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Milano, città in divisa

Marzo 11
06:45 2010

Milano, 11 marzo 2010. Non mi piace Milano. L’amavo, qualche anno fa, per la sua vitalità, il suo ritmo senza soste, la sua creatività. L’amavo per le sue contraddizioni e i suoi slanci, per la sua anima trasformista, capace di guardare verso squarci di cielo, oltre la cappa di gas tossici, e – di tanto in tanto – spiccare il volo. L’amavo quando era popolata da personaggi liberi, meravigliosi e incredibili: il mago comico Mustafà, i mimi, le “tropes” di suonatori boliviani, i gruppi musicali Rom, con le magiche fisarmoniche e gli inimitabili violini. Gli artisti di strada, che si incontravano nelle vie del centro e che facevano di Milano “un gran Milan”. Mi ricordo un giorno d’estate a metà degli anni 1980, quando passeggiavo con il poeta beat Gregory Corso ai piedi del Duomo e la piazza era animata da Romnì che leggevano la mano ai passanti e giovani Rom che suonavano fughe zigane così trascinanti che le guglie stesse della grande basilica sembravano possedute dallo spirito della danza. Gregory e io non resistemmo e ballammo insieme ai Rom, cantammo, recitammo poesie, ridemmo. Ma non solo noi, perché il “gran Milan” era pieno di voglia di ballare. Sono passati venticinque anni ed è triste, per me, camminare negli stessi posti e notare come la città sia diventata piccola. Piccola nello spirito. Misera nella fantasia. Immobile nella voglia di ballare, di fare capriole, di crescere. Ci sono uomini in divisa dappertutto, come nella Berlino del Fuhrer. Ieri pomeriggio avevo un presagio d’angoscia, mentre salivo sul treno, diretto a Milano. Dovevo incontrare alcuni responsabili di un programma Rai, con i quali sto collaborando alla realizzazione di uno speciale dedicato alla cultura Rom. Ci siamo incontrati al Savini, lo storico ristorante di galleria Vittorio Emanuele. Mi accompagnava un amico – difensore anche lui dei Diritti Umani – e una famiglia di artisti Rom romeni, che prenderanno parte al programma: papà, mamma e due giovani ragazze. Sulla metropolitana, verso la fermata Duomo, la gente guardava la famiglia con ostilità. Qualcuno sussurrava, storcendo la bocca: “zingari”. Siamo scesi e ci siamo diretti verso il Savini. Ho visto sopraggiungere le persone con cui avevo appuntamento e ho mosso, insieme al mio amico, alcuni passi verso di loro. Pochi secondi e sentiamo gridare alle nostre spalle, tre metri dietro di noi, dove sono rimasti i nostri amici Rom. Due agenti stanno chiedendo loro i documenti. Uno di loro grida, mentre impartisce comandi alle ragazze, che tremano: “Che cosa fate qui? Mostratemi i documenti!”. I genitori balbettano che hanno un appuntamento con noi, indicandoci. MI avvicino all’agente che urla e gli dico: “Non c’è bisogno di gridare. Non vede che le ragazzine sono spaventate? E poi… stiamo lavorando con la televisione e con tutto questo gridare, non facciamo bella figura”. Il giovane in divisa comincia a inveire contro di me: “Ah, che cosa vuole dire? Che non sappiamo fare il nostro lavoro? Che vi facciamo fare brutta figura?”. Il suo collega sogghigna: è una parte che ha già visto recitare al suo compagno chissà quante volte. “No. Dico solo che non serve gridare e che le ragazzine sono spaventate. Hanno già subito atti di razzismo, a Milano, e se le trattate con durezza, si prendono paura”. “Allora vuol dire che siamo razzisti?” continua l’agente, avvicinando il suo viso al mio e fissandomi negli occhi con aria di sfida. “Secondo lei siamo violenti?”. Non abbocco. E’ da trent’anni che mi relaziono alle forze dell’ordine, durante le azioni umanitarie a difesa dei Diritti Umani. “No, mi riferisco a fatti accaduti nel passato, ma dovete capire che le ragazzine si spaventano se voi alzate la voce e non mi sembra che abbiano commesso un reato”. A questo punto l’agente mi grida: “Ho ascoltato abbastanza. Lo sa che lei sta ostacolando un’operazione di pubblica sicurezza? Lo sa che posso arrestarla e portarla in questura in manette?”. Il mio amico attivista interviene; insieme, mettiamo in atto una tecnica dialettica da noi già sperimentata con successo di fronte ad agenti di pubblica sicurezza particolarmente rabbiosi. Siamo operatori umanitari: si rendono conto che non ci comporteremmo da agnelli sacrificali, una volta in questura, ma reclameremmo riguardo al loro atteggiamento non certo canonico. Decidono di non rischiare. Ringhiano ancora qualcosa e si allontanano. L’appuntamento prosegue senza più interruzioni, salvo che i due agenti passano ancora più volte davanti al nostro tavolino, oltre la vetrata del ristorante e ogni volta guardano fisso verso di noi. Questa è l’aria che tira a Milano, oggi. Ed è per questo che non ci piace più, la metropoli del “cuore in mano” divenuta capitale di una delirante, inesistente Padania: senza fantasia, senza musica, senza emozione, senza nessuno che danzi o cerchi azzurri squarci nel cielo di piombo, prigioniera della paura. Una città in divisa.

Per ulteriori informazioni:
Gruppo EveryOne

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