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“Poesie del santo che non sei” di Ugo Magnanti

Luglio 31
23:00 2009

Davvero pregevole questa plaquette uscita in sole trecento copie numerate e rilegate a mano. Raffinata ed elegante, indicativa, soprattutto, di una poetica personale ed evoluta, forse non ancora completamente identificabile nel precedente Rapido blè. Una visionarietà ben pilotata, insieme ad un taglio psicoanalitico più risoluto, demarcano, in sintesi, la linea di progressione. Otto poesie, tutte enumerate, attente a cogliere in profondità la tematica trattata attraverso un incedere di pennellate scandite con armoniosa foga, graffianti del loro attenuarsi in pastelli allorquando tramutate in versi. Poesie del santo che non sei è una litote che, a partire da un titolo, introduce alla perfezione quanto precedentemente espresso. Tutto parrebbe sotteso in un’atmosfera di apparente calma, ma è tra i pastelli devoluti in sfumature che si cela e al contempo rende meglio l’idea del mostro da rivelare: “strangoli/il bicchiere di crodino”, “cecchino/che scherza con la morte dei passanti”. Assai evocativi in questo senso, nonché degni di menzione, sono i due inserti fotografici curati da Angela Antuono: ombre che si aggirano tra la sabbia, personificabili nel congiungersi degli elementi, in prossimità del bagnasciuga. Lungi da ricorsi giullareschi, lo sconcerto è tangibile, scandito da un “orologio” reso “giallo come un insetto” nel corso di un anno virulento e tormentato. Magnanti è preciso ed incisivo nello scandire immagini che, tanto nei contenuti quanto negli stilemi ricorrenti, rendono complice, progressivamente, il lettore di molteplici parallele chiavi d’interpretazione; spazi dove fuorviare per riportare l’attenzione altrove, in un piano speculare, inteso come ipotizzabile approdo tra una comune contemporaneità di condizioni, chiave di volta per un’inevitabile rilettura. Poesia che, oltre la forma, è vivida di un percettibile risucchiare il poeta, in bilico tra un delittuoso progetto intorno a lui intessuto ed una nemesi aleatoria. Man mano s’identifica, tra le righe, uno stereotipo femminile ibrido, secolarizzato nell’accezione dell’annullamento di un ruolo di complementarità tra i generi. Qui il poeta, già precedentemente esternatosi “edipicamente non edipicamente”, finisce per incorrere, e da qui è spinto a renderci la sua folgorata, impotente incredulità per quanto, istante dopo istante, corrode nella “ruggine” la sua anima. “Metà uomo” e “metà creatura” è l’ambigua presenza sempre celata, ma comunque accertata, che viene evocata al maschile, presenza che va oltre una possibile dicotomia dell’ “io” poetico, si tratta di “un giuda a stento”, rituale e anaffettivo, compenetrante le percezioni del poeta, violate e riaffiorate attraverso la catarsi della poesia. “La palma nel giardino” sono le lusinghe di negate radici, prima maneggiate con “attrezzi tolti dal velluto”, nella sacralità di un “tabernacolo”, poi esposte a “fango” e “graffi” nel criminoso intento di recidere. Interessante l’identificazione col “cristo” pietrificato nell’indifferenza, ricorrenza volta a scongiurare l’adescamento conflittuale nella contrapposizione e che segna nel profondo, nell’improvvisa e mutevole presa di distanza che raggela. “l’iroso rovescio” è quotidianità che striscia, perversa e decodificante, che diviene consapevolezza che inibisce il sentire avvertendo un delirio di onnipotenza, che mistifica in un vampirismo volto ad imbarbarire l’altro. La patologica “febbre” nel delirio assume il potere di una “corona” mentre, sullo sfondo, si percepisce una “capsula” che “si scioglie nello/stomaco”, probabile testimonianza di psicofarmaci. Pillole che, notoriamente, stravolgono umori e comportamenti, sino a renderli incomprensibili, tanto che il poeta, come chiusa, opta per un’immagine forte, che rasenta la condizione di pestilenza, con un lapidario “infettassero altri cento” rimarchevole nella portata del danno indotto.

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