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#Nonleggeteilibri – Un figlio, sua madre, l’estate e quell’ultimo saluto…

#Nonleggeteilibri – Un figlio, sua madre, l’estate e quell’ultimo saluto…
Gennaio 28
19:29 2019

(Serena Grizi) L’estate del ’78 di Roberto Alajmo, Sellerio 2018 € 15,00 isbn 9788838937729 e-book € 9,99 disponibile al prestito inter bibliotecario SBCR www.consorziosbcr.net

Elena è bella giovane e sottile: insegna sognando una scuola che metta in pratica la didattica di Don Milani, dipinge. È creativa anche nel vestire: indossa gonnelloni, raffinate mise bianche o parrucche per cambiare più spesso pettinatura, secondo l’estro. Elena è viva, vorrebbe realizzarsi. Lei e suo marito nel tempo si sono allontanati, divenendo troppo diversi: lui ama molto le vacanze ‘in’ degli anni ’70, forse ha trovato una compagna più vicina a ciò che è diventato, così Elena, non senza dolore, si separa e lascia la casa e i due figli cresciuti in quella casa. Anche per questo Elena a volte può sentirsi sola e giudicata: perché vorrebbe essere considerata a scuola invece che ‘richiamata’ per iscritto a causa della sua visione culturale più libera riguardo il tempo in cui le è toccato di esistere; vorrebbe essere una pittrice più brava, o forse solo avere con sé i figli che magari ha lasciato perché a volte si sente smarrita e ‘fuori quadro’. Solo che Elena, è la madre dell’autore, scomparsa nell’autunno del ’78 dopo aver ricevuto, su un marciapiede, il saluto impacciato di suo figlio adolescente, devoto agli amici più che ad altro in quel momento, gli stessi che poi magari, vedendolo troppo affettuoso, potrebbero giudicare il suo attaccamento alla mamma. E lui la saluta come se si dovessero rivedere, e invece non sarà così: perché quella è per lui l’estate della maturità e dei viaggi e dell’amore e tutto quel che può capitare da ragazzi, per sua madre l’estate dell’oblio, preludio alla solitudine, alla scomparsa. Quel saluto resta impietrito sul marciapiedi ed Elena morirà sola, nella sua casa, con tutta probabilità per ingestione di un barbiturico poi messo fuori commercio. Quella di Alajmo è una indagine a porte aperte: la conduce tra gli scritti di sua madre, liste su fogli protocollo, agende con i numeri delle amiche più care, foto, dipinti; l’incontro con il compagno affettuoso dell’ultimo tratto della vita della donna, rimasto forse un po’ ai margini dei suoi pensieri, però. Per intensi momenti lo scrittore ricostruisce ciò che era sua madre, se stesso, il rapporto con suo fratello Marcello e di lui con Elena che glielo aveva affidato tempo prima: «Ti affido Marcello: non considerarlo un rivale, ma cerca di capirlo e di consigliarlo (…) sono vostra». Un lavoro di straniamento dalla mamma, sembrerebbe a tutta prima, alla ricerca della donna, paragonabile per metodo a quello che Lalla Romano compì per scrivere del suo essere madre di un complesso ‘soggetto’ figlio ne Le parole tra noi leggere che le fruttò un Premio Strega, ma forse questo libro non è paragonabile per risultato a quello della Romano: Elena, la madre, ne esce vivida e non estranea, amata senza sapere di esserlo così tanto, la dolcezza sferza la malinconia che nasce dalla mancanza obbligata. L’autore, già genitore una volta di Arturo «che non è posseduto dal demone della reperibilità» oggi s’avvia, per età, a diventare padre di sua madre, fra i pochi depositari della vita di Elena, ragazza. Ci sarebbe da dire ancora sui numeri di questo libro, sulle date, compresa la distanza di pubblicazione di questo ricordo dai fatti, distanza precauzionale decisa forse dopo che, fra i libri di Elena, Roberto lesse le pagine dell’ironico autore londinese «Evelyn Waugh, il quale sosteneva che quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è perduta».

Alajmo non crede a certe coincidenze, alle ventate che cercano di risucchiarti in un tempo che per qualcuno è diventato morto, ma scrive di questo ad una distanza di sicurezza che è pari all’ètà in cui scomparve sua madre, e divenne padre pochi giorni prima d’una decisione che per troppo dolore non poteva non prendere, almeno una volta, dopo quella indimenticata estate. Perché restare si può ma non senza diventare, a brani, un po’ di quell’altro.

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