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Nordri e Sudri

Novembre 02
14:00 2010

PROLOGO
Tanti e tanti anni fa, quando le cose più importanti della Terra erano ancora l’acqua, il cielo, gli alberi e la vita, dai quattro angoli della volta celeste nacquero quattro nanetti, custodi dell’amore. Due di questi, volando sui capelli dorati della dea delle favole, discesero in una valle alpina. Era una valle verdissima, ricca di fiori e custodita da una cengia di rocce dolomitiche che brillavano illuminate dal sole.

Un gregge di bianche pecore pascolava gaio tra l’erbetta, gli uccellini cantavano, vi erano splendidi narcisi che si specchiavano nel torrente e delle bellissime stelle alpine dai petali candidi e vellutati. I nostri due nani erano, se non altolocati, perlomeno addetti a compiti particolari. Di solito i nani sono industriosi artigiani, come fabbri o ceramisti, questi due esseri invece erano incaricati di custodire la famosa collana d’oro dell’amore di Freya, la musa della poesia e delle parole dolci, comunque sempre disposti a svolgere il loro lavoro di protettori del bene e degli animali.
La collana era ben sistemata nella loro casina di mattoni. Una piccola capanna di bei conci naturali, con una finestrina di legno d’acero e un tetto di paglia. Davanti alla casina sgorgava l’acqua pura di una fontana meravigliosa. Da questa fontana magica uscivano storie, fiabe e racconti. Era un’acqua limpida e unica.
Il primo nano si chiama Nordri, era vestito con un paio di pantaloni felpati blu, aveva una blusa rosa stretta da una cintura fatata, calzava scarpe dalle sette leghe scure e in testa portava un cappellino floscio color viola. La sua bella barba bianca coronava il mento, le sue gote erano rosa e aveva sempre il sorriso sulle labbra.
Nordri era assai allegro e puliva ogni giorno la fontana:
“Aiutami Sudri!” diceva all’altro nanetto, che aveva pantaloni bordeaux, blusa viola e cappello azzurro e per non sporcare l’aqua mentre puliva la fonte andava a piedi nudi. Sudri aiutava sempre con solerzia il compagno. Ogni giorno qualcuno si recava alla fonte magica. Spiegava i propri problemi e allora i nani facevano sgorgare dalla sorgente una fiaba che spiegava e aiutava ad affrontare i quesiti della vita. A volte giungevano fanciulli in preda alle difficoltà, altre volte arrivavano animali.
Le giornate di Nordri e Sudri erano assai intense. Si occupavano della sorgente, di lucidare la collana di Freya, di accogliere tutti coloro che si recavano ad ascoltare le fiabe.
Per accedere alla loro valle bisognava essere capaci di apprezzare i miracoli della natura, ci volevano dolci sentimenti e bisognava avere tanta voglia di amare. In genere l’accesso era così negato agli adulti, almeno che non avessero serbato nel loro cuore la capacità di credere nella magia e di avere alta considerazione dei folletti, delle fate e degli animali.

1
Ormai aprile era quasi finito e maggio si affacciava alle porte. I bei fiori ingentilivano le colline. Le dolomie scintillavano di striature gialle, rosse e blu.
“Che bella mattina!” disse allegro Nordri.
“E’ davvero stupendo!” rispose Sudri mentre lucidava la collana della dea dell’amore, la regina Freja.
Nel mentre si sentirono lievi passi.
Era una bambina che si avvicinava alla fonte per essere illuminata da una favola. Era una fanciulla assai triste.
“Il mondo è grigio! Tutto è smog e cemento! Gli esseri umani sono egoisti!” diceva la bambina.
Nordri e Sudri erano assai amorevoli. La coronarono con un serto di petali e poi la fecero sedere vicino alla fonte. I sassi erano belli e freschi davanti alla sorgente. Sudri sistemò un poco di muschio e asciugò un ciottolo della dimensione adatta per farci sedere la bambina.
“Ascoltiamo cosa ci racconta la fontana magica!” disse Nordri. I tre si misero davanti all’acqua che sgorgava e in modo magico si udì la voce incantata della fonte che narrò:

IL MONDO GRIGIO
Il mondo era grigio e brutto.
Mancavano l’amore e il rispetto per gli altri.
Le città erano nere e tutto era triste.
“Abbiamo freddo!” protestavano i bambini.
Mancava la cosa più importante della vita, ovvero la gioia di stare con gli altri.
Gli uomini erano egoisti e non volevano allacciare rapporti con il prossimo, né si volevano amare gli animali, i fiori e le piante.
Nessuno così sorrideva mai.
“Il pianeta deve cambiare!” disse il custode dei custodi.
Radunò una schiera di folletti, un esercito di gnomi e un grande numero di elfi.
Ad ogni essere del ‘piccolo popolo’ diede un secchio fatato.
In ogni secchio c’era un colore magico.
Ad Artemisio, il più dolce degli gnomi, porse un pennello:
“Questo è il pennello dalle setole d’oro!” disse il custode dei custodi. Con una sola pennellata si potevano coprire il grigio e la tristezza.
Gli elfi partirono verso i paesi neri e mesti. I folletti volavano suonando i loro pifferi per incitare alla pace. Gli gnomi coloravano tutto.
Le pianure divennero come arcobaleni. Le acque nere e piene di rifiuti, divennero pulite e azzurre. Le montagne grigie diventarono verdissime. Il cielo abbrunato dalla fuliggine diventò terso:
“Che bello!” diceva la gente.
Insieme all’apparire di tutti quei colori, la popolazione ridestò la propria voglia di amare. I cuori si aprirono. Intanto le pennellate magiche portavano luce presso le città. Tutto divenne bellissimo. Pareva la primavera degli animi. Gli uomini offrivano fiori alle donne, i ricchi sfamavano i poveri. Si deposero armi e oggetti contundenti. Gli uccellini cantavano dai loro nidi, mentre Artemisio continuava a colorare.
Le persone si sentirono cambiare. Gnomi, elfi e folletti avevano cambiato il mondo in bianco e nero che era divenuto iridato. Si respirava il profumo della natura, ci si abbracciava e si cantava di gioia.

2
Ad avvertire Nordri e Sudri di qualche pericolo, o dell’avvicinarsi di un orco oppure di un maligno, stava sull’abbaino della loro capanna con il tetto di paglia, una campana. Quando la campanina bronzea suonava, i due nanetti si nascondevano in casa. Quella mattina d’aprile, Sudri stava curando la sua gerbera rosa; Nordri invece spazzava davanti all’ingresso di legno dell’abitazione. La campana rintoccò. I due nanetti si nascosero in casa: stava passando il lupo. Era un animale bello e fiero. I lupi sono famosi per la bramosia e la voracità ma non è tutto vero, anche loro se presi per il verso giusto sanno capire sentimenti e cuore. Il nostro lupo era però deciso a essere cattivo. Rinchiusi nella casina, Nordri e Sudri guardavano attraverso i vetri accostati della finestrella. Le ante di legno li celavano alla vista del canide. Il lupo si avvicinò alla fonte per bere. Gli colava la bava dalla bocca. Era intenzionato a spargere panico e paura:

“Bisogna amare la vita e rispettare il prossimo!” disse Nordri da dentro la casetta. I lupi possono cacciare per cibarsi, secondo la dea Freja, ma non devono uccidere per il puro gusto di farlo come fanno certi uomini, così è permesso loro dalla regina dell’amore di soddisfare le proprie esigenze tuttavia non devono agire malvagiamente.
“Ho sete!” urlò il lupo.
“Attingi pure alla fonte però ascolta la fiaba!” disse Sudri provando a uscire dalla casetta.
Il lupo bevve e si mise ad ascoltare una fiaba che gli fece capire l’importanza e la potenza dell’amore. Da quel giorno il lupo cambiò, dopo aver capito che con l’amore si può tutto, o per lo meno si può più che con la cattiveria. Da quel dì all’avvicinarsi del lupo la campana non suonò più, il lupo non rappresentava più un pericolo. Ecco la fiaba che la sorgente magica narrò:

LA FORZA DELL’AMORE
Il ricco pascià volle avere presso il suo palazzo la danzatrice Ragazza Fiore. La fece comprare al mercato delle vergini. Era fanciulla stupenda, cantata da tutti i poeti, con lo sguardo simile a un firmamento di stelle, la pelle di ineguagliabile purezza, le mosse dolci e il sorriso incantevole.
Ragazza Fiore non solo era bella, ma aveva la capacità di aprire il proprio cuore e i propri sentimenti.
“Portatela a ballare innanzi a me!” ordinò il pascià. Coperta di veli e ornata di fantastici gioielli che ben accompagnavano la sua leggiadria, Ragazza Fiore giunse davanti al pascià e ballò. A ogni passo una luce di stelle la seguiva, il suo era davvero un amore magico.
“Non fatela mai vedere a mio figlio, egli è troppo cattivo!” disse il pascià. Questo pascià infatti aveva un figlio assai maligno. Era un ragazzo bellissimo però parecchio malvagio. Faceva tremare tutti coi suoi modi burberi. Aveva il cuore duro e rigido, alla delicatezza del suo viso si contrapponevano astio e malevolenza nei confronti di tutti.
Un giorno, mentre Ragazza Fiore usciva dalla piscina dove si era lavata e profumata, il figlio del pascià si trovò innanzi a essa . Le guardie subito si frapposero tra la fanciulla e il ragazzo.
Tutti temevano la cattiveria del figlio del pascià. La sua perfidia era tanta che nessuno sapeva come controllarlo o redimerlo. Il crudele ragazzo guardò con occhi sanguigni Ragazza Fiore. Ella non ebbe paura. Aveva come arma la dolcezza e la bontà.
“Un despota si è insediato nel tuo animo, apri il cuore all’amore!” disse Ragazza Fiore. Dai suoi palmi uscì una rosa rossa che si posò sul capo del figlio cattivo del pascià. Il ragazzo mutò espressione. Il suo volto si distese. Nessuno era mai riuscito a farlo sorridere, adesso invece aprì scintillando occhi e labbra. Davanti all’amore non si può nulla. Il ragazzo si lasciò catturare da quel sentimento bellissimo e divenne buono.
Ragazza Fiore aveva vinto, il figlio del pascià cambiò totalmente vita. I due s’innamorarono e si sposarono tra gioia e letizia, mostrando a tutto il palazzo quanto importante sia l’amore per vincere il male.

3
Nordri e Sudri pulivano la bella fontana. Sudri, a piedi scalzi levava le foglie dall’acqua, il compagno lucidava la cannella della fonte. I due fischiettavano allegramente, mentre un capriolo si avvicinò alla sorgente. Si trattava di un cucciolo, già elegante e bello, con il caratteristico manto marrone scuro pomellato lungo i fianchi, proprio come Bambi.

“Ho paura di non crescere!” disse il piccolo cervide. Parlò delle grandi corna di suo padre, di quel palco magnifico che sormontava la sua reale testa: trofeo robusto e poderoso.
“Cresci con calma e gioia per la vita! Un giorno anche la tua testa sarà sormontata da una splendida corona, intanto ascolta la fiaba della sorgente!” disse Nordri… e dall’acqua che sgorgava si udirono le forze magiche narrare:

L’ASINAIO CHE AVEVA PAURA DI NON CRESCERE
Il giovane asinaio portava i suoi somari al luogo ove sarebbero stati caricati. Amava molto i suoi asinelli, animali dolci e indefessi lavoratori, sotto il peso della soma. Parlava con loro che lo guardavano coi loro dolci occhi, le orecchie lunghe e il bel pelo grigio screziato ora di sfumature chiare ora scure.
“Ho paura di non crescere!” si lamentava l’asinaio. Sul suo percorso trovò una vecchia. Aveva l’espressione tenera e materna, donna vissuta tra i triboli e le sofferenze, ma che aveva tanta sapienza e conosceva il regno delle fate.
“Perché ti lamenti?” chiese la donna.
Il giovane asinaio teneva uno dei suoi asini per la cavezza. Le labbra grosse dell’animale baciavano il padroncino.
“Vedo, da come ti vuole bene il tuo animale, che sei ragazzo buono!” disse l’anziana.
“Ho paura di non crescere!” disse il ragazzo.
“Data la tua chiara bontà ti spiegherò come fare per non crucciarti più! Cerca tre fili d’erba, un riccio di castagna e una ghianda d’argento, poi chiama la fata dei giovani!”
L’asinaio vide la donna scomparire e immediatamente si mise alla ricerca di tre fili d’erba. Li raccolse e li avvolse in un fazzoletto. Poi prese un riccio di castagna e andò in cerca della quercia d’argento. La quercia d’argento stava nel giardino delle fate. Per accedervi occorreva dimostrare di essere persone semplici e pure. A custodia del giardino c’era un contadino. Aveva l’ordine di tener lontani i cattivi.
“Chi sei?” chiese il custode.
“Sono un ragazzo che ha paura di non crescere!”
Subito il guardiano capì le buone intenzioni dell’asinaio, lo prese per mano e lo condusse alla quercia. Il ragazzo raccolse una ghianda d’argento, poi invocò la fata della gioventù.
Una fatina allegra, con tanta gioia di vivere, apparve da dietro un roseto selvatico.
“Ho paura di non crescere!” gli disse l’asinaio.
La fatina prese i tre fili d’erba.
“Conservali per sempre come simbolo di crescita! L’erba è capace di insistere e spuntare persino nell’asfalto!” disse la fata.
L’asinaio aprì il suo libro di poesie che teneva sempre con sé e lesse, mentre i somarelli pascolavano. Mise tra le pagine più belle i tre fili d’erba.
“Il riccio rappresenta la forza che ci vuole tuttavia dentro c’è il dolce frutto! Tienilo sempre vicino!” disse la fata.
“Lo metterò sul mio comodino!” rispose il ragazzo.
“La cosa più importante è questa ghianda d’argento, essa ti aiuta a ricordare che anche quando sarai cresciuto il tuo cuore dovrà rimanere impreziosito dalla gioia di vivere. Le magie esistono! Non smettere mai di credere alle fate! Ne incontrerai molte nella vita, ma se sarai diventato duro di sentimento, sarai incapace di riconoscerle!”
L’asinaio prese la ghianda d’argento e se la mise in tasca.
Vide la fatina volare tra mille colori e salutarlo.
Adesso aveva quei tre simboli importanti e non c’era più d’aver paura:
“Crescerò!” andava dicendo sicuro e ricominciò il suo lavoro con nuova energia e nuova forza… credere alle fate è importantissimo.

