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“Porcile”, il dramma pasoliniano in scena al Teatro Vascello

“Porcile”, il dramma pasoliniano in scena al Teatro Vascello
Marzo 01
19:07 2016

Il Teatro Vascello, insostituibile scrigno di arte e cultura che da ben ventisette stagioni vivacizza il panorama culturale romano, ha ospitato dal 16 al 28 febbraio lