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MUSEO DELLE OPACITÀ

MUSEO DELLE OPACITÀ
Giugno 06
16:52 2023

Museo delle Opacità Installation view at Museo delle Civiltà di Roma Foto © Giorgio Benni

MUSEO DELLE OPACITÀ

con interventi dei Research Fellows del Museo delle Civiltà
Sammy Baloji
DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti

a cura di Gaia Delpino, Rosa Anna Di Lella, Matteo Lucchetti
supervisione generale Andrea Viliani

da martedì 6 giugno 2023
Palazzo delle Scienze: ingresso, scalone monumentale, mezzanini (primo piano)

Con il titolo di Museo delle Opacità, il 6 giugno 2023 il Museo delle Civiltà presenta il nuovo capitolo dedicato al riallestimento in corso delle collezioni e delle narrazioni museali: un nucleo di opere e documenti dalle collezioni dell’ex Museo Coloniale di Roma, entrate a far parte delle collezioni del Museo delle Civiltà nel 2017 e in corso di ri-catalogazione, vengono messe in dialogo con opere contemporanee che comprendono anche nuove acquisizioni rese possibili dal bando PAC-Piano per l’arte contemporanea del Ministero della cultura e nuove produzioni realizzate attraverso processi di residenza nel contesto di Taking Care-Ethnographic and World Cultures Museums as Spaces of Care, co-finanziato dal programma Creative Europe dell’Unione Europea.

Il termine “opacità” assume nel titolo un duplice significato: da un lato fa riferimento, in modo letterale, al velo opaco dell’amnesia caduto sull’epoca coloniale della storia nazionale che ne rende ancora poco conosciuti gli avvenimenti, le cifre e i nomi dei protagonisti. Dall’altro lato l’opacità è quella teorizzata dal poeta e saggista Édouard Glissant (Sainte-Marie, Martinica, 1928-Parigi, 2011) – i cui scritti sono stati fondamentali per lo sviluppo del pensiero post e de-coloniale contemporaneo – che aveva partecipato nel 1959 al 2º Congresso Mondiale degli Scrittori e Artisti Neri organizzato presso l’Istituto Italiano per l’Africa di Roma (l’ente a cui nel 1956 furono affidate le collezioni del Museo Coloniale di Roma). L’opacità, per Glissant, è il diritto di ogni individuo di non assoggettare la propria identità a criteri quali “accettazione” o “comprensione”, che equivalgono a gesti di appropriazione e di classificazione unilaterali, ma al criterio della “condivisione”, che conduce ad assumere e condividere identità autonome e specifiche, generate non dagli altri ma da sé stessi.

È in questo senso che il Museo delle Civiltà ha deciso di condividere con molteplici soggetti – cittadine e cittadini, gruppi collettivi e comunità, artiste e artisti, curatrici e curatori, ricercatrici e ricercatori – le proprie riflessioni su come interpretare e riallestire una selezione di opere e documenti delle collezioni dell’ex Museo Coloniale di Roma che testimoniano la quasi secolare storia coloniale italiana in Africa (1882-1960) e che furono originariamente musealizzati con una funzione di propaganda a supporto della costruzione degli immaginari e delle politiche coloniali. Nel dotarsi di un metodo di ricerca plurale e partecipato, il Museo delle Civiltà affronta innanzitutto le proprie responsabilità istituzionali nei confronti dei circa 12.000 oggetti – reperti archeologici, opere d’arte, manufatti artigianali, merci, sementi, strumenti scientifici e tecnologici, carte geografiche e dispositivi allestitivi – che dal 1971, anno di chiusura dell’ex Museo Coloniale, sono rimasti oltre 50 anni in deposito, innescando da un lato un fenomeno di rimozione collettiva della storia coloniale italiana, ma dall’altro anche una sua necessaria ricontestualizzazione nel nostro presente. Ciò che ne emerge è la potenzialità rigenerativa di queste stesse collezioni, una volta messe in dialogo con opere d’arte e documenti contemporanee.

È su questo dialogo che si fonda quindi l’ipotetico Museo delle Opacità: utilizzando le fotografie degli allestimenti storici come “testimonianza antropologica”[1], ovvero come memoria critica del contesto museale originale, è possibile ricostruire i rapporti tra gli oggetti e i dispositivi linguistici ed espositivi che ne sostenevano l’interpretazione ma anche innescare la possibilità di nuove modalità di documentazione, ricerca e condivisione. In particolare, la possibilità immaginifica di rinegoziare i termini stessi delle storie raccontate, proiettandole dal passato al futuro per restituire la parola anche alle tante soggettività che furono a suo tempo escluse dagli allestimenti e dalle narrazioni dell’ex Museo Coloniale o rese alterità utili a definire una contrapposizione invece che, appunto, un dialogo fra soggetti e culture.