4
Come narra J.R.R.Tolkien nella sua descrizione della ‘terra di mezzo’, colà ove vivono nani, elfi e folletti, a nord della Grande via Est, stanno le Colline Vento. Presso queste alture si trovano le fortificazioni erette da Arthedain, per combattere gli influssi maligni. Tra queste colline, quella più alta è Colle Vento. Da essa scendeva quel giorno, diretto alla fonte magica lo stambecco e oltre le distanze, giunse proprio verso la valle alpina di Nordri e Sudri. Da Colle Vento si vedeva tutta la valle, perché il cuore vede al di là dei meridiani e dei paralleli. Lo stambecco era un buon padre di famiglia, pensava ai suoi piccoli e alla sua iper-protezione. Con le corna a scimitarra, formidabile arrampicatore pensava:

“Mai e poi farò scalare pendii o montagne ai miei figli! Ho troppa paura per loro!” non si rendeva conto che è nella natura di tutti gli stambecchi inerpicarsi sulle rocce.
Lo stambecco si avvicinò alla capannina di Nordri e Sudri.
Nordri notò subito le impronte dello stambecco, individuando le tracce delle sue particolari unghie, adatte alla vita sui percorsi scoscesi e fatte in maniera tale da aderire bene sul terreno impervio.
“C’è uno stambecco!” disse a Sudri e infatti i due videro il bell’animale avvicinarsi alla fonte.
C’erano alcuni germogli presso la fontana. Lo stambecco ne stava mangiando un pochi.
“Buon appettito!” augurò Nordri. Lo stambecco lì per lì s’impaurì poi i nani lo accolsero con la loro solita cordialità. Di solito per non farsi capire i nani parlano tra loro in nanesco, il loro idioma che è ignoto a ogni altro essere. Comprendono però la lingua di tutti gli animali e sanno parlare con le altre creature. Si misero dunque ad articolar parole nella lingua dello stambecco. Vedendolo assai serio e mangiare con nervosismo, gli chiesero cosa avesse.
“Sono molto preoccupato per i miei figli! Ho paura che caschino e non li faccio uscire di casa!” disse lo stambecco.
“Male! Malissimo!” commentò Sudri mentre puliva la fontana, posò il suo berretto azzurro su uno dei pali che cingevano il giardinetto della capanna e disse all’animale:
“Ascolta ora una favola che ci racconterà la fonte magica e capirai quanto sia importante, per un cucciolo, indagare e scoprire!”
Dalla sorgente uscirono le parole del cantastorie fatato:

QUELLA MALEDETTA PROBOSCIDE
L’elefantino Hel era da anni coccolato dalla mamma. Era un’elefantessa dolce e buona, ma troppo attaccata al figlio. Con i suoi occhi piccoli, in confronto al grande capo, lo guardava e gli diceva:
“Non muoverti, non allontanarti da me!” e lo teneva per la proboscide.
L’elefantessa sosteneva strettissimo il piccolo.
Gli elefanti con la proboscide si portano il cibo alla bocca, bevono, indagano il mondo e specialmente i giovani imparano così a distinguere le cose. I piccoli elefanti con la proboscide scoprono la vita.
Hel non poteva scoprire nulla, non poteva mangiare a piacimento, né poteva rinfrescarsi con l’acqua perché la mamma gli teneva stretta la proboscide.
Hel piangeva:
“Voglio scoprire il mondo!” diceva, ma la mamma aveva troppa paura per lui. L’elefantino così non cresceva e non imparava nulla. Era triste e desolato.
La mamma avrebbe voluto vederlo felice, ma il terrore di un pericolo le faceva tenere sempre più stretto il piccolo.
La proboscide è un dono del dio Nettuno, fatto millenni e millenni fa. Senza proboscide un elefante non può vivere e l’elefantessa stava proprio impedendo, paradossalmente, al suo amato figlio di percorrere il cammino dell’esistenza.
Il dio Nettuno in persona si presentò alla mamma iper-protettiva. Nettuno uscì dal mare con il suo carro magico trainato da ippocampi. Bei delfini lo salutarono mentre il dio si dirigeva verso la pianura ove gli elefanti pascolavano.
Nettuno aveva lo sguardo maestoso, una folta barba e l’elefantessa subito s’inginocchiò ai suoi piedi comprendendo che era un essere superiore.
“Cosa ordini o potente Nettuno?”
“Lascia la proboscide di tuo figlio e permettigli di indagare il mondo! Egli non può goder del gusto della scoperta!”
L’elefantessa capì ed eseguì l’ordine, il piccolo finalmente poté cominciare il suo percorso di crescita.
Crescere è un diritto di tutti i cuccioli.

5
Nell’aria si respirava quella mattina un profumo nuovo. Erano appena nate le magiche erbe della montagna: i rossi fiori dell’acetosa, la viola infiorescenza della bistorta, il farinaccio, la malva tinta di lillà, la preziosa ortica con tutte le rosse farfalle vanessa intorno, la cicoria coi suoi gialli cupolini . Sudri si allontanò un poco dalla fontana e raccolse un po’ di malva.

“Ne faremo una tisana fatata e rinfrescante!” disse al compagno.
Nordri invece mise un paio di guanti e raccolse un poca di ortica:
“Anche l’ortica è eccezionale, ha sapore delicatissimo!” disse in mezzo a un gruppo di farfalle che volavano contente.
Le erbe della montagna erano davvero cosa miracolosa.
Tra le farfalle ce n’era una che piangeva.
Si trattava di una rappresentante dello splendido pavone diurno, quel lepidottero dalle ali rosse con disegnati dei cerchi simili a occhi gialli e blu. Piangeva per le tante promesse che la società moderna fa ai giovani:
“Ho paura per i il mio figliolo il bruco! Ascolta tv e legge giornali falsi e bugiardi! Insegue chimere assurde e non ama la pace e la concordia!”
Nordri e Sudri raccolsero tutti i bruchi che stavano sulle foglie d’ortica. Si trattava di elegantissimi giovani. Li adagiarono con dolcezza davanti alla fonte magica e poi dissero:
“Ascoltiamo la favola fatata!” e la fonte cominciò la sua fiaba:

LE FALSE PROMESSE
“Avvicinatevi al dolce miele!” urlava un ciarlatano ai giovani del luogo. Prometteva e diceva, ma non indicava una mèta sicura, parlava solo di un futuro dorato però erano solo chimere.
I ragazzi correvano tutti presso il luogo ove si sentiva il dolce profumo di acacia e di fiori d’arancia.
Il ciarlatano prometteva gioia e letizia.
Assicurava messaggi positivi, mascherando egoismo, avarizia e individualismo.
I ragazzi si lasciavano attirare dalle promesse.
Il ciarlatano preparò vasi all’apparenza accattivanti e dispose grandi cucchiai innanzi ad essi. Non si trattava tuttavia di vero miele, era una pozione avvelenata dalla cicuta.
Con false parole assicurava una vita prospera di momenti gai, sarebbe stata invece la morte per tutti i ragazzi.
Aveva già colmato un cucchiaio. I presenti avevano l’acquolina in bocca. Stavano per cadere nella trappola che avrebbe portato ognuno alla morte. Il ciarlatano cominciò a ghignare, ma dal torrente si vide planare sull’acqua una magica foglia di ninfea. Sopra a essa stava una buona signora, era la fata Dia. Dal suo cappello a cono fece scintillare una luce dorata. Dalla luce apparve vero miele. I ragazzi continuavano a spingersi tra loro per arrivare dal ciarlatano, tutti si urtavano e si maledicevano.
“Non mi piace la via che conduce qui e là. Non bevo alla fonte dove tutti s’intruppano. Detesto ciò che è senza regole ! Sono tutte false promesse!” disse la fata Dia. Queste parole trattennero i giovani. Tutti si avvicinarono alla ninfea e gustarono il vero miele che portava alla pace e alla fratellanza. Il ciarlatano rimase con un palmo di naso. La cicuta si sprigionò dai suoi barattoli di falso miele che esplosero.
Il ciarlatano dovette scappare per sempre, mentre i ragazzi compresero che non bisogna farsi abbindolare dalle idee inverosimili di mass media, ciarlatani e venditori di fumo.

6
Il castoro se ne viveva lavorando e segando tronchi, ma aspirava solo guadagnare, pensava unicamente a diventare ricco e non dava spazio ai sentimenti e al cuore. Quel giorno capitò nella valle di Nordri e Sudri. I monti erano illuminati dal sole. Le rocce di dolomia risplendevano stupende, provocando lo scintillio di diversi colori. Si vedevano striature gialle, ombreggiature sfumate di rosso, mentre vicino all’acqua la roccia era azzurra.

Il castoro era stanco. Aveva lavorato a lungo rodendo legni e costruendo la diga in fondo al canalone, sua unica occupazione era racimolar soldi.
“Sono nervoso!” borbottava il castoro battendo con frenesia la coda a terra. Si alzavano mucchi di polvere mentre lui scoteva il suo codone.
“E’ perché pensi solo al denaro!” gli disse da vicino alla fontanella Nordri, levandosi il suo cappellino floscio tinto di viola, in atto di saluto.
“I soldi sono alla base del mondo!” disse messer il castoro.
“Ah sì? Allora ascolta una fiaba della fontana!” disse subito Sudri.
Il cantastorie magico si mise a narrare:

ALLA NASCITA DEL MONDO
I grandi pensatori dell’Antica Grecia erano in biblioteca a studiare. Si trattava di uomini assai colti. Conoscevano di stelle e di numeri, di parole e di concetti.
Stavano discutendo su cosa fosse alla base del mondo.
“Tutto è nato dall’acqua!” diceva Tal e parlava con la sua folta barba davanti agli altri, ostentando giustamente gran saggezza.
“L’acqua è al principio d’ogni cosa, dei pianeti, degli uomini, della creazione!”
Da dietro al tavolo dove c’erano i libroni di scienze, Anas scriveva per conto suo altre cose sulla creazione e non ascoltava. Sotto la finestra, ove entrava la luce solare a illuminare la stanza di studio, altri davano importanza al sole:
“E’ il sole che ha dato vita a tutto!” dicevano.
Intervenne Mene:
“Secondo me ogni cosa è nata grazie all’aria.” commentò Mene.
Erac aveva altre convinzioni. Lui era un nobile e le sue parole avevano per molti gran valore:
“Principio fondamentale è il fuoco!” affermava Erac.
Il gruppo di studiosi si applicava per approfondire le conoscenze sulla storia del mondo e della natura; tutti analizzavano la geografia e tutto ciò che potesse aiutarli a comprendere cosa fosse alla base della vita, ma non venivano a capo di nulla.
Con il suo sguardo intelligente apparve sulla volta del soffitto la bellissima dea Atena. Era la dea della saggezza e della sapienza. La dea indossava una corazza di pelle ed era accompagnata dalla sua fedele civetta. L’uccello volò sotto a una trave. Atena prese la parola mentre gli studiosi la guardavano attoniti. La dea voleva aiutare Tal, Erac, Anas e i loro compagni:
“Vi svelerò cos’è alla base di tutto! Le conoscenze che avete non sono all’altezza di comprendere!” disse la dea e quindi svelò:
“Alla nascita del mondo non sta l’acqua, non sta il fuoco e neppure l’aria, ma l’amore!”
Valore fondamentale è l’amore dal quale nasce ogni cosa. Grande concetto avevano imparato quel giorno gli studiosi. La dea Atena sparì tra un nugolo di mosche dorate e la civetta che cantava, mentre gli studiosi tremavano ancora: era stato rivelato loro il succo della vita.
Infaticabilmente Nordri e Sudri erano impegnati a lucidare la collana della dea Reja. Ormai era maggio, il mese delle rose e dei fiori. Tenevano la finestrella accostata, per far entrare gli effluvi della primavera e udire il canto dell’usignolo. Nordri fischiettava allegro. Ogni tanto si levava il cappello dal caldo:

“Non ti levare il cappello, può essere pericoloso!” lo avvertiva il compagno. I nani infatti non si devono mai togliere il cappello, esso serve per tenere tutte le loro conoscenze al caldo.

7
Il cervello dei nani invero è assai superiore a quello degli uomini e il cappello, che pare fatto solo di panno, è in realtà magico e protegge tutto il loro sapere. Nel cappello i nani tengono inoltre oggetti preziosi, il temperino fatato che serve per trovare l’oro dentro le noci, la polvere di stelle per dare la possibilità di volare agli amici, le chiavi per entrare nelle porte dei cuori e tante altre cose rare.

Nordri, tosto, si rimise il cappello e intanto che faceva questo, si udì uno scricciolo lamentarsi:
“Sono in ansia e ho paura di tutto! Sono piccino e indifeso!” diceva il piccolo uccello. Nordri e Sudri si affacciarono alla finestra. Il paffutello scricciolo si muoveva velocissimo in atto di scappare. Era davvero ansioso, tutto lo metteva a disagio. Si nascose dietro al fogliame basso vicino alla fontana, ma si vedeva il riflesso bruno rossiccio del suo dorso piumato.
“Non aver paura, non si deve aver timore!” gli disse con dolcezza Nordri. Bisognava aiutarlo a vincere quel sentimento di affanno. Lo scricciolo tremava, aveva perso il controllo.
“Ascoltiamo la fiaba magica della fontana!” gli dissero i nanetti, mentre dalla sorgente cominciò la storia:

IL RE ANSIOSO
C’era una volta un re tanto ansioso e pauroso.
“Mi farò chiudere nella campana di vetro!” decise un giorno.
Centinaia di sentinelle si schierarono davanti a una grande campana di vetro. Guardie e alabardieri facevano la ronda. Il re se ne stava dentro alla campana. Due volte al giorno mago Merlino gli faceva passare dal cuoco di palazzo due piatti di pastasciutta e l’oste reale gli serviva del vino.
Il re non usciva mai da sotto la campana, aveva deciso che la paura e l’ansia erano troppe, per poter affrontare il mondo e vivere.
“Per maggior sicurezza mi farò anche coprire con un panno la campana!”
I servi e i lacché portarono un prezioso telone di damasco a coprire la campana. Il re se ne rimase al buio. Non poteva più nemmeno vedere la luce del sole. Il tempo passò e giunsero i mesi di primavera.
Il re da dentro la campana non percepiva né i profumi dei fiori che nascevano, né poteva vedere i bei colori delle corolle. Percepiva però, sebbene il vetro lo isolasse da quasi ogni rumore, il canto del pettirosso.
La curiosità lo spinse a spiare attraverso una fessura del telo. Vide il pettirosso avvicinarsi al melo. I fiori del melo erano bianchissimi, con la loro screziatura rosa al centro. Il pettirosso cantava contento.
“Come lo invidio!” disse il re che pensava a quanto era bello poter essere vicino ai fiori e alla natura che si ridesta dal sonno invernale. Vicino al melo c’era un roseto selvatico. Il pettirosso si accinse a posarsi sui petali vellutati.
“Chissà che buon profumo!” pensò il re.
Alla campana picchiettò una colomba incantata. Si trattava della fata Maab che avvertì il re:
“Se vuoi sentire i profumi, accarezzare le rose, gustare la primavera devi uscire dalla campana!”
Il re si decise. Fece levare la campana di vetro. Mandò in vacanza gli alabardieri . Uscì da quella sciocca protezione. Gli uccelli cantavano. Il vento accarezzava il suo volto. Il sole lo scaldava e sentiva i profumi.
“Finalmente ho ricominciato a vivere!” e non ebbe più paura.

8
Anche nel mondo di mezzo, come si chiama l’universo magico degli esseri fatati , la primavera è caratterizzata dall’alternarsi di sole e violenti piovaschi. Quella mattina era piovuto forte. Non appena il sole tornò a splendere in cielo, un bell’arcobaleno coronò la valle presso la fonte magica. Sull’albero dirimpetto alla fontana magica stava un piccolo scoiattolo, come al solito sempre attivo e indaffarato:

“Buongiorno!” gli augurò sorridendo Nordri.
“Cosa fai?” gli chiese Sudri.
“Cerco la pentola d’oro in fondo all’arcobaleno!” rispose lo scoiattolino guardando il nanetto coi suo occhi scuri e drizzando le orecchie. Lo scoiattolo si arrampicò più in alto, per vedere se scorgeva la fine dell’iride. Si attaccò con forza alla corteccia del poderoso albero e mise una zampina davanti all’occhio per scrutare lontano:
“Sono altri i tesori che dovresti cercare!” gli disse Nordri.
“L’amore dei propri cari è ciò che abbiamo di più prezioso, non ori e gioielli!” ribatté l’altro nano.
I due presero per mano il roditore, lo fecero bere alla fontana fatata e poi, mentre una capinera gorgheggiava, il cantastorie magico cominciò a narrare:

IL VERO TESORO DELLO ZAR
Cart era un inventore prodigioso. Riusciva a creare e scoprire ogni sorta di ritrovato.
Ogni giorno presentava un’invenzione al suo padrone, il ricco Ass. Ass era molto avido. Era sempre in cerca di gioielli e tesori. Non si dedicava a figli e nipoti, pensava solo ad accrescere i propri averi:
“Ascoltaci nonno!” lo pregavano i nipotini, ma lui non aveva neanche un minuto per loro.
Quella mattina l’inventore era presso lo studio del riccone.
“Voglio che tu scopra un modo per indagare sull’antico tesoro dello zar!” disse Ass a Cart. Cart andò nel suo laboratorio. Lavorò per tre giorni e tre notti, poi si presentò con un grammofono particolare. Con esso si poteva indagare nel passato e ascoltare cosa dicevano un tempo i grandi personaggi della storia:
“Ascolteremo cosa diceva lo zar!” disse l’inventore.
Caricò il grammofono.
Ass fremeva e pensava a chissà quali segreti avrebbe scoperto:
“Il mio più grande tesoro si trova in fondo al corridoio a destra!” si sentì dire dal grammofono. Ass era così sicuro, bisognava andare all’antico palazzo dello zar e cercare in fondo al corridoio a destra. Pensava al tesoro che avrebbe trovato. Forse diamanti, forse ori, forse brillanti! Non stava più nella pelle. Si preparò alla ricerca mettendo in tasca un frutto e due biscotti. Calzò i sandali fatti dall’inventore che gli facevano percorrere un chilometro in un baleno e si diresse all’antico palazzo dello zar. Tutto nel palazzo era maestoso e ricco. Poteva davvero esserci un tesoro dalle mille e una notte in quel posto. Ass cercò il corridoio. Era un androne lungo lungo. Lo percorse tutto. Passò davanti a tante porte e alla fine arrivò in fondo. Guardò a destra. Un grande uscio di legno cigolò.
“Troverò gemme? Troverò monili preziosi?” esultava ad alta voce Ass. Entrò… e trovò invece la stanza dei nipotini dello zar. Ecco qual era la cosa più preziosa dello zar, la sua discendenza, i suoi cari.
La lezione fu importante per Ass, che tornò a casa con le pive nel sacco, ma decise da quel giorno di dare retta ai propri nipoti.
“Ascoltaci nonno!” chiedevano i piccoli e lui da bravo nonno lasciava perdere i propri affari e si metteva a giocar e con loro o a raccontargli favole.
Scoprì che come per lo zar, anche per lui, la cosa più preziosa che aveva erano i propri cari.

9
Nella valle di Nordri e Sudri non mancavano il laghetto e il bosco magico. Nel laghetto scivolava lieve sull’acqua quella mattina il bel cigno. Bianchissimo, coi riflessi argentei, era davvero un animale stupendo.

Nordri si aggirava proprio in riva al lago. Vide il cigno versare una lacrima.
“Sono troppo umile e modesto. Gli altri abitanti del lago se ne approfittano e sono invidiosi! Dovrei imparare a essere cattivo!” disse il cigno.
“Non è vero! L’umiltà è la virtù dei forti, non rispondere mai con la cattiveria!” gli rispose il nanetto e lo portò alla fonte magica per ascoltare una bella storia. Il cielo in quei giorni di maggio era terso e azzurro. Il sole risplendeva scaldando gli abitanti della valle. Il cigno si accomodò vicino alla fonte, illuminato dai raggi dell’astro del giorno, ascoltò attentamente la favola dell’umiltà:

L’UMILTA’ PREMIATA
C’era una volta una fanciulla bella come il sole. Aveva occhi magnifici che splendevano pari alle stelle, capelli rilucenti, un passo e delle movenze fuori dal comune.
“Siamo invidiose!” dicevano le amiche.
Chiamarono una strega e la fecero maledire.
La bellissima fanciulla fu ridotta a fare la guardiana d’oche.
Con umiltà e semplicità svolgeva amorosamente il suo lavoro di guardiana. Le oche erano tanto contente del suo bene.
“Un giorno ti premieremo!” dicevano le oche.
Ora avvenne che nonostante gli abiti da guardiana d’oche, la fanciulla pareva sempre stupenda e le amiche continuarono a essere invidiose. La fecero rinchiudere dalla strega in una torre altissima. La fanciulla era costretta a stare da mattina a sera sulla torre, mentre la notte doveva per punizione maligna, andare nelle case delle amiche cattive e pulire come una serva. Nelle ore diurne la bellissima ragazza se ne stava alla finestra della torre e guardava fuori. Era triste e desolata.
Un giorno passò davanti alla torre il principe, ragazzo stupendo, vestito d’azzurro, mentre cavalcava il suo bel destriero bianco.
Le oche dal prato non si erano dimenticate della bontà della fanciulla. Si misero a recitare dei qua qua magici.
“Sarà fatato il tuo riso, sarà miracoloso il tuo pianto, saranno preziose le tue emozioni!” dissero le ochette.
La fanciulla vedendo il principe sorrise da quanto era bello.
Una pioggia di diamanti cascò dalle sue labbra sul terreno davanti alla torre. Il principe si avvicinò curioso. La fanciulla si rattristò pensando che per lei era obbligatorio rimanere nella torre. Le scesero tre lacrime che per la magia delle ochette divennero tre lacrime d’oro.
Davanti allo spettacolo dei diamanti e delle lacrime che divenivano d’oro, il principe comprese che si trovava davanti a una ragazza eccezionale. Si arrampicò sull’edera che era abbarbicata presso la torre. Prese in braccio la fanciulla, la portò a palazzo e dopo averla presentata al re la sposò. La fanciulla venne così liberata dalla fattura maligna, visse a lungo felice e contenta con il principe, rimanendo sempre umile e vincendo l’invidia delle amiche cattive.

10
Era il periodo primaverile della pioggia magica. Le nuvole regalavano fatato liquido, che faceva sbocciare fiori e piante. D’un tratto cominciava a piovere, poi rispuntava il sole. Gli uccellini cantavano, ma in breve riprendeva la pioggia. Il tempo era pazzerello anche nella valle di Nordri e Sudri. Alla fonte si avvicinò la volpe. Il suo pelo rossiccio, ben mimetizzato vicino alla corteccia degli alberi, era invece evidente preso il verde della sorgente. Aveva una coda folta e bellissima. Le volpi sono parecchio astute, ma non è detto che usino la loro furbizia sempre a fin di male. Se sono educate all’amore le si può instradare verso opere assai positive. Per farle scegliere il bene e l’amore, i due nanetti vollero farle ascoltare una fiaba della fonte magica:

“Sentiamo una bella favola che ci narrerà il cantastorie della sorgente!” disse Nordri.
La volpe guardò il nano coi suoi occhi vispi, poi si mise ad ascoltare il racconto che sgorgava come in un incantesimo dalla sorgente:

IL BENE E IL MALE
Re Tary aveva scelto la cattiveria per il suo regno:
“Odio il mondo!” diceva con foga.
Tutto nel reame era freddo e brullo. C’erano solo sassi e ghiaccio.
“Che freddo!” si lamentava il popolo. Non c’erano fiori, non c’erano profumi né si udiva il canto degli uccellini, che erano tutti migrati lontano.
In quel paese cattivo era sempre inverno, ma la natura non si riposava. Nelle viscere della Terra vampe di fuoco cullavano gli spiriti maligni. I rami secchi degli alberi erano mani cattive che si avventavano su chi passava per la selva. C’erano steppe sabbiose e gelide. C’erano deserti di ghiaccio. L’oceano era in burrasca.
“Voglio un popolo malvagio!” annunciava il re dal suo balcone, al quale stavano affacciate streghe e arpie.
Presso la cascata magica, che era posta nell’unico lato solatio della pianura innanzi al castello reale, un giorno avvenne un fatto fenomenale: in un gioco di luci, vicino al rombo dell’acqua che scendeva violenta, comparvero centinaia di fate. Erano fate colorate e allegre. Si recarono in volo presso il trono di sua maestà Tary.
“Scegli il bene!” cantarono al sire.
Tary scelse il bene e cancellò il male.
Venne la primavera. Gli uccellini tornarono. I rami malefici si adornarono di bacche, foglie verdi e frutti e divennero dolci palmi che accarezzavano la gente. L’amore aveva vinto. Tutto era variopinto e felice. Il cielo nero divenne terso. Fu grande gioia. C’erano corolle colorate dappertutto.
“Viva il bene!” predicava re Tary.
Fata Jasmine volava presso i gelsomini e offriva fiori profumati . Dalle torri del castello si vedevano spuntare fiori rosa portati in bocca da felici gabbiani. Il mare era calmo. I folletti raccoglievano succose fragole nel bosco da portare al re e alla regina. Presso le candide campane dei mughetti cantavano fanciulle aggraziate. Tutto era armonia e amore.

11
I nani sono esseri molto attivi. Amano dormire a lungo, ma non rinunciano mai a vedere i due spettacoli giornalieri dell’alba e del tramonto. In verità preferiscono agire di notte, per non essere scorti dagli uomini malvagi, ma all’ora dell’aurora, quando il cielo diventa roseo e s’imperla di scarlatto e carminio, simile a petali di papavero, assistono al prodigioso evento del sole che si desta.

“Che spettacolo!” diceva ammirato Nordri.
Sudri aveva deciso di dipingere su tela l’evento dell’alba. Aveva preparato il cavalletto e i pennelli, con una tavolozza di colori. I nani sono capaci di dipingere quadri magici.
“Metterò una paradisea sullo sfondo, uno di quegli uccelli dalla coda ampia e fluente!”
Fece l’uccello col suo tipico piumaggio fulvo e la testa gialla. La coda era candida ma illuminata da raggi color del sole.
L’uccello del paradiso, essendo quello davvero un quadro fatato, si mise a cantare soavemente e poi a parlare:
“Guardate il mondo con sentimento e cuore!” diceva.
Era proprio vero, a guardare la vita con l’amore e il sentimento tutto era diverso.
L’istrice, che era lì vicino confermò: “Tutto mi sembra differente e più bello!”
La marmotta correva felice.
Il castoro batteva il ritmo suonando sul tronco, mentre l’usignolo cantava. Tutti si affacciarono alla nuova giornata con spirito diverso.
“Ascoltiamo la favola della fontana!” disse Nordri e gli animali della valle si avvicinarono alla fonte che cominciò a raccontare:

IL MONDO VISTO CON IL CUORE
Era il tempo lontano dei castelli e dei cavalieri. Re Mor se ne stava presso il bel giardino del suo maniero, ma pensava solo alle guerre e alle lotte con i reami rivali.
“La vita è grama!” si lamentava re Mor.
Non si accorgeva dello splendore del pesco nel centro del parco, non udiva il canto degli uccellini, non respirava il soave profumo delle rose.
I membri di corte arrivavano colle notizie dei combattimenti.
Dalle alti torri merlate si vedevano svettare le bandiere di guerra. La ronda di sentinelle faceva la pattuglia con le armi pronte a colpire.
Re Mor guardava alla vita solo con spirito battagliero e voglia di uccidere.
Alle porte del maniero, oltre il fossato pieno di pesci malefici e fango si avvicinò un viandante. Era un pellegrino che chiedeva ospitalità per la notte.
Per far vedere quanto era ricco e facoltoso re Mor lo accolse.
Furono serviti piatti succulenti. Il re stava sul tavolo più alto al centro della grande stanza. Per lui e gli aristocratici c’erano manicaretti, poi sempre pasti più poveri, fino ad arrivare al giullare che mangiava gli avanzi del re, come fosse un cane.
Il pellegrino notò la tristezza negli occhi di re Mor.
“Ti vedo crucciato!” disse semplicemente, scoprendosi il capo che teneva coperto da un cappuccio. Aveva capelli biondissimi, era un essere puro e candido di cuore. Subito ci si accorse dai suoi occhi azzurri, che si trattava di un grande conoscente dell’animo umano e della filosofia.
“Sono sempre in pensiero per le guerre!” disse re Mor.
Il pellegrino si alzò e prese il re a braccetto. Ormai era buio. Lo portò in giardino.
“Guarda il mondo con sentimenti di pace e amore, tutto ti parrà diverso!”
Il re si accorse per la prima volta dello splendore della luna. Vide nelle colorate corolle blu e rosse delle belle di notte, fiori fantastici. Apprezzò il canto degli uccelli notturni e respirò i profumi del giardino.
Il mondo appare tutto diverso visto con il cuore e il sentimento.
Il re decise da quel giorno di vivere per la pace e non per la guerra e non fu mai più triste.

12
Il sole è cosa bellissima e magica, che ci scalda, permette la vita delle piante e illumina tutto, ma anche la luna ha il suo fascino. Spesso Nordri e Sudri uscivano di notte, sicuri di non essere scorti dagli uomini, per pulire con cura la fontana. La luna pareva d’argento, custode della notte e dei sogni.

“Anche io ho un sogno!” disse la civetta.
“Tutti abbiamo sogni ed è bello credere alla loro realizzazione!” disse calzando bene il cappellino azzurro Sudri, mentre prendeva dalla sua sacca magica panni per lucidare la fonte e spugne fatate che la rendevano luccicante e tersa.
“Io vorrei scoprire la chiave della felicità!” disse la civetta arruffando le piume.
“Ascoltiamo la favola dell’acqua magica!” disse Nordri e il narrastorie cominciò:

LA CHIAVE DELLA FELICITA’
Ai tempi dei tempi, forse in un luogo lontano, forse vicino, viveva il cavaliere Gip.
“Voglio la chiave della felicità!” diceva errando in cerca della gioia e della serenità.
Camminò a lungo, tanto o poco non si sa, ma con impegno e arrivò a un castello fatato. C’era fuori una chiave di rubini.
“Come scintilla questa chiave!” disse Gip. Prese la chiave, la inserì nella serratura del gran portone e… meraviglia! Il castello divenne tutto di rubini. Doveva essere proprio un bel luogo. Nobili pietre rosso scuro, brillavano al sole. Era un gioco di sfumature che creava un’atmosfera bellissima, ma Gip non era affatto più contento. Uscì dal bel castello e riprese il cammino.
Trovò una chiave di platino.
“Che chiave preziosa!” disse esterrefatto dalla grande chiave di prezioso platino. Aprì il portone e tutto il maniero divenne fatto di gioielli e platino. Era bianco e grigio con varie gradazioni gialle. Tinte leggere illuminavano le bifore dell’importante palazzo.
“Finalmente sarò felice!” pensò il cavaliere. Alzò la celata della sua armatura e si tolse l’elmo per respirare l’aria del castello di platino, ma neppure allora fu contento.
Uscì e cominciò un’altra ricerca.
“Prendi questa chiave!” gli disse uno spirito tentatore. Era una chiave d’oro. Gip girò la chiave nella grande porta che gli era davanti e un castello tutto dorato sorse innanzi a lui.
“Sarò ricchissimo!” esultava il cavaliere. Trovò nel castello una grande cassaforte piena di dobloni, ma subito capì che anche quel luogo, con solo ricchezze ma punti sentimenti, era triste e scuro.
Quando uscì era buio, tuttavia nel firmamento brillavano tante stelle. Una stella cadde. Gip si ricordò che poteva esprimere un desiderio.
“Fa oh stellina che io trovi la chiave della felicità!” disse.
Una chiave candida gli comparì davanti.
“Sono la chiave dell’amore: è servendo il prossimo che si è felici per sempre!” disse la chiave.
L’amore per l’altro è la chiave che ci porta alla gioia, così Gip cominciò a invitare alla sua mensa poveri e bisognosi. Inseriva la chiave del cuore nella porta della sua casa e questa diventava luogo gioioso e felice. Esseri magici apparecchiavano e portavano vassoi d’argento, pieni di leccornie per sfamare gli affamati, intanto Gip gioiva e guardava la sua chiave, quella per aprire i cuori attraverso l’amore. Era proprio vero, per sentirsi felici occorre donare i propri sentimenti agli altri… e fu gaio per sempre.

13
A colorare la vita, nella valle della fontana magica, c’erano emozioni d’amore e sentimenti. Ognuno, uccelli, scoiattoli e perfino gli insetti, si commuoveva per un fiore che sbocciava o per un uovo che si schiudeva. Vicino all’erba erano appena nati dei fiorellini gialli, che parevano tante monetine. Tra i fiorellini volò la fatina Topence. A dozzine i fiorellini si schiudevano. Cantò l’usignolo. Danzò l’ape. Solo il bassotto era triste. Lui non capiva che nella vita bisogna sempre trovare l’energia e credere in sé stessi e nel futuro.

Il cagnolino teneva il naso al vento per cogliere il profumo dei fiorellini, ma lo faceva con poca convinzione:
“Respira credendo nella vita! Percepirai profumi magici!” gli disse la fatina. Intervenne allora Sudri che invitò il bassotto ad ascoltare la favola della fonte fatata.
Il bassotto, dal pelo fulvo e raso, corse colle sue gambine sotto alla sorgente e il cantafiabe magico iniziò:

GIOK CHE CREDEVA NELLA VITA
Secoli e secoli addietro c’era un re che viveva triste e angosciato. Sua figlia, la principessa, era stata fatta prigioniera dal malefico stregone.
La teneva rinchiusa in una torre e un drago potente era a custodire la cella segreta.
Tutti avevano paura del drago. Nessuno aveva il coraggio di raccogliere le proprie forze e tentare di liberare la principessa.
“Abbiamo paura!” diceva ognuno.
Si tirava indietro il contadino, rinunciava il fabbro e perfino i baldi e giovani cavalieri, paludati dietro le loro armature, si rifiutavano di provare a salvare la figlia del re.
Sua maestà era sempre più triste.
Un giorno, allo spuntar del sole, il piccolo Giok si destò vivificato da uno spirito magico. Lui era piccolo e nessuno credeva in lui. Da dietro la collina si alzarono in volo mille e più fatine che lo incitavano:
“Piccolo Giok, credi in te stesso!”
Giok cominciava a convincersi di poter combattere contro il drago.
Una delle fatine lo toccò con la bacchetta per renderlo inattaccabile dalle fiamme del drago. Un’altra fatina gli mise due ali per farlo volare. Una terza fata lo munì di fiori coi quali avrebbe tappato la bocca al custode della prigione.
“Vincerò!” diceva il piccolo Giok e partì alla volta della torre segreta, ove era prigioniera la principessa.
Il drago lo udì subito avvicinarsi. In breve cominciò il combattimento. Tutti erano rifugiati lontani per la paura, ma guardavano. La tartaruga si era rinchiusa nel suo guscio. I ranocchi erano nascosti tra le canne. I contadini stavano in casa, a spiare dalle finestre e i cavalieri guardavano, celati sotto all’elmo. Ognuno temeva, ma la fiducia di Giok era tanta. Lo scontro cominciò. Il drago enorme faceva uscire a ogni alito tremende fiamme, che però nulla potevano sul piccolo Giok. Giok volò in alto colle alucce magiche e cominciò a lanciare fiori nella bocca fiammeggiante del drago. Il fuoco si spense e la principessa venne liberata. Lo stregone cattivo scappò lontanissimo.
Aver avuto fiducia era stata la miglior cosa. La viltà e la paura avevano avuto la peggio e il drago era stato vinto. Fu gran festa a corte. Ospite d’onore fu Giok, l’unico che era riuscito a vedere nelle proprie gesta un futuro positivo… bisogna sempre sperare nella vita. A palazzo si imbandirono tavole e si bevve prezioso nettare di frutta, anch’io partecipai e mi lecco ancora i baffi.

14
Durante i bei giorni di maggio, nella valle di Nordri e Sudri era gran festa. Volavano fatine colorate tra i fiori, cantavano gli gnomi, suonavano i loro pifferi i folletti. Il cervo dalle corna d’oro e l’unicorno recitavano poesie, i cuccioli ascoltavano e gli elfi danzavano. Venivano serviti dolci d’ogni tipo, mentre le api portavano grandi giare contenenti dolcissimo miele. A cucchiate, ognuno assaporava quel portentoso elisir . La cosa più bella era vedere la cerva col cerbiatto, la marmotta coi suoi piccoli, la giumenta col puledro e la gatta coi micini. Insomma il legame tra mamma e figli era davvero la cosa più affascinante e magica.

Proprio per ascoltare una bella fiaba, raccontata dalla fonte magica, Sudri portò un lungo vassoio di biscottini presso la sorgente.
Cuccioli e genitrici si accomodarono presso la fontana sgranocchiando i dolci biscotti.
Il cerbiatto teneva la testolina sul costato della mamma distesa sull’erba. I micini poppavano latte dalla gatta e il puledrino si divertiva a dare musate, giocando con la cavalla.
Il cantastorie fatato cominciò a narrare:

LA MAGIA DELLE MAMME
In un regno lontano nel tempo e nello spazio, nacque a corte, tanto atteso dal re e dalla regina, un bel principino.
Era un neonato bellissimo, coi boccoli simili a oro e gli occhi come turchesi.
“Che bello!” esultava la mamma.
Vennero alla culla reale fate e maghi.
Chi portava la sapienza, chi doni in oro, collanine d’argento o diademi che cinsero la testolina del piccolo.
La cosa più importante però era l’amore della regina per suo figlio.
“Sarà l’amore della mamma la cosa più notevole della vita di questo piccolo!” sentenziò benedicendolo il mago dei maghi.
Il principino crebbe bello e robusto, giocando nei giardini reali pieni di fiori e di animali, con i quali egli si trastullava felice. La strega Bisia però era invidiosa e gelosa di tutto quell’amore che c’era tra mamma e figlio. Un brutto giorno, con un incantesimo malvagio e cattivo, il sire venne spodestato e cacciato dal regno. La mamma venne mandata agli antipodi e il principino disperso.
“Solo se la mamma ritroverà il principino, il maleficio sarà vinto!” aveva sentenziato la strega Bisia.
Per la regina pareva impossibile ritrovare il figlio.
Il principe infatti non aveva più né i diademi che gli erano stati regalati, né gli ori o le collanine d’argento.
“Come riconoscerlo?” si chiedeva la mamma.
Il principe fu portato dalla sorte a vivere come asinaio presso una remota fattoria.
La regina vagava alla sua ricerca.
Un giorno di primavera, la bella regina si trovò proprio a incrociare l’armento di somarelli, condotto dal principe. Il giovane era irriconoscibile, vestito di cenci e senza più nessun segno reale, coi capelli incolti e le scarpe grosse. La regina però, col suo amore di mamma lo riconobbe subito dallo sguardo. La mamma è quell’essere che in qualsiasi momento riesce a capire di essere davanti a suo figlio, in ogni situazione o circostanza. Anche il principe riconobbe la regina:
“Mamma, Mammina!” cominciò a urlare correndole incontro.
“Figlio mio!” piangeva di gioia la regina.
I cenci sparirono e un bel manto rosso scarlatto comparì come veste regale. Di colpo il principe, il re e la regina si ritrovarono a palazzo. La strega era vinta. L’amore di mamma aveva trionfato. Bisia scappò per sempre. Nel regno tornò la pace e si governò con amore e rispetto verso il popolo per lunghi anni.

15
La valle di Nordri e Sudri, ammantata da una nebbia magica per celarsi agli occhi dei malvagi e dei cattivi, era difficile da scovare. Oltre le piante di biancospino, simbolo di spazio buono e incantato, si potevano scorgere, se si aveva la disposizione d’animo adatta, gli esseri fatati lavorare all’orto delle stelle. Lì nascevano ortaggi capaci di infondere amore e benevolenza negli spiriti. Gli elfi-contadini usavano forconi e zappe. Le fatine spargevano il loro fertilizzante magico e i folletti aravano il terreno. Tutti gli animali buoni potevano mangiare. Le lepri assaporavano le incantate carote, gli usignoli beccavano il mais, le sapienti tartarughe si cibavano di lattuga.

“Andiamo tutti alla fonte magica!” disse Tobia la tartaruga.
Adesso che avevano la pancia piena, ragionavano meglio e volevano ascoltare una fiaba dal cantastorie della sorgente fatata.
L’argomento del giorno parlava proprio di cibo magico, ecco cosa raccontò il cantafiabe:

LA GUARIGIONE DEI CUORI
C’era una volta un paese nel quale tutti credevano di essere malati.
“Cerchiamo il cibo magico che ci sanerà!” disse lo stregone, che era ascoltato da tutti e considerato un gran sapiente.
Si provò a mangiare il cibo che faceva scaturire acqua nel deserto, faceva udire ai sordi e parlare i muti.
La gente mangiò di questo alimento, ma anche se guariva dalle malattie, dentro si sentiva sempre malata.
“Adesso stiamo bene fuori, tuttavia sentiamo grande tristezza all’interno!” disse l’ape regina che era la più importante tra tutti gli abitanti, in quanto nel suo alveare si produceva il dolcissimo miele che rendeva le giornate meno amare.
Non si sapeva proprio come fare a guarire, tutti, pur stando fisicamente a posto, continuavano a sentirsi malati.
Non c’erano più paralitici né lebbrosi. I corpi e le membra parevano sani, eppure ci si continuava a lamentare:
“Non stiamo affatto bene!” dicevano le genti.
Un bel giorno di primavera, dal melo fatato cominciarono a nascere mele dorate.
Erano quelle mele che anziché i corpi guarivano i cuori.
Chi le mangiava sentiva tanto amore dentro. Imparava ad aprire le braccia allo straniero e a essere amico di tutti.
Provarono a mangiare i pomi dorati: il lupo che divenne come un agnello, i ladri che divennero onesti, i malvagi che diventarono buoni.
“Adesso ci sentiamo bene!” esultarono tutti coloro che avevano partecipato al banchetto magico.
Ora avevano guarito i cuori, che sono più importanti del fisico.
Fu gioia per sempre nel paese.
Bastava mettere in bocca uno spicchio della mela di bene e affetto e tutti sentivano sciogliersi sulla lingua il dolce sapore della fratellanza.
Sono le nostre anime che prima di tutto vanno sanate.
Davanti al melo fu gran festa. Si cantò e si fecero danze, tutti accomunati da un spirito di solidarietà. E’ bello che i fisici guariscano, che gli zoppi camminino bene, che l’orecchio dei sordi si apra, ma quest’orecchio deve imparare ad ascoltare le parole di pace e non i gridi di guerra.
Nel paese malato, con la felicità dei cuori non ci furono più malattie.

16
Nella valle incantata pareva quella mattina non ci fosse nessuno, non si sentivano rumori, non si vedeva muoversi alcun animale. Qualsiasi essere umano avrebbe detto di essere solo. Per i nanetti non era così. Dotati di fiuto eccezionale e particolare spirito di attenzione, si erano accorti delle orme del cervo, del muschio calpestato dalla lepre e della terra smossa dalle formiche. Chiamarono signorina Lepre, il bel cervo e le centinaia di formiche operaie.

“Venite alla fonte!” invitava Nordri, amico di tutti gli animali. Il cervo mise la testa fuori dal cespuglio e si presentò per andare alla sorgente magica. Arrivò anche la simpatica signorina lepre e via via giunsero altresì tutte le formiche.
I nanetti dirigevano quel momento di unione e cantavano ritornelli magici. Le formiche cominciarono a danzare, il cerbiatto e la lepre si unirono alla festa. Ci si divertì a lungo.
“Voi formiche siete molto simpatiche!” disse la lepre.
“E’ vero!” aggiunse il cervo.
“Andiamo ad ascoltare una fiaba alla sorgente magica che parli di formiche!” propose Sudri.
La combriccola si avvicinò allegramente alla sorgente e il cantafiabe cominciò:

IL PRINCIPE COLORINO
Nel regno dell’arcobaleno viveva il simpatico principe Colorino. Era un ragazzo tanto buono e allegro. Aveva il potere di tingere di gioia e felicità tutti i luoghi tristi e bui del mondo. Se vedeva una via nera nella sua città, subito lanciava la sua palla magica e la strada diventava simile a un’iride; la gente mesta cominciava a sorridere.
Un brutto giorno la regina, sua amatissima e buonissima mamma, passò al mondo dei più, volando in cielo. In poco tempo il padre del principe si risposò. La nuova regina, matrigna del principe Colorino, lo odiava con tutta sé stessa.
“Ti sconfiggerò!” diceva per l’invidia di vederlo tanto amato dal popolo.
Chiamò la strega Carmelia. Le fece preparare un irritante unguento d’ortica malefica. L’ortica, se ben usata può fornire tisane e decotti contro anemia e reumatismi, può essere un tonico balsamo, ma se unita alla malvagità è assai pericolosa. La strega Carmelia riuscì a spalmare l’unguento cattivo sul volto del principe Colorino. I suoi capelli dorati divennero sporchi; le sue gote rosee, si fecero scure e maleodoranti; il suo abito variopinto, nero come la morte. Di colpo il principe si ritrovò ai confini del mondo, esule, per maleficio, dalla sua terra. Il popolo piangeva per la scomparsa del principe, mentre la matrigna rideva soddisfatta. Ora accadde al principe, ritrovandosi solo ai margini del creato, di trovare gli unici esseri sempre attivi e alacri in ogni posizione sul pianeta: le formiche. Le formiche operaie lavoravano con tanto impegno da mane a sera. Il principe Colorino rimase ammirato da questo popolo tanto operoso e volle fare amicizia con le formiche. Imparò a essere industrioso e attivo con il loro esempio, le aiutò a edificare nuove stanze per il formicaio, le sorresse nel trasportare nel magazzino della loro grande casa, cibarie e semini. Fu una bella amicizia ma il principe Colorino era triste.
Alle formiche non piaceva vedere triste il loro nuovo amico.
“Ti aiuteremo noi!”
Prepararono il contro veleno per il maleficio che aveva fatto la strega Carmelia. Misero a bollire un po’ di corteccia della betulla magica e fecero bere un decotto al principe. Di colpo i suoi abiti ripresero colore. Un bel manto di broccato rosso gli coprì le spalle. Si tinse d’oro il suo giubbotto, gli si colorarono gaiamente gli stivali e i suoi capelli ritornarono belli e puliti; anche il viso riprese a essere roseo. Si sentì trasportare da una forza magica e si ritrovò nel suo castello.
L’incantesimo delle alacri formiche aveva funzionato.
Nel vederlo parlare al popolo dal balcone reale, la matrigna scappò per sempre indispettita.
“Tutto tornerà colorato!” diceva il principino ai sudditi. Il regno fu di nuovo allegro e gioioso, la voglia di un mondo multicolore imperò su tutto.
La palla magica del principe Colorino rotolava per le vie e tutti si abbracciavano vivendo nella gioia.

17
La bella stagione ormai era arrivata. Nordri e Sudri decisero di attendere lo spuntare della luna, che quella notte sarebbe stata piena e bella come una luminosa moneta d’argento.

Insieme ai due nanetti c’erano centinaia di lucciole. Le lucciole stavano sui cappellini di Nordri e Sudri e illuminavano loro il volto come per magia. Si erano ormai svegliati gli animali notturni. Cantava l’allocco e facevano il loro cri cri i grilli. Dal tronco cavo della quercia si destò il gufo. Era un gufo poco umile e che si riteneva tanto dotto. Studiare è molto importante, ma servono anche altre cose nella vita. Ad esempio ha gran valore stare con gli altri e imparare attraverso l’amicizia, cose che con la sola teoria non si possono capire. Il gufo invece diceva altezzoso:
“Io non ho bisogno degli amici, mi bastano i miei calcoli e le mie equazioni!” s’interessava soltanto di aritmetica e difficili conti.
“Dovresti aprire invece le tue braccia ai compagni!” gli disse Sudri, stringendosi la cintura per rassettarsi la blusa che ballando di gioia insieme alle lucciole, gli si era spostata.
“Io voglio solo la tecnologia e i numeri!!” urlò il gufo, mentre i buffi ciuffi di piume, sopra le orecchie, gli tremavano da quanto s’infervorava.
I due nanetti lo portarono alla fontana magica e lo invitarono ad ascoltare il cantafiabe incantato che narrò:

LA STRADA PER ANDARE A SCUOLA
Rof andava a scuola tutti i giorni e studiava con profitto. Era bello applicarsi sui libri, ma egli odiava i compagni, le amicizie, i contatti con gli altri e non dava spazio ai normali bisogni dell’essere che cresce e ha necessità di umanità e amore:
“Io voglio solo parentesi graffe ed equazioni!” diceva, occupandosi di algebra e a volte di trigonometria.
Non si rendeva conto che nella vita di tutti i giorni, seppur gli studi siano importantissimi, prima di tutto bisogna imparare quali sono i valori veri dell’esistenza, come la fratellanza e l’unione.
Cacciava tutti:
“Andate via, voglio studiare!” diceva ai compagni.
A forza di stare alla scrivania a studiare stava disimparando a camminare. Trascorse mesi e mesi chino sulle pagine delle enciclopedia di matematica. Le gambe piano piano gli divennero rigide e dure. Non sapeva più procedere a piedi da solo e cominciò a uscire con le stampelle.
Alla fine si ridusse a non poter più sortire di casa, non riusciva a muovere un passo. Una delle cose più semplici per un ragazzo della sua età era quella di camminare e correre, a lui invece non riusciva questa facile cosa.
Era sicuro delle sue conoscenze algebriche, ma non gli servirono a nulla.
“Come posso fare?” diceva disperato. Guardava i suoi amici dalla finestra mentre andavano a scuola.
Volavano i passerotti, correvano le lepri verso il bosco, solo lui, con tutti i suoi calcoli rimaneva escluso da quel mondo.
Un passero si avvicinò al davanzale della sua finestra. Era una passerotta femmina, con un bel petto dal piumaggio chiaro e le ali e la coda più scure.
“Non servono solo i libri, si può imparare anche da un passerotto che costruisce il nido o ciba i suoi piccoli! Forse non è a scuola che impariamo cosa è la vita, ma lungo la strada che facciamo per andarci !”
Rof aveva capito, fece esercizi ginnici, riprese piano piano a camminare. Non passava più ore e ore da solo a studiare, ma stava molto tempo a giocare con gli amici. La cosa più importante era davvero la strada per andare a scuola.

18
I nanetti magici sono esseri molto industriosi e gran lavoratori , ma non operano da soli, una grande mano gliela danno gli animali del bosco. Presso la casetta di Nordri e Sudri stavano due faggi. Alla radice del primo faggio, esposto a sud, cominciava una galleria, costruita dall’amica talpa. Le talpe sono molto carine con i nanetti. La galleria attraversava tutto il sottosuolo fino a nord, per raggiungere poi il secondo faggio. Sotto a quest’ultima pianta vi era un magazzino le cui pareti erano isolate da pelo di daino, che mantiene buona la temperatura nei mesi freddi. In questo magazzino i nanetti conservavano semi di fagioli, soia, granaglie in quantità e cibarie varie, fresche e stagionate. Ogni qual volta arrivava un animale affamato, Nordri e Sudri lo portavano al magazzino e lo sfamavano.

In quel periodo Tobia la tartaruga si era da poco risvegliata dal sonno invernale. Doveva riprendere vigore e aveva bisogno di una gran quantità di cibarie. Era appena nata la lattughina nell’orto incantato di Nordri e Sudri e loro l’avevano riposta nel deposito. Portarono Tobia a rifocillarsi:
“Mangia pure a sazietà e con soddisfazione!” diceva Nordri, toccandosi soddisfatto la folta e lunga barba bianca, contento di poter essere d’aiuto a Tobia.
La tartaruga però era triste:
“Tutti vanno di corsa! Tutti sono più veloci di me!” era il suo cruccio.
Sudri allora, mentre preparava altri cespi d’insalata le disse:
“Sei tu che vai imitata con la tua calma, quello attuale è un mondo troppo frenetico che ha perso il senso delle cose!”
Intervenne l’altro nanetto per commentare:
“Andiamo a bere alla fontana magica e a ascoltiamo la storia che ci narrerà la sorgente incantata!”
Dopo che la tartaruga si fu rifocillata e i nanetti ebbero mangiato un formaggino, i tre andarono a bere e la sorgente narrò:

LA FRENESIA
Alla scuola del paese di Frettilandia tutti andavano di corsa . Era una gran frenesia per ognuno. Ci si alzava correndo, si faceva colazione in frettissimamente e si andava, spostandosi velocemente su mezzi iper-moderni, a lavoro. I bambini nelle scuole dovevano imparare sette lingue:
“Dobbiamo andare a scuola di calcio, alle lezioni di break dance, dobbiamo imparare il judo e il pianoforte!” dicevano compiangendosi i fanciulli, che invece avrebbero voluto un po’ di pace per elaborare tutte le esperienze fatte, poter ridere e giocare.
Invece non c’era tempo per i sentimenti e le acquisizioni, bisogna andare dietro ai ritmi della società moderna.
Tutto era convulso e agitato.
Non ci si sedeva più a tavola per mangiare, non si terminava la giornata davanti al camino, come una volta, ad ascoltare il nonno narrare una favola.
I bambini non ne potevano più.
Cat, uno dei bambini più sottoposti ai ritmi frenetici della vita, un pomeriggio si recò alla spiaggia. Guardava l’orizzonte infinito verso il mare. L’oceano pareva arrabbiato di tutta quella frenesia degli uomini. Tra le onde emerse una sirena. Era una fata splendida che suonava un’arpa colorata e sorrideva.
Vide Cat assai pensieroso.
“Dimmi cosa vuoi!” disse la fata sirena.
“Vorrei che noi bambini la smettessimo di correre verso mète senza senso!”
La sirena fece emergere decine di cavallucci marini.
Intanto suonava la sua arpa. Alla melodia dello strumento magico, tutti i bambini del paese accorsero alla spiaggia. Non correvano più, non erano frenetici. Si fermarono mettendo fine a quella corsa insensata che era la loro vita e montarono in groppa ai cavallucci marini. Cominciarono tutti a giocare. Erano anni che nessuno aveva più il tempo per giocare. I fanciulli ricominciarono da quel giorno incantato a vivere, a trastullarsi, a ridere. Con calma e gioia avevano re-imparato a gustare la vita e a crescere. La frenesia è una gran brutta cosa.

19
Molto amici dei nanetti magici sono gli gnomi. Nel corso dei secoli gli gnomi hanno insegnato tante cose ai nanetti; tra queste c’è la lavorazione del vetro. Nordri e Sudri, nella caverna sotto la montagna, soffiavano di tanto in tanto splendidi oggetti di vetro, utili a loro e agli animali del bosco .

Il loro non era vetro normale, ma di qualità pregiatissima e arricchito con topazi, agate e ametisti.
Quella mattina Nordri stava facendo un vaso lungo lungo, per far bere la cicogna. Si trattava di un bel recipiente tinto di rosso, infatti il nanetto aveva aggiunto il selenio, che dà questa colorazione.
“Comare la cicogna sarà contenta!” diceva soffiando nel tubo che gli serviva per la sua creazione.
A vederlo operare c’era mister il Riccio.
Il riccio aveva un brutto vizio, quando si arrabbiava usava i suoi aculei. Sudri stava su un panchetto di legno a passare gli arnesi al compagno, decise di rivolgersi al riccio per educarlo a usare l’amicizia e la fratellanza al posto delle spine.
Lo portò alla fonte magica per ascoltare una fiaba del cantastorie incantato.
La fonte narrò:

COME OTTENERE L’ACQUA DELLA SALUTE
L’anziano Bump se ne stava alla finestra del suo grande castello. Guardava fuori i tanti ettari di terra in suo possesso. I contadini lavoravano e producevano in quantità, lo crucciava però il pensiero di quella malattia che lo stava vincendo:
“Avrei bisogno dell’acqua magica della salute!” pensò e chiamò i suoi tre figli.
“Chi di voi mi porterà l’acqua della salute, riceverà in eredità i miei averi!” disse.
I suoi tre figli si chiamavano: Forza , Orso e Giusto.
Forza partì verso il luogo incantato dove la fata Gila custodiva l’acqua della salute. Forza era tipo burbero e robusto.
“Conquisterò l’acqua coi miei pugni!” voleva picchiare la fata.
Arrivò nel giardino magico della fata Gila, dove narcisi stupendi si specchiavano nell’acqua del laghetto pieno di liquido della salute e voleva dare cazzotti.
La fata ordinò alle sue colombe di far sparire da quel luogo Forza, che si ritrovò nel castello paterno triste e sconsolato.
Partì alla volta della ricerca dell’acqua il figlio Orso. Si munì di spada e lancia. Si parò con uno scudo e irruppe nel giardino fatato volendo fare la guerra.
“Farò una strage!” diceva Orso.
Il cielo fu fatto abbrunire dalla fata:
“Che un fulmine ti cacci!” disse la fata Gila. Dal cielo si scatenarono saette velocissime che fecero scappare Orso. Il ricco padre Bump era davvero preoccupato. Adesso tutte le sue speranze erano nel terzo figlio: Giusto.
Giusto partì con spirito pacifico per recarsi nel giardino magico.
“Voglio aiutarti a lavorare!” disse Giusto.
Anziché voler combattere aveva deciso di prestare la propria opera. Aiutò per mesi e mesi la fata a curare con amore le rose e i fiordalisi. Aveva davvero il pollice verde e nacquero tanti bei fiori incantati: campanule che suonavano a mezzodì e gigantesche orchidee.
Alla fine del suo periodo di lavoro la fata decise di premiarlo:
“Bravo, il tuo amore va ricompensato, chiedimi ciò che vuoi!”
Giusto rispose umilmente:
“Desidero un fiasco di acqua della salute!” e la fata glielo donò abbracciandolo.
Giusto partì per il ritorno a casa. Fece bere l’acqua al padre che guarì e ricevette in eredità tutti i beni di famiglia che però decise, da buon fratello, di dividere con Orso e Forza che capirono quanto sia meglio usare come armi l’amore e la bontà.

20
La colazione, per i due nanetti era sempre un allegro momento. Nordri si alzava e apriva sbadigliando la finestrina di legno. Subito godeva del bel sole che già era sorto da dietro ai monti.

“Buongiorno Sudri!” non dimenticavano mai di augurarsi una felice e intensa giornata. Dopo essersi lavati nel loro bagno magico, dove i lavabi erano tempestati di diamanti e l’acqua proveniva direttamente dalla fonte fatata, cominciavano a preparare il primo pasto del dì.
Ogni volta invitavano al loro desco gli amici animali del bosco: il cervo, la lontra, lo scoiattolo, la marmotta, le oche selvatiche e tutti gli altri, ruotando a turno gli inviti.
Di solito preparavano tè che poteva essere alla menta, al tiglio, alla rosa o al gelsomino. Aggiungevano sempre un po’ di limone e molto miele per zuccherare. Ogni invitato aveva così la propria ciotola fumante e parecchio dolce. Il tavolo veniva apparecchiato con allegre tovaglie colorate. Gli amici uccellini portavano ogni mattina le loro uova non fecondate per arricchire la mensa e in ogni posto a tavola c’era un portauovo di legno direttamente intagliato da Nordri e Sudri . Per ognuno c’era una pappa di cereali frullati da accompagnare con tartine di burro e marmellata. La marmellata era sempre di more e lamponi, raccolti dai due nanetti e fatta in casa. Il pane di farina di ghiande aveva una ricchezza proteica fantastica e dava tanta energia per affrontare i lavori della mattina. Non mancava poi una bella crostata. Quella mattina era invitato a colazione Bracco, il cane da tartufi che gentilmente portava funghi di ogni tipo ai due nanetti. I nanetti magici sono rigidamente vegetariani, sostituiscono le proteine della carne con la nutriente veccia e mangiano legumi in quantità , che vanno serviti insieme a funghi di ogni tipo come contorno.
Fu una bella colazione. Si parlò di cibo. Era bello vedere Bracco occuparsi di servire gli amici con i suoi porcini, le sue russole dorate o le visciole.
“Andiamo ad ascoltare una favola sul tema del cibo!” propose Sudri.
Fuori era già un bel caldo, il cantafiabe incantato narrò:

IL PANE PER TUTTI
Nek era il cercatore reale.
“Va e trova il tesoro!” gli aveva detto sua maestà.
Da mesi e mesi Nek vagava alla ricerca di forzieri pieni di rubini e diamanti, ma non trovava nulla. Ormai aveva le suole dei suoi stivali consumate. Era davvero stanco, tuttavia non desisteva. Era davvero dura. Nek fu costretto a invocare l’aiuto delle forze magiche.
Da dietro alla montagna apparvero gli elfi dell’amore.
“Ti aiuteremo noi!” dissero gli elfi.
“Vorrei trovare il più grande tesoro che ci sia!” disse Nek.
Gli elfi, tanto coraggiosi e benevoli si prepararono per la ricerca. Era bello vedere quella schiera di esseri magici. Col volto soave, i loro movimenti armoniosi, le orecchie a punta per sentire ogni rumore e le parole intelligenti che gli uscivano dalla bocca, gli elfi erano davvero esseri straordinari. C’erano gli elfi dell’aria, della terra e del fuoco, tutti potenti ma intenzionati ad aiutare solo i puri d’animo.
Nek era un puro d’animo.
Lo portarono in cima alla bocca di un vulcano. Gli elfi non si scottano nel fuoco. Si calarono nel cratere mentre la lava ribolliva in un gioco di braci rosso intenso. Nek aveva un caldo tremendo. Gli elfi risalirono con uno scrigno.
“Porta nel tuo regno questo scrigno e aprilo quando sarai giunto a corte!”
Nek ringraziò gli esseri magici e tornò per la lunga strada che lo avrebbe riportato a casa. Durante il tragitto immaginava la preziosità custodita dallo scrigno.
“Si tratta di un tesoro unico!” pensava “Il mio sire sarà contento!”
Giunse finalmente a corte.
S’inchinò davanti al trono e poi disse:
“Gli elfi mi hanno aiutato a trovare questo scrigno che contiene il tesoro più importante della Terra!” disse Nek.
Anche il re era curioso ed eccitato e aprì lo scrigno con le sue stesse mani.
Non c’erano diamanti o smeraldi ma qualcosa di più importante: il pane che sfamava per sempre il popolo, più si prendeva pane e più pane usciva dallo scrigno.
“Il mio popolo non avrà più fame né ci saranno pericoli di carestie!” esultava il re.
Non si erano arricchite le casse del re, ma si era risolto il problema delle carestie e della fame. Il re fece portare in trionfo, lungo le strade della capitale, Nek che grazie al suo cuore buono era stato aiutato dagli elfi.

21
Quel giorno pioveva. I nanetti magici gradiscono qualsiasi tempo. Giocano quando c’è il sole, ma ringraziano il cielo anche per la pioggia vivificante, senza la quale tutto sarebbe arido e le piante non potrebbero nutrirsi. Nei dì di brutto tempo Nordri e Sudri stavano nella loro casetta, che naturalmente era magica e se da fuori pareva piccolina, era grande come il loro cuore. Mentre Sudri si dedicava a certi lavoretti di carpenteria e costruiva nidi per gli scoiattoli, che poi avrebbe disposto nel bosco, Nordri si applicava per scrivere il suo resoconto alla musa delle parole dolci e dell’amore, la splendida Freja, della quale custodivano la collana incantata. Infatti Freja voleva che il suo popolo la informasse su tutto e Nordri doveva redigere pagine sull’andamento della valle magica. Era un lavoro duro, ma andava fatto. Nordri si sedeva alla scrivania di bel legno e prendeva inchiostro e calamaio, poi cominciava a scrivere . Dava spiegazione delle loro buone azioni, parlava dello stato delle piante e degli animali che ascoltavano le favole.

I nanetti magici sono esseri tanto teneri e buoni, loro sono amorevoli con tutti, incapaci di qualsiasi atto malvagio, pertanto venivano fuori pagine assai ricche di sentimento.
Mentre scriveva, Nordri parlava di tanto in tanto con l’albero che vedeva fuori dalla finestra, è infatti importante parlare con dolcezza alle piante, anche loro sono esseri viventi e crescono meglio. L’albero che era fuori a un certo punto chiese al nanetto:
“Ma come mai tu fai di tutto affinché io sia un buon albero?”
Nordri gli disse:
“Ascolta la fiaba del cantastorie della sorgente e capirai!”

I BUONI FRUTTI
C’era una volta un pesco che non voleva comportarsi bene. Al posto delle belle foglie verdi a forma di lancia aveva tirato fuori cattive spine. Non faceva nascere bei fiori rosa, ma orrendi petali neri.
“Sono tanto malvagio!” diceva l’albero e non voleva produrre.
Dai suoi rami nascevano frutti velenosi.
Attorno a lui c’erano tutti gli altri peschi del frutteto, tutti bravi ragazzi che compivano il loro dovere.
Essi avevano portamento fiero e avevano fiorito con stupendi colori in primavera, mentre adesso si apprestavano a far maturare succosi frutti con polpa dolce e piena di energia.
Passarono dei fanciulli dal frutteto.
Il contadino li invitò ad assaggiare alcune delle pesche già buone da mangiare.
“Sono ottime!” dicevano i bimbi.
Gli alberi erano orgogliosi di aver soddisfatto i piccoli.
Solo il pesco dai fiori neri era arrabbiato.
“Come mai quel brutto albero non dà che frutti velenosi e ha corolle nere come la pece?” chiese uno dei bimbi al contadino.
“Un albero buono dà frutti buoni, mentre un albero cattivo dà frutti cattivi!” rispose il colono, ecco perché bisogna sempre cercare di essere buoni.
Il pesco malvagio comprese la lezione. Si ravvide. Cambiò e cominciò a dar vita a belle foglie lanceolati, verdissime e coronate da un bel margine seghettato. In men che non si dica si adornò di meravigliosi fiori colorati e poi nacquero frutti dal potere magico che facevano comprendere a chiunque li mangiava, quanto se si vive nella bontà e nell’amore si ottengono buoni risultati.

22
Come ogni mercoledì, Nordri era partito per l’interno della selva magica, munito della sua cassetta di medicinali, per curare gli animali infortunati . Aveva piante medicamentose, fiori dalle proprietà curative, balsami e oli vegetali.

