mezzogiorno dell’animo: pathémata-mathémata

Mezzogiorno dell’animo: pathémata-mathémata
Aprile 17
13:10 2012

copertinalibroFuga l’ambivalenza del titolo – meridiana luce di gioia o luce di consapevolezza e quindi dolore? – già l’incipit della silloge che improvviso sfata la polisemia per farsi sema di quel che maggiormente dà all’essere umano l’impronta di sé, quella “maestà” del dolore che Alfred de Vigny amava (J’aime la majesté des souffrances humaines in I destini) e Oscar Wilde scriveva con la lettera maiuscola a significarne la sacralità.

 

Il file rouge della narratio lirica di Enrico Pietrangeli si snoda nel dolore, dal prologo alle altre undici sezioni in cui è stata suddivisa la silloge, quasi itinerario di dodici “stazioni” penitenziali, connotate tutte dal medesimo timbro, percorse dal soggetto in una epifania di stati, situazioni, sperimentazioni di dolore sino a cercarne l’esegesi. Un epilogo che è suprema accettazione e quindi nuova vita, non spegne il dolore ma lo proietta nella dimensione dello spirito che nulla ha di estetizzante poiché lo sguardo è rivolto ad una ben diversa sacralità. Così la soggettività s’allarga alla comprensione totale e abbraccia l’inaccettabile per farsi sacrificio che redime dal marchio impresso all’origine.

L’autore ha coscienza della perdita della primigenia condizione sine macula, ne sente tutto il peso, ma è proprio quella coscienza a bandire gradualmente ogni risoluzione di estetismo o di ‘mali oscuri’ – possono talora portare anche a compiacimenti lirici – o, peggio ancora, di nullismi ancora tanto in voga, guarda pertanto non “il baratro sotto” ma si fa “acrobata irradiato di luce” per volgersi a Dio nell’attesa della Grazia.

Viene rivendicata la funzione catartica del dolore, sono proprio in esso gli insegnamenti (pathémata-mathémata), lo riconosceva già il pensiero greco, ma nei versi del Nostro l’esperienza del dolore, fisico e della psiche, perviene anche alla spes, reale possesso di vita: “Poco importa cosa m’aspetta | dell’isola riprenderò possesso | con chi, nell’attesa, l’opera | accoglie preservando amore” (Itaca, vv.6-10).

Un amore non “astrazione” ma “fine” e “compierlo è un’epopea interiore | d’indagine, intelletto, iniziazione” (epilogo da L’amore è il fine e non l’astrazione). Perfetto è infatti solo l’Amore di Dio “regista nel libero arbitrio” che “si fa congegno all’ombra dell’agnello” (Dio). Quel Cristo che “pende dalla croce, | vergato e proscritto, | della vita prosciolto | e dal Padre accolto (Il Cristo).

Ma, prima di pervenire a questa substantia di Amore/Morte-Resurrezione, ci sono in altre liriche già gli annunci, i transiti immaginifici del vivere e della sua “parodia di morte”, delle “mille forme” ricomposte dalla sabbia dove “un tempo c’era amore, il verde rigoglioso | di un eden, nel tempo, per sempre perduto” (Eden perduto), quel divenire che solo “quando i neuroni risplenderanno | come stelle nell’universo plasmato | tutto, allora, sarà quel che E'” (Non sarà mai tutto come prima).

Un itinerario che parte, ha il fulcro nell’amore/dolore dell’innamorato che vive le sue estasi, trascorre notti insonni se il cuore della sua donna non batte sul suo e ne coglie l’ascolto. Ed a lei si rivolge, quasi novello Catullo, perché i frutti del dolore non seminino altro dolore, perché il non vissuto diventi reale in modo da colmare “il vuoto idealizzato”.

Nei versi, sparsi nelle varie “stazioni”, l’amore si fa richiamo nostalgico, talora forte, e c’è, come nello stesso poeta latino, il canto del supplicante che invoca, pur nella diversità, la grazia divina, anche se il dolore della perdita ha altra natura rispetto al catulliano.

Thanatos è, con delicatezza tutta particolare, presente pure in Madrigal de la muerte, nei versi del messicano Francisco de Icaza, inseriti ad epilogo della silloge e tradotti dal Nostro. In essi la fanciulla amata, che è stata sottratta alla pienezza della vita, torna, nella immaginazione del poeta, ad essere ancora fisicità e bellezza vivente nei fiori sbocciati dalla terra che la ricopre. Spes anche questa di un divenire non annullante l’esistenza terrena, vittoria sulla morte che ogni fisicità rende polvere.

La morte è presenza incombente dai riflessi non omologati. Alla prima giovinezza risale, ad esempio, qualche lirica (Sorella morte, cugina borghesia) di denuncia dei comportamenti di una classe poco propensa alla pietas, tutta presa da vertiginose vette, eppure costretta anch’essa a pensare alla pulvis, alle proprie “lingue di serpenti”, divorate da vermi, al “vanto” che finirà “putrida materia”. Toni forti, sarcastici, né vengono escluse visioni macabre: la morte veste qui il ruolo della giustiziera.

Ma in questa silloge, che si arricchisce di taluni brani di prosa – meditazione sul tema – e di un’appendice sul quarto Giro CicloInVersoRoMagna 2011 – particolare combinazione di ciclismo e poesia – c’è soprattutto un soffermarsi su quella morte che stempera la violenza nel connubio col dolore elevato all’accettazione, il prevalere quindi della francescana concezione che, come nella riflessione di Jaques Bossuet (Sermone sulla morte), diviene pure convincimento della nostra bassezza e, al tempo stesso, conoscenza della nostra dignità.

[fonte: Literary.it]

 

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