Quello dell’opacità è quindi un criterio possibile non solo per riscrivere la storia dell’ex Museo Coloniale di Roma, investigando i meccanismi che lo hanno generato in passato, ma anche per sprigionare la forza propulsiva di nuove narrazioni che potranno contribuire, di fatto, a che non esistano in futuro nuovi Musei Coloniali ma spazi e tempi di condivisione, piattaforme in divenire di compartecipazione, incontro e confronto.

[1] Concetto espresso da Germano Celant all’interno del saggio “Verso una storia reale e contestuale” pubblicato nel catalogo della mostra Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics Italia 1918–1943, tenutasi presso la Fondazione Prada di Milano dal 18 febbraio al 25 giugno 2018.

Bertina Lopes. Via XX Settembre 98, la casa come luogo di resistenza Installation view at Museo delle Civiltà di Roma. Foto © Giorgio Benni

BERTINA LOPES

a cura di Claudio Crescentini, Paola Ugolini
supervisione generale Andrea Viliani

6 giugno – 5 novembre
Palazzo delle Scienze: 1° piano

Il 6 giugno 2023 il Museo delle Civiltà presenta la prima mostra che ricostruisce lo spazio di vita e di lavoro, al contempo privato e pubblico, dell’artista e attivista Bertina Lopes (Lourenço Marques, attuale Maputo,1924-Roma, 2012). In occasione della mostra, a cura di Claudio Crescentini e Paola Ugolini, la casa e lo studio romani di Lopes, in Via XX Settembre 98, saranno per la prima volta oggetto di una ricostruzione parziale, resa possibile da un’estensiva documentazione fotografica realizzata dal fotografo Giorgio Benni e commissionata dal Museo delle Civiltà.

A Roma Lopes ha vissuto 70 anni, trasformando la sua casa-studio in un punto di incontro per intellettuali, artisti, poeti, rifugiati e attivisti della comunità mozambicana e portoghese, ma anche di altri Paesi africani ed europei. In questo contesto, vita e arte si sono intrecciate senza soluzione di continuità, divenendo uno spazio di resistenza in cui esprimere la propria denuncia dell’oppressione, il dolore per la lontananza dalla terra d’origine e la rivendicazione delle proprie radici, il ricordo di storie, motivi decorativi, materie e simboli dell’arte africana e la ricerca e affermazione di un’identità contemporanea consapevolmente diasporica.

Pittrice e scultrice afrodiscendente fra le più rilevanti del suo tempo, Lopes – che a partire dal 1964 scelse Roma come sua città di residenza – ha sviluppato un circostanziato corpus di opere in cui non solo ha saputo articolare un’appartenenza a molteplici tradizioni culturali e artistiche, sia europee che africane, ma dare rappresentazione alle più urgenti istanze sociali a lei contemporanee, divenute fondamento anche per le pratiche de-coloniali delle generazioni di artisti a lei successive. La ricerca artistica di Lopes si è modellata infatti intorno a più fonti e si è espressa attraverso le articolazioni di un linguaggio mobile e sincretico, dall’arte tradizionale mozambicana – le cui cromie e forme sanciscono per Lopes valori comunitari e i momenti di vita sociale ad essi connessi, celebrando riti di passaggio e narrando miti di fondazione – al Modernismo portoghese ed europeo.

Nei dipinti e disegni in mostra – accompagnati da libri, immagini fotografiche e strumenti di lavoro – Lopes mette in evidenza la mentalità coloniale, il razzismo e le atrocità dei conflitti e delle guerre attraverso un linguaggio che è espressione del vivere tra mondi diversi. Tutte le opere dell’artista si caratterizzano per un utilizzo spregiudicato del colore e un uso della linea di derivazione decostruttivista. Il loro eclettismo è più apparente che sostanziale in quanto, dagli esordi figurativi degli anni Cinquanta alla sperimentazione informale e astratta dei decenni successivi, proprio il ricorso a elementi fra loro disomogenei – in cui si articolano mezzi espressivi diversi così come elementi bi- e tri-dimensionali – tende ad animare di una tensione profonda e ancestrale la superficie di ogni opera.

PER MAGGIORI INFORMAZIONI

Museo delle Civiltà:
mu-civ.comunicazione@cultura.gov.it

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