Sua grande amica era la lontra, sempre pronta a traghettarlo, caricandolo in groppa, da una sponda all’altra del fiume della valle incantata. Quella mattina la buona lontra era infortunata:
“Mi sono ferita nei rovi!” disse a Nordri mostrando la zampina corta e palmata, adatta al nuoto, tutta sanguinante.
“Non ti preoccupare!” rispose dolcemente il servizievole nanetto e aprì la sua valigetta di legno piena di rimedi.
Prese un giglio giallo e strofinò le ferite dell’animale. La lontra mosse contenta i suoi sensibilissimi baffi e respirò profondamente:
“Non sento più male!” disse soddisfatta. Il sangue si era fermato. Nordri fasciò bene la zampina e poi cominciò a discorrere con la lontra. La conversazione cadde sugli uomini.
“Vorrei avere la capacità di conoscere scienze e tecnologie come gli esseri umani!” disse la lontra.
“Non credere!” disse il nanetto e le propose di andare con lui presso la fonte del cantastorie fatato che narrò:

L’INTELLIGENZA DEGLI ANIMALI
Una volta, ai tempi dei tempi, un mago era riuscito a intendere il linguaggio degli animali. Riusciva a parlare con scoiattoli e cavalli, buoi e uccelli, con insetti e cani: insomma con tutti gli animali.
Parlava di tante cose, di amore, bontà, rispetto per la natura. Un giorno gli venne in mente d’insegnare un po’ di scienze al bove:
“Ti parlerò di chimica degli elementi, di misurazione di temperatura e calore, di classificazione del regno vegetale!”
Il bovino lo guardava coi suoi occhioni grandi, non era troppo curioso di conoscere termometri e strumenti vari. Mentre il mago parlava e spiegava, il bue continuava il suo lavoro tirando l’aratro, da pio lavoratore. Non c’era proprio verso di insegnargli le scienze, era troppo intento a svolgere il suo compito.
“Passerò al cavallo!” disse il mago.
“Ti insegnerò la matematica!” parlò al destriero del castello.
Gli spiegò di espressioni, algebra e monomi.
Il bell’equino si muoveva con tutta la sua leggiadria ed eleganza, portando il cavaliere di corte. Generosamente offriva tutto sé stesso per dar soddisfazione al padrone, non poteva comprendere di algebra né di trigonometria.
Il mago si rivolse allora al cane. Il bel pastore tedesco era a guardia del gregge. Lo scioglievano la mattina presto, per portare il lanoso armento a pascolare. Lui faceva la ronda intorno alle pecore, proteggendole dalla volpe e dal lupo:
“Voglio insegnarti la fisica dei quanti e le teorie di Einstein!” disse il mago.
La fedeltà del cane era tale che egli non poteva distrarsi dal suo compito.
Il mago si ritrovò sotto alla quercia da solo. Non sapeva proprio come insegnare le scienze, l’aritmetica e la fisica agli animali.
Uno gnomino sbucò da sotto un fungo, stava preparando con l’aiuto della talpa, la galleria che avrebbe dato accesso alla sua casetta sotterranea.
“Perché sei accigliato?” chiese lo gnomino al mago.
“Non mi riesce di acculturare gli animali!” e gli spiegò cosa aveva fatto.
“Vedi? Il bove non conosce le scienze ma sa cosa è la dedizione al lavoro; il cavallo non è addottorato in matematica ma dà sé stesso con tanta generosità; il cane è ignorante in fisica dei quanti ma è fedele con tutto il cuore!” gli fece notare lo gnomino.
“Ho capito, gli animali hanno conoscenze assai superiori a quelli di noi uomini, conoscono la bontà e il sentimento, tanto lontani dai saperi tecnologici dell’umanità!” sottolineò il mago, che da quel giorno non volle più insegnare agli animali ma anzi cercò di imparare quanto più possibile da loro.

23
Tra i bei fiori attorno alla fontana, volavano quel giorno le api operaie, coi loro secchi magici da riempire di ottimo polline per fare dolcissimo miele. Nella società delle api tutti lavorano indefessi per il bene della comunità. Quello della regina non è un potere, ma una gioia di governare con amore, il grande gruppo.

Con le antennine ripiegate sopra al capo, l’Operaia Maja bottinava con impegno le rose selvatiche e riempiva i suoi secchi.
“Che fatica!” diceva.
“Ma è bello lavorare per la famiglia delle api e per la nostra amata regina!”
Quando un re guida il popolo alla pace e all’armonia è sempre tanto amato. Ecco una favola che l’ape Maja e Nordri ascoltarono alla fonte magica, proprio sul buon governo:

IL BUON PRINCIPE
Il giovane principe Bel governava il suo popolo con tanto amore. La gente lo amava ed era contenta.
“Viva il nostro principe!” lo acclamavano.
La strega Abbassa era assai gelosa del principe, lo sottopose a un maleficio. Il principe si ritrovò dall’altra parte del mondo come servo.
“Povero il mio popolo!” pensava il principe Bel, ridotto a fare il servitore alla corte del sultano.
Bel lavorava con tanto impegno, nonostante il suo sangue blu, e svolgeva con tutto l’ardore il suo lavoro.
Suo primo compito, ogni mattina, era quello di servire la figlia del sultano. Le preparava il bagno profumato di oli aromatici, le rifaceva il letto, le pettinava i capelli e le lavava il viso di pelle pura come una rosa.
Alla fine il principe buono s’innamorò della figlia del sultano.
“Non posso darti mia figlia in sposa!” disse il sultano “Tu sei solo un servo, per mia figlia ci vuole un ragazzo di sangue reale!”
L’incantesimo della strega Abbassa era davvero potente. Il principe sognava di tornare con la sua sposa al suo regno e di riprendere in mano il paese con la sua bontà e il suo buon governo. Intanto i suoi sudditi pativano le pene dell’inferno, con un tiranno despota che aveva preso il trono.
Tutti i contadini dello stato del principe Bel, invocarono gli gnomi. Gli gnomi non sono come gli uomini, che lottano sempre per il potere. Gli gnomi vivono di concerto con la natura senza lotte tra loro. Il re degli gnomi serve solo per aiutare il popolo a vivere bene. Gli gnomini inviarono un tappeto volante dall’altra parte del mondo, dove era il principe Bel. Il tappeto magico era uno stupendo drappo arabescato, con disegni speciali che invitavano ad ammirarlo. Il tappeto si posò innanzi al trono del sultano:
“Salirò su questo tappeto incantato!” disse il sultano. Il tappeto lo portò a vedere il regno di Bel, dove tutti lo invocavano in attesa di un insperato ritorno. Il sultano capì che quello che lui credeva un servo era un importante ed eccellente principe.
“Avrai mia figlia in moglie!” gli annunciò il sultano al ritorno.
I due si sposarono in una gran festa. Il tappeto magico riportò al suo paese il principe con la stupenda principessa, spodestarono il tiranno cattivo e tornò il buon governo tra canti di gioia e tavole abbondantemente imbandite.
Fu un regno di pace e di amore, con la giustizia che aveva vinto sul male.

24
Vicino al bel frassino, coronato dalle sue stupende gemme chiare e rossicce stava il tasso. Piccolo ma tozzo, con la meravigliosa pelliccia grigiastra, il muso a strisce bianche e nere, col nasino rosa appuntito, era sconsolato.

“Sono buono e gentile, ma mi manca la forza per andare avanti!” disse a Nordri che era vicino al frassino per levare le piante nocive. Metteva nella bisaccia, attaccata alla cintola, la mano, e tirava fuori cesoie magiche e falcetti.
“Si deve avere fiducia e insistere!” disse il nanetto al tasso.
Il piccolo mustelide non era convinto, allora il nano magico lo portò alla fonte. Sudri era in casa a lucidare la collana di Freja, si aggiustò la barba bianca per presentarsi al tasso e poi lo salutò cordialmente accarezzandolo sul bel manto striato di cineree colorazioni.
“Ascoltiamo tutti insieme la favola del cantafiabe magico!” dissero all’unisono i nanetti. Dalla sorgente incantata si sentì narrare:

…E SPUNTO’ IL SOLE
C’era tanti e tanti anni fa un popolo tanto buono e generoso. Viveva colà ove i ghiacci erano perenni, presso il passaggio della terra di Bering. Il permafrost, lo strato di terreno irrimediabilmente ghiacciato, scorreva sotto ai piedi del popolo che camminava.
“Abbiamo sempre più freddo!” diceva la gente muovendosi con le racchette sotto le calzature di pelo, in quella notte che pareva non finire mai.
Predicavano l’amore e la pace, ma era sempre buio in quel paese.
“Quando mai vedremo la luce?” chiedeva la gente al loro capo.
Il buon capo, Eis, continuava a incentivare i suoi:
“Sperate e abbiate fiducia!” diceva.
Tutti continuavano a parlare di solidarietà e fratellanza ma l’oscurità non cessava.
Il vento batteva forte contro i volti dei camminatori, le dita delle mani di ognuno stavano per assiderarsi, la luce pareva un sogno.
Intanto le fate stavano a guardare:
“Aiutiamo questo popolo!” decisero.
Davanti a Eis comparvero centinaia di slitte trainate ognuna da una coppia di renne.
Il popolo di uomini e donne buoni si divise in gruppetti di tre o quattro persone e salì sulle slitte. Degli gnomi arrivarono a coprire le gambe dei viaggiatori con delle coperte calde e servirono una zuppa di legumi, poi il viaggio cominciò. Le renne trottavano spedite, ogni tanto galoppavano nella notte scura, per sfuggire agli spiriti maligni ma la gente non aveva più paura c’erano la fiducia e la speranza.
Finalmente ci fu lo spettacolo fantastico e indescrivibile dell’aurora boreale.
Il buio venne vinto da una luce che divenne prima turchese e poi imporporò il firmamento di calda colorazione rossa. C’erano nuvole verdi e arancioni, quindi tutto fu luce.
Il sole aveva vinto. Le tenebre erano sconfitte. I raggi teporosi dell’astro del giorno guidarono il popolo della gente buona, i bambini cantavano contenti. I ghiacci risplendevano come brillanti e piano piano si scioglievano. Un po’ d’erba nasceva sul terreno, era la vita che tornava.

25
La rugiada non era ancora scomparsa dalla superficie delle foglie attorno alla fontana, quando Nordri e Sudri aprirono la finestrella per vedere quale animale si era avvicinato alla fonte magica.

“Buongiorno!” disse il lupo leccandosi una ferita. Si vedeva un impacco d’arnica fatto dagli gnomi su un arto tutto storto e alcune tumefazioni già bendate.
“Cosa ti è successo?” chiese Nordri levandosi il berretto da notte e calzando il cappellino viola, a lui tanto caro.
“Sono stati gli gnomi a salvarmi!” disse il bel canide. Era stato inseguito dagli uomini che ingiustamente credono il lupo feroce e cattivo. Lo avevano picchiato e gli avevano sparato. Il lupo è coraggioso e forte ma affatto feroce; è l’uomo ad essere cattivo. L’animale era salvo solo grazie agli gnomi. I due nanetti lo fecero mangiare e lo rifocillarono. Quando il lupo si fu calmato, Sudri lo accompagnò presso il cantafiabe incantato che narrò proprio una storia sugli gnomi:

IN UN MONDO DI GUERRE
L’umanità stava distruggendo il pianeta. Si facevano guerre assurde e si uccidevano uomini e animali. Non c’era rispetto per la natura né per il prossimo. Tanti erano gli animali in pericolo di vita.
Gli gnomi del bosco si riunirono. Entrarono nella casa del loro re. Presso il salone reale si custodiva il Grande Libro, nel quale da migliaia di anni gli gnomi scrivono la storia della Terra.
Il re sfogliò il gigantesco volume delle pagine bellissime, redatte con grande cura e magnificamente illustrate. Si narrava di tutti i periodi del pianeta, delle varie ere.
“Mai è esistito un essere tanto cattivo e feroce come l’uomo!” disse il re. “Come è sempre accaduto nella storia, noi dobbiamo soccorrere i feriti e i bisognosi!”
Si parlò a lungo e si preparò un piano per andare alla ricerca di chi avesse bisogno d’aiuto. Alla grande riunione partecipavano tutti, gnomi e gnome, perché nella società degli gnomi si vive in democrazia e ognuno ha pari valore in quanto a dignità. Ciascuno disse la sua. L’impresa sarebbe stata dura ma l’intera brigata di gnomi partì per salvare chi era in pericolo.
“Siamo pronti a dare la vita per salvare chi ha necessità!” dicevano gli gnomi toccandosi il cappellino e stringendosi la cintura.
I fiumi erano inquinati, i bracconieri avevano ferito gli orsi, i leoni erano cacciati per via delle pellicce, gli elefanti per avere l’avorio. Gli gnomi andavano avanti. Soccorsero gli orsi, pulirono con delle speciali spugne le acque inquinate salvando i pesci, portarono al sicuro i leoni e riunirono gli elefanti presso il dio dell’amore, che li avrebbe custoditi dai bracconieri. La lotta era sempre più difficile. Gli gnomi sono esseri fortissimi e robusti, ma la loro corporazione minuscola rende spesso le imprese davvero ardue. Gli uomini si erano accorti dell’operazione di salvataggio degli gnomi.
Eserciti di guerrieri andavano alla ricerca dei piccoli esseri magici.
Gli gnomi continuavano la ricerca degli animali da salvare ma avevano alle calcagna violenti aggressori.
“Li abbiamo circondati!” urlò il generale dell’esercito umano.
Pareva non ci fosse nulla da fare. Soldati ben armati erano davanti ai minuscoli gnomini che erano scappati fino alla scogliera. Davanti agli gnomi c’era un baratro che dava sul mare. Alle loro spalle migliaia di fucili erano puntati su di loro. Il sovrano dell’amore però era ben sveglio e volle liberare questi esseri tanto buoni e generosi.
I soldati puntarono le loro armi ed erano ormai in procinto di sparare. Il Dio dell’amore alzò le mani sul mare. Un forte vento d’oriente soffiò sulle acque. C’era terreno asciutto al posto del baratro , dove gli gnomini passavano, mentre i cavalieri, i soldati, gli uomini armati e i carri nemici avevano la strada chiusa all’inseguimento da un muro d’acqua.
Nulla poterono gli uomini contro gli gnomi che continuarono e continuano tutt’ora nella loro opera di soccorso. Grazie al potere che gli è stato donato dal Dio dell’amore, seppur piccoli, passano oltre le acque e oltre le altissime erbe. Finché gli gnomi potranno fare il loro lavoro il pianeta sarà salvo.

26
Era appena piovuto. Il sole era ricomparso nel cielo, spazzato da un bel vento che l’aveva reso più azzurro che mai: a destra si vedeva uno stupendo arcobaleno. Presso le radici del leccio procedeva lenta la chiocciola. Amante dell’acqua, la chiocciolina si beava della pioggia appena giunta a rendere molle il terreno e l’erba bagnata. La sua conchiglia elicoidale era illuminata dai raggi del sole e si poteva ammirare la bella spirale sfumata tra il giallo e il marrone. Mentre camminava il muco tracciava la scia. Andava pianissimo ma sicura, la conchiglia l’avrebbe protetta sia dai nemici sia dal troppo sole.

“Buongiorno chiocciolina!” la salutò Sudri agitando la manina piccola ma forte e tozza.
“Salve a te!” rispose il mollusco.
La chiocciola era tutta contenta per la pioggia e osannava l’acqua, elemento indispensabile per animali e piante, essenziale per il nostro pianeta.
Dalla fontana l’acqua sgorgava fresca, bellissima e trasparente, spumeggiante come non mai. Il cantafiabe incantato raccontò proprio una favola sull’acqua:

LA SORGENTE AMARA
C’erano una volta, oltre i monti e le pianure ai tempi del medioevo, due popoli in lotta. Entrambe le parti erano armate, avevano spade e alabarde, coperti da grosse armature.
Il capo dell’esercito azzurro urlò:
“All’attacco!” si abbassò la celata e lo scontro cominciò.
I rossi paravano i colpi con lo scudo. Combatterono per sette giorni e sette notti, con aggressività e cattiveria, tra rumori di spade che s’incrociava e urla.
“Chiedo una tregua!” disse il capo dell’esercito rosso.
“Va bene! Andiamo a bere!” rispose il comandante rivale. I due eserciti si recarono alla grotta dove sgorgava l’acqua da una sorgente. La fonte zampillante era arrabbiata per la guerra. Usciva dalla polla un’acqua amara e imbevibile. Faceva caldo, i combattenti erano stanchissimi.
“Che acqua amara!” sputavano i soldati.
“Abbiamo proprio bisogno di bere!” dicevano, ma non potevano dissetarsi.
L’acqua divenne nera e puzzolente.
Sconsolati i soldati si chiedevano come poter fare, ma la fonte continuava a scaturire acque nauseabonde.
Le rocce circostanti la sorgente erano solcate da un torrente, anch’esso divenuto nero.
Un pesce dorato si affacciò dal rigagnolo per respirare:
“Fate la pace, altrimenti voi non potrete bere e qui moriremo tutti!” urlò il pesciolino d’oro.
I comandanti dei due eserciti decretarono l’armistizio.
Furono deposte spade e alabarde. Gli scudi vennero gettati nel burrone, insieme alle armature. I due eserciti fecero la pace. Si stringevano la mano e cominciarono a pasteggiare insieme.
La sorgente ne fu assai contenta. Non uscivano più acque amare, ma dolci e cristalline. Il torrente tornò chiaro e puro.
Fu una tregua lunga e duratura. I due popoli s’incontravano ogni mattina presso la fonte limpidissima e buona, ad attingere acqua fresca e si scambiavano calorosi saluti:
“Pace a voi!” dicevano i componenti del popolo azzurro.
“Che la serenità regni sovrana anche tra voi!” rispondevano gli altri. E per sempre sgorgarono acque dolci e mai più aspre.
Con la conciliazione tra le due popolazioni, la vita fu bella e l’acqua pura.

27
Sudri lucidava ogni giorno la collana fatata dell’amore. Sapeva che la sublime Reja conosceva ogni sua mossa e lavorava con cura. Avere tra le mani quell’oggetto regalava inoltre sapienza e affetto… era proprio bello pulirlo e renderlo splendente.

Il nanetto si era messo con panno, olio di gomito e impegno a lustrare la collana proprio davanti alla fonte. Nordri stava preparando una cassettina per le sterne, noti uccelli migratori che avrebbero potuto dormire, bere e mangiare nella casetta costruita dal nano, durante il loro lungo viaggio.
Alla fontana si presentò Signora Anatra. La sua andatura era impacciata e goffa a terra, ma appena s’introdusse nell’acqua della fonte apparve subito elegante e bella, mentre scivolava lieve sulla superficie liquida. Non aveva, come tutte le femmine, livrea troppo vistosa; era comunque caratterizzata da meravigliose sfumature sotto le ali, ove tra il piumaggio marrone comparivano screziature bianche e nere. La coda era più chiara, il petto addirittura completamente candido.
Aveva svernato con un grande gruppo di compagne, volando al caldo, ma aveva assai sofferto la fame. Solo grazie ai regali della fata Reja era riuscita a cavarsela.
“Per i buoni le forze dell’amore intervengono sempre!” commentò Sudri.
“Ascoltiamo una bella favola del narratore incantato!” propose Nordri e i tre si misero a sentire la sorgente magica che raccontò:

LA MANNA DAL CIELO
C’erano una volta tre amici che predicavano amore e bene, fratellanza e unione. Vagavano alla ricerca di città e paesi per promuovere la pace.
Al mondo non piaceva questa loro attività. Tutti li scansavano e rendevano ad essi il percorso difficile. Si ritrovarono a errare per il deserto:
“Che caldo!” dicevano cercando di ripararsi dai raggi fortissimi del sole, mentre l’arsura stava vincendo su di loro. Da giorni e giorni cercavano scampo in quella distesa di sabbia. La fame era tanta, la sete pure e di notte oltretutto calava l’oscurità e veniva un gran freddo:
“Stiamo morendo!” si lamentavano i tre amici, ma tra loro non diminuiva la voglia di stare uniti e ricercare popoli da redimere.
Erano ridotti allo stremo.
“Come salvarci?” si chiedevano.
Una notte di luna piena la mano potente del bene apparve in cielo.
I tre si destarono e cominciarono ad ammirarla. Quelle dita fantastiche offrirono pane magico e bevande dissetanti.
Ci aveva pensato il dio della tregua e dell’unione a salvarli. Non ebbero più né fame e né sete e ripresero il loro viaggio portando la pace all’est e all’ovest, al nord e al sud.
Per chi opera nella giustizia esiste una forza potente che porta sempre pentole piene di carne e pane, di cui si può mangiare a sazietà e bevande pure che rendono forti ed energici.

28
Dalle alte montagne che circondavano la valle magica, scendeva quel giorno la piccola marmotta. I ghiacci e le nevi, sulla cima delle guglie si scioglievano per pochi mesi all’anno, allora la marmotta si risvegliava dal lungo letargo e si aggirava alla ricerca di succose piante, erbe e radici. Quel dì aveva deciso di scendere a valle per starsene un po’ al sole. Sedeva vicino alla roccia che era sull’ansa del torrente, preoccupata a sbocconcellare una nutrita colazione, che le sarebbe servita per accumulare il grasso da utilizzare durante l’inverno. Intanto si guardava intorno. Aveva saputo che gli uomini stavano disboscando e temeva di incontrarsi con loro.

Lungo la sponda del torrente stava facendo la ronda Nordri, in cerca di animali ai quali portare soccorso, cibo, o almeno una parola buona. In quei casi il nanetto viaggiava sul suo triciclo da trasporto, composto da tre ruote di legno e una capiente cassa sulla quale stavano ghiande e nocciole da distribuire agli abitanti della valle.
“Ho paura degli uomini! Non voglio più vivere!” gli disse la marmotta.
“Dobbiamo andare avanti con fiducia, la speranza di un mondo di pace non ci deve mai mancare!” rispose Nordri e condusse la marmotta davanti alla sorgente incantata che narrò:

FIDUCIA NELL’ATTESA
Si sentivano spari e deflagrazioni. Gli eserciti marciavano compatti. Sul ponte che portava oltre l’altra sponda del fiume, ussari e cosacchi erano armati fino ai denti. Era un continuo sterminio di uomini e animali. Castori, conigli, furetti e criceti scappavano. Il ghiro dallo sguardo furbo si arrampicava svelto in cima all’albero, in cerca di scampo.
“Aiuto!” urlava il moscardino .
Le pattuglie di soldati tiravano sciabolate a destra e a manca.
La nutria scappò in acqua, il riccio si appallottolò.
La paura era tanta.
Gli animali del bosco non sapevano più dove trovare il coraggio di andare avanti.
Lo scoiattolo si nascose nell’albero cavo.
In breve la foresta parve divenuta deserta. Ognuno stava rintanato nel proprio giaciglio, mentre gli uomini combattevano. Cavalli imbizzarriti venivano frustati dai loro cavalieri, intanto che si sentivano spari e rumori tremendi di spade che s’incrociavano in cruenti scontri.
Il cinghiale fuggì nascosto nella selva. I fringuelli e gli usignoli non cantavano più ma volavano via.
Il gufo saggio cominciò a urlare:
“Non domandiamoci il perché. Noi non possiamo ancora conoscere ma un giorno saremo illuminati dalla luce della verità e giungerà la pace. Continuiamo a sperare e a stare uniti!”
Lo scoiattolo sbucò con il musetto dall’albero cavo, la nutria uscì dal fiume, il riccio s’aggregò e tornarono gli uccellini volati via. Anche il cinghiale ricomparì dal fitto bosco, con al seguito castori, furetti, conigli e criceti.
Tutti insieme proseguirono fiduciosi. Speravano con tutto il cuore nella tregua.
Un gabbiano volò illuminato da una luce magica che colpì spade e fucili. Le armi scomparirono per sempre.
Era giunto finalmente il giorno della giustizia.
Il regno dell’amore nacque tra canti di gioia e feste.
Stare uniti con fiducia aveva dato i suoi frutti.
Gli eserciti scapparono via.

29
In natura, tutti hanno un ruolo nella catena biologica. Ogni specie animale ha un compito ben preciso, anche quando agli umani pare che il suo incarico sia poco decoroso. Sono ad esempio considerate abiette e spregevoli le iene, che invece hanno la mansione di ripulire dai rifiuti e dalle carogne. Un altro tipo di animali che ha il ruolo di spazzino è lo sciacallo.

Agile canide, dalle zampe lunghe, con denti canini molto sviluppati, le grandi orecchie a punta e potente muscolatura da corridore, lo sciacallo è assai importante.
Lo sciacallo del bosco incantato, però, era un gran ladro. Non si limitava a ripulire la selva dagli avanzi e dagli scarti, ma rubava. Erano sparite le casacche degli gnomi, il miele delle api, le riserve dello scoiattolo ed era stata depredata la dispensa dell’orso. Il colpevole di tutto era sempre lo sciacallo.
Mentre il sole, ormai estivo, stava salendo in cielo, lo sciacallo si avvicinava alla fonte per berne l’acqua pura. Il suo pelo marrone, molto striato di giallo, assumeva colorazione dorata sotto ai raggi dell’astro del giorno. Lui camminava felpato. In realtà, sebbene comunemente si pensi che lo sciacallo mangi solo carogne, a lui piacciono molto anche frutta e insetti, topi e roditori, è cioè onnivoro. Il nostro sciacallo aveva appena razziato la tana della volpe durante la notte.
I nanetti magici avevano anche il compito di ridurre le malefatte e gli scempi del bosco. Sudri si avvicinò allo sciacallo che si apprestava a bere, per invitarlo ad ascoltare il cantafiabe incantato.
La sorgente quella volta narrò:

LA CARNE RUBATA
La carovana procedeva nella steppa. Lungo la via della speranza si compiva il tragitto di vita alla ricerca della pace e dell’amore. Una sterminata coda di carri, trainati da pii buoi, procedeva avanti per tutto il giorno, con grande fatica di uomini e donne. Gli uomini andavano avanti e indietro tra i carri, a cavallo, per controllare che le bardature degli animali da soma non si sciogliessero, o che non avvenissero guai ai barrocci.
Gli anziani guidavano i buoi e le donne si preoccupavano di tenere a bada i fanciulli. La notte si bivaccava disponendo i carri in cerchio in una qualche radura, trovata lungo il percorso.
“Da qualche notte vengono rubati pane e carne!” si lamentavano gli uomini.
C’erano infatti Jak e Pold che saccheggiavano i carri altrui, svuotando i barili di cibo e le giare di bevande.
Jak e Pold erano guardati dal fiero folletto dei viaggiatori. Era un essere magico, con lo zaino in spalla e un cappellino multicolore. Nel suo zaino il folletto aveva pozioni magiche e incantesimi.
“Ci penserò io!” disse il folletto dei viaggiatori. Sgattaiolò verso il carro di Pold e Jak che si spartivano il bottino depredato quella sera e mosse una bacchetta magica. Da allora in poi ogni carne rubata andò a male. Jak e Pold non potevano mangiare. I loro occhi cattivi erano ormai diventati gialli. Avevano lo sguardo spento per la fame.
“La carne di coloro che rubano s’imputridisce presto !” disse il folletto ai ladri.
Con l’incantesimo messo in atto dal folletto, chiunque avrebbe rubato si sarebbe così ritrovato a patire la fame per sempre.
“Ci ravvedremo!” promisero i due ladri. Smisero di rubare. Lavorarono con impegno per il bene dell’intera carovana. Da quella sera il loro cibo, mai più rubato, era sano e buono e loro lo dividevano con gli amici mentre un anziano suonava la chitarra e insieme si cantavano dolci stornelli.
Era molto più bello che rubare!!

30
I piccioni viaggiatori non hanno bisogno di mappe o cartine. Essi sono guidati dalla natura e da sensazioni magiche. La colomba bianca della regina Reja, era in viaggio per il bosco incantato di Nordri e Sudri. In una zampina il piccione bianco portava un biglietto di buon lavoro da parte della regina dell’amore.

La bella colomba nivea, giunse fino ala casetta dei nanetti. Sudri la riconobbe subito. La salutò calorosamente. Nordri festeggiava sventolando la bandiera fatata della pace. Era un drappo multicolore che parlava di unione e accordo.
I tre si avvicinarono alla fonte. Quel giorno il cantastorie magico volle parlare dell’importanza di credere nelle fate e avere speranza. La colomba era molto interessata, a lei piaceva invocare folletti e gnomi.
Il cantastorie narrò:

L’IMPORTANZA DI CREDERE ALLE FATE
I lottatori del bene erano circondati dall’esercito del male.
I combattenti cattivi portavano, stretti in bocca, affilati coltelli e tenevano in mano orrende pistole.
Gli eroi buoni offrivano ogni risorsa per salvare il mondo.
Il generale, a capo della truppa dei buoni, cominciò a invocare elfi, fate e geni.
“Alzerò le braccia al cielo!” disse.
Levò le mani verso le nuvole bianche e uscirono fate e folletti alati.
Quando il generale teneva le mani alte, i buoni avevano la meglio. Non appena il generale abbassava le mani, tornavano a vincere i maligni.
Il generale cominciò a esprimersi per formule magiche.
Nuvole di polvere si alzavano, mentre buoni e malvagi si scontravano.
“Devo riuscire a tenere le braccia sollevate verso il cielo!” diceva il generale a sé stesso per farsi coraggio.
Per ore continuò il combattimento. Le ombre stavano calando sulla collina presso la quale si lottava.
Un vento freddo colpiva le pallide gote del generale, ormai stremato da quella posizione.
“Non ce la faccio più!” diceva.
Abbassò le braccia. I cattivi stavano per avere la meglio, i buoni perivano sotto le scudisciate dei nemici.
“Forza! Credi con tutto te stesso!” gridarono i componenti l’esercito dei buoni al loro generale.
Il generale compì lo sforzo estremo. Con la circolazione delle braccia che gli provocava un gran formicolio e gli arti ormai ridotti a due membra doloranti, invocò di nuovo le fate. Un nugolo di fatine dalle alucce dorate scese sul campo di battaglia. Il generale teneva in alto le mani. I buoni periti si rialzarono e i cattivi fuggirono.
Se si crede alle fate e si invoca il loro aiuto, il popolo degli esseri fatati e buoni interviene sempre.
Fu una grande vittoria per l’esercito gentile. I malvagi erano ormai lontani, al di là dei monti e della brughiera, erano andati a nascondersi.
Il generale ringraziava le fatine e i folletti. Gli gnomi ballavano vicini ai funghi , tutti alzarono le braccia al cielo e si inginocchiarono. Ognuno credeva alle fate, non se ne poteva fare a meno. Il vento freddo era passato. Adesso si stava bene. Gli elfi servirono una torta al cioccolato e si festeggiò tutti insieme il trionfo della bontà. Il mondo era salvo.

31
Arrivò quella mattina alla fonte magica, una piccola cinciarella. Era un uccellino davvero stupendo, con un delicato piumaggio celeste sul dorso e verde e blu cobalto sulla coda, il petto era giallo. Svolazzava di ramo in ramo sulle piante presso la fontana.

La cinciarella era preoccupata. Pensava alla fine, alla morte.
“Il narrastorie ti potrà illuminare!” disse Nordri che aveva le maniche rimboccate perché era intento a costruire proprio una cavità per far da nido a cinciallegre e cinciarelle.
Dalla sorgente si sentì raccontare:

IL PAESE DOVE NON SI MUORE MAI
C’era una volta un giovane che era partito alla ricerca del Paese dove non si moriva mai.
Aveva percorso lunghe strade. Adesso si trovava nella landa sconfinata. Era un oceano di prato d’erica. L’erica era appena fiorita e aveva un buon profumo.
Il giovane vide una strada acciottolata e s’incamminò.
Portava il suo bagaglio a tracolla. C’erano in esso tutti i sentimenti d’amore per i suoi cari: familiari e amici.
Procedette ancora a lungo. Dovette scalare un alto picco. Alla fine si ritrovò in cima a un grande monte.
“Che senso ha la vita se prima o poi finisce?” si chiedeva il ragazzo.
Si fermò in vetta. Ammirò il paesaggio sottostante. Tutto in basso era d’un bel rosa malva. Si trattava dei fiori dell’erica.
“Ma dov’è il paese dove non si muore mai?” chiese il giovane.
Dall’erica dei prati che si vedevano dalla giogaia, salì uno stormo di passeri. Il gruppo di uccelli era allegro e gaio.
“Ti porteremo noi nel paese dove non si muore mai!” gli dissero.
Lo ricondussero tra gli arbusti rossi.
Gli fecero aprire il bagaglio. Il giovane tirò fuori l’amore per la mamma e l’attaccamento ai fratelli. Trasse dal sacco il sentimento d’intensa amicizia. Con quelle cose sentiva forte l’unione coi propri cari, come se essi fossero lì accanto a lui.
“Succede anche dopo che l’anima d’un corpo è salita in cielo! L’amore la rende sempre presente, oltre il tempo e le cose terrene!” dissero i passerotti.
Ecco dov’era il paese dove non si muore: nel proprio cuore.
Il giovane esultò contento. Odorava i dolci profumi della landa in fiore. Ringraziò i passerotti che volando lo accompagnarono a far ritorno a casa. Una volta che fu rientrato presso la dimora familiare, il ragazzo cominciò ad abbracciare tutti. Strinse forte a sé la mamma e le sorelle, corse in giardino a chiamare gli amici:
“L’amore ci rende immortali!” gridava.
Era proprio vero, l’amore vince la morte.
Cambiò da quel giorno modo di vivere, dando principalmente ascolto alla voce del cuore, che oltre ogni scienza dava importanza alla coscienza. Fu per il giovane un mondo nuovo. Assaporò con tutto sé stesso la forza del sentimento, dando alla sua esistenza un volto allegro e gioioso.

32
Ormai da tempo, la bella coccinella dai sette punti, aveva lasciato il suo nascondiglio del periodo freddo, per volare di fiore in fiore. Infatti, a ogni primavera questi bellissimi coleotteri dalle ali rosse, abbandonano le foglie accartocciate dove hanno passato l’inverno, o gli anfratti dalle cortecce d’albero e cominciano la loro importante lotta contro gli insetti nocivi. Le coccinelle sono infatti assai particolari e incaricate dalla musa Reja alla custodia delle rose. Vivace come al solito l’allegra coccinella dai sette punti salutò Sudri, che scalzo come ogni volta che nettava la fonte, stava immerso fino alle ginocchia davanti alla sorgente magica.

“Buongiorno signora coccinella!” rispose il nanetto al saluto e si tolse in segno di deferenza il capellino azzurro.
La coccinella era un bellissimo esempio di voglia di vivere e proprio in attinenza alla gioia di esistere, il narrafiabe cominciò la sua storia, mentre i nanetti e la coccinella ascoltavano attenti:

LA CARTA MAGICA
Tanti anni fa, oltre le colline, un drago minacciava continuamente il paese di Bec, tenendo tutti sotto il suo potere. Era un drago alato spaventoso e tanto cattivo. Creatura potente e minacciosa, si era costruito un trono d’oro e dall’alto comandava gli abitanti del paese di Bec. Tanti avevano provato a combattere il drago ma per quanto le loro gesta fossero state eroiche, non erano minimamente riusciti a sconfiggerlo, anzi il bestione aveva accresciuto la propria prosopopea. Ogni dì si alzava in volo sul paese di Bec e lanciava fiamme per intimorire il popolo che così s’inginocchiava e rispondeva:
“Faremo tutto ciò che vuoi oh potente drago!”
Questo drago aveva proprio il diavolo in corpo.
Nel paese viveva un paladino assai gagliardo e fiero.
“Io riuscirò a salvare tutti dalle grinfie del mostro!” disse coraggiosamente e partì verso il trono del drago.
L’essere dalla lingua infuocata era sicuro di sé.
“Ti sfiderò a carte, se vincerai libererò il paese, altrimenti mi porterai come pasto la figlia del re!” disse il drago che si riteneva assai astuto e furbo.
Tutto il popolo fremeva temendo per la principessa.
Su un tavolo enorme, presso le stanze della tana del drago, cominciò la partita a carte.
Il mazzo venne mischiato e la partita iniziò.
“Ho la carta della luna!” disse il drago.
Il paladino in mano poteva solo rispondere con la carta delle stelle.
“La luna è più forte delle stelle!” disse ghignando il drago che così conquistò il primo punto.
Furono nuovamente distribuite le carte. Il drago mise sul tavolo il sole, il paladino aveva solo la carta delle nuvole.
“Il sole vince le nuvole!” esultò il cattivo drago che aveva così vinto anche la seconda mano.
Si giunse all’ultima parte della contesa. L’orrendo essere usò la carta che riteneva più potente.
La principessa già si preparava a far da pasto al bestione.
Il drago mostrò la carta della cattiveria.
Tutti piangevano e si disperavano, quando il paladino trasse dalla mano la carta della vita:
“La vita è più forte di ogni cosa e la voglia di vivere vince ogni cattiveria!” annunciò il paladino che sconfisse così l’avversario.
La principessa fu salva e il drago smise per sempre di tormentare il paese di Bec. La voglia di vivere è davvero la cosa più importante che ci possa essere.

33
Anche moltissimi insetti erano soliti recarsi dai nostri nanetti, a raccontare i propri problemi.

La mantide religiosa, era angosciata perché data la sua proverbiale voracità di cacciatrice diurna, tutti la temevano.
“Sono brutta!” diceva, non comprendendo che siamo belli o brutti a seconda di come ci comportiamo. Chi è buono è visto con gli occhi del cuore, mentre chi è malvagio appare sempre poco bello. La mantide religiosa è in realtà assai bella ma tutti la temono. Ha caratteristiche particolari, una grande testa e colorazione diversa a seconda del luogo dove vive, con funzioni mimetiche. Può assomigliare a un paio di belle foglie quando il suo luogo è il bosco, o è giallo paglierino quando è solita frequentare i prati incolti. Coi suoi potenti occhi la mantide religiosa era sempre alla ricerca di cibo. Era capace di mangiare persino il marito, tanto che aveva dovuto sposarsi sette volte. “Sono orrenda!” disse la mantide a Sudri, mentre si leccava le zampine anteriori munite di potenti seghe e di uncini molto appuntiti. “Non è il tuo aspetto, è per come ti comporti!” le rispose il nanetto. Nordri stava stendendo il bucato presso la fontana magica e udì le parole della mantide religiosa, la invitò quindi ad ascoltare una delle fiabe incantate della sorgente, che narrò: LE SETTE ARPIE In un maniero stregato vivevano sette arpie, sempre pronte a far malefici e a portare dolore tra le genti. Nel loro laboratorio bolliva da mane a sera un calderone, con pozioni atte ad affatturare i popolani e gli animali buoni del bosco. Compagno delle sette arpie era il loro aiutante il corvaccio nero, ogn’ora intento a portare ingredienti come il sangue di drago o il veleno di vipera gigante. Seconda aiutante era la salamandra, anch’essa cattivissima e solerte ricercatrice di ingredienti come l’artiglio di grifone, o il grasso di serpente. “Faremo un maleficio al principe!” decisero le sette arpie. Cominciarono a sfogliare il loro libro giallo, consultarono lo specchio stregato e fecero una pozione per irretire il figlio del re in una storia d’amore. Il loro teschio parlò alle arpie e disse: “Fate bere una tisana fatta di occhio di tritone e coda di lucertola al principe, egli s’innamorerà della più brutta di voi al solo udirne la voce!” Le sette arpie ingannarono il principe e gli fecero bere il filtro d’amore. Da dietro la porta, la più brutta delle arpie parlava. All’udire la sua voce il principe s’innamorò perdutamente. Ogni giorno da dietro all’uscio, l’orrenda arpia parlava e il principe andava in brodo di giuggiole. Alla fine si decise di celebrare il matrimonio presso il palazzo reale. Il figlio del re si era davvero innamorato, ma a forza di parlare con voce soave, anche la tremenda arpia aveva ridestato la propria voglia d’amare. Le arpie decisero di coprire con sette veli l’orripilante futura sposa, affinché la sorpresa fosse tremenda per il principe. I due si ritrovarono all’altare. Le donne malefiche già ghignavano. La coppia convldalla sua bisaccia, appesa alla cintura, una bella carota.
Il coniglio continuava a tremare, ma sbocconcellò la carota coi suoi bei dentoni. Si vedevano soltanto i grossi e appuntiti incisivi, mentre le labbra si muovevano veloci. Le grandi orecchie intanto erano attente a udire rumori sospetti.
“Calmati!” commentò Sudri.
Non si può vivere con il terrore. Ci vuole prudenza, ma non c’è da esagerare.
Per convincere Pan a trovare un po’ di coraggio, i nanetti lo invitarono ad ascoltare una fiaba narrata dal cantastorie della fonte.

IL CORAGGIO DI IK
In un’epoca remota, oltre lo sconfinato territorio che si estende fino a toccare il Caucaso, che segnala il vero ingresso in oriente, viveva il coraggioso Ik.
Un dì di burrasca, Ik camminava con il volto sferzato dal vento tra le montagne. Trovò riparo presso una grotta, scavata nell’immenso monte.
Ik si accoccolò presso una nicchia che si trovava tra le rocce cristalline. In mezzo alla nicchia stava un bel fiore viola.
“Che fiore stupendo!” commentò il coraggioso ragazzo, mentre si sfregava le mani cercando di scaldarsi. Toccò il fiore e provò una sensazione di calore. Il fiore emanava un’energia particolare. Fuori intanto la burrasca continuava. Trascorsero ore e ore. Alle tre del pomeriggio, come ogni giorno, il fiore si illuminò magicamente e al suo posto comparve la bella Elena che spiegò:
“Sono la bella Elena, vittima di un maleficio. La strega Orga, gelosa della mia beltà, mi ha trasformato in un fiore, solo una volta al giorno ritorno ragazza. Per salvarmi un giovane coraggioso, deve trovare in fondo all’oceano la collana sommersa. Bisognerà lanciarsi in mare dai pericolosi scogli e raccogliere il monile come riscatto per me!”
Ik era tanto coraggioso.
“Lo farò io!” disse.
“Ma è assai rischioso!” rispose la bella Elena.
Ik si era già innamorato e non si tirò indietro. Sapeva che quando si agisce nel bene e nel giusto non bisogna aver paura. Non attese neppure che passasse il nubifragio e si diresse agli scogli che stavano in mezzo all’oceano, proprio mentre cavalloni enormi e tremendi marosi, creavano gorghi e mulinelli spaventosi.
Ik si buttò dagli scogli.
Il mare era agitatissimo. Si vide Ik, sparire sotto la schiuma. I gabbiani guardavano impauriti. Trascorsero vari minuti, mentre il coraggioso ragazzo, in apnea, vagava sul fondo. Ormai nessuno poteva più sperare di vederlo riemergere, quando Ik uscì fuori con tra le mani la collana.
Persino la natura comprese il gesto eroico e in un baleno la burrasca finì e spuntò l’arcobaleno.
Alla strega venne consegnata la collana come pagamento e la bella Elena tornò per sempre una stupenda ragazza.
Il coraggio di Ik l’aveva liberata dal sortilegio maligno.

35
I branchi di cervi sono costituiti da femmine e cerbiatti, mentre i maschi fanno vita solitaria. Il cerbiatto Pin quel dì era scappato dalla mamma e dai compagni, inseguendo l’elegante e bel cervo suo padre, dal nobile portamento e dalle imponenti corna.

Sognava di divenire bello come lui. Il piccolo cerbiatto era in quel periodo difficile ma importante, durante il quale si tende a prendere giustamente come modello i genitori. Voleva imitare il babbo, ma ogni tanto cadeva in depressione.
“Cosa esisto a fare?” si domandava vedendosi senza il palco di corna e senza il bel manto fulvo del padre, tuttavia con quelle belle macchioline bianche sul dorso che a lui parevano ridicole. Non capiva che la cosa più importante della vita non erano le corna e l’aspetto, bensì l’amore.
Pin si ritrovò piangendo davanti a Nordri.
“Cosa vivo a fare?” chiese il cerbiatto.
“Vieni alla fonte magica!” disse il nanetto e insieme ascoltarono questa fiaba:

IL SENSO DELLA VITA
I giardini erano in fiore anche quell’anno. La natura segue ordini ben precisi e non sgarra neanche una volta. Le rose erano sbocciate, gli alberi da frutto promettevano una grande resa, giunchiglie e margherite rallegravano il paesaggio.
Per gli uccellini era il periodo di costruire il nido.
Rotondetto e melodioso se ne stava sull’albero a cantare Eric il pettirosso. Coi suoi occhioni, enormi rispetto alla testolina, guardava il giardino, però era preso dai suoi pensieri. La sua compagna lo chiamava:
“Vieni a costruire il nido! Daremo vita a una bella famigliola!”
Eric si voleva sottrarre ai compiti di padre. Non aveva desiderio di pensare ad amare la propria nidiata.
La femmina sua compagna si adoperava a trasportare il materiale per costruire il nido presso un cespuglio.
Eric non volle collaborare. Gli pareva che tutto fosse senza senso.
“Io non so perché sono al mondo!” diceva e rimaneva inerte.
Sei belle uova furono deposte dalla femmina e nacquero sei simpatici figlioletti.
Eric non voleva fare il babbo.
Non capiva l’importanza dell’amore.
Una fata scese da una nuvola. Lo guardò coi suoi occhi dolcissimi.
“Perché non svolgi il tuo compito?” domandò la fatina. Il pettirosso si sentì rabbrividire.
“Non so perché sono sulla Terra!” disse Eric.
“Sai però che devi amare!” commentò la fata e gli mise alla zampina un anello magico, che richiamava al cuore tutti i sentimenti di intenso affetto per la propria famiglia.
Eric si scosse e i brividi di freddo sparirono, volò al nido per amare la propria compagna e la nidiata.
L’amore dà senso a tutto, la vita di Eric cambiò, ogni cosa aveva preso significato.
“Ecco perché sono al mondo: per amare!” disse contento il pettirosso e si mise subito a cercare insetti, lombrichi e fragoline da portare ai propri piccoli.

EPILOGO
Eccoci giunti alla conclusione di questa raccolta di fiabe narrate dalla fonte magica. In realtà è difficile chiudere questo libretto, tante e poi tante sono state le storie sgorgate dalla fonte a prò dei buoni e dei gentili di cuore. Per porre comunque un bel sigillo finale sarà raccontata la festa, celebrata a ogni equinozio e a ogni solstizio presso la fonte, nei quattro giorni dell’anno nei quali la fata Reja veniva a salutare i nanetti e gli animali del bosco.

…Nel suo apparente cammino (in realtà è la Terra a muoversi) il sole raggiunge ogni anno la massima distanza sull’eclittica, intorno alla notte corrispondente al 21 giugno: per la natura è gran festa.
Quella notte tutti gli animali della valle incantata erano presso la fonte, ad attendere il giungere della regina Reja. Arrivò in volo con la sua civetta, saggio uccello compagno di tante avventure. La civetta era parecchio intelligente, comunicava con la sua padrona attraverso chiari segnali. Se alzava una sola ala, ad esempio, affermava che qualcosa non andava. Appena arrivate, la civetta cantò allegramente il suo tuttomio, e Reja capì che andava tutto bene. La musa delle parole buone era bellissima. Era giunta colle sue stupende ali di cigno, donate lei dal gran mago Merlino.
Nordri e Sudri erano tutti impettiti. Si erano messi in ghingheri, con gli abitini orlati di trine e il cappellino dorato.
Anche gli animali si erano preparati per accogliere la musa.
“Vi abbraccio tutti!” diceva Reja.
La luna e le stelle brillavano in cielo, i grilli cantavano, le lucciole fecero un alone intorno a Reja, più bella che mai coi capelli lunghi e neri e la pelle chiara. I profumi della notte estiva erano gustati da tutti. La fonte brillava illuminata dal firmamento e dalle candele che i folletti tenevano in mano per celebrare il momento di festa.
“Gustate questi biscottini!” diceva un puffo azzurro, servendo particolari dolcetti cucinati nel forno incantato. Gli uccellini volavano da un albero all’altro e si fermavano in mezzo alla valle per sbocconcellare qualche briciola, che a loro bastava.
I flauti magici accompagnavano balli e danze. C’erano proprio tutti: l’orso, la volpe, le puzzole, le marmotte, ogni tipo di volatile, animali da pelliccia e roditori. Non mancava nessuno.
La musa delle parole dolci, Reja, chiese a Nordri di portare la collana fatata. Il nanetto chiamò il compagno che recava su un vassoio argentato e decorato di zaffiri la collana. Nordri prese il prezioso monile e lo porse a Reja che li elogiò per come curavano la fonte, pulitissima e per come conservavano la collana.
“Bravi, bravissimi i miei nanetti!” poi la regina si avvicinò alla fonte incantata con la collana in mano e la immerse nelle acque più volte. La collana luccicò di una luce fortissima.
Era quella la collana delle parole buone e portatrici di amore.
“Apprezziamo sempre le parole dolci!” invitava Reja.
“Dobbiamo sempre ascoltare la bella voce della fonte che ci narra di amore in mezzo a un mondo di guerre!”
Tutti gli animali, gli gnomi e i folletti si misero in cerchio tenendosi per mano e per la zampa. Anche quella sera la fonte magica aveva da narrare e come al solito parlò di amore, di valori e di fratellanza… non possiamo fare a meno delle favole per aprire il nostro cuore al bene e all’amicizia.
Ancora oggi, chi vuole sentire forte fraternità e bontà, non deve far altro che chiudere gli occhi, immaginarsi davanti alla fonte di Nordri e Sudri e sognare una favola, magari leggendo un bel libro.

BIBLIOGRAFA ESSENZIALE
Bonani, Leone e Sacco, a cura di, I bambini raccontano,Biblioteca provinciale di Salerno
R.Khawam, Le Mille e una Notte, Fabbri editori, Milano 2005
Alba marcoli, Il bambino perduto e ritrovato, Mondatori, 1999
Lazzarato Francesca,Magia, Mondatori, Milano 2002
Wil Mujgen,Il grande libro degli gnomi-abitudini e comportamento, Rizzoli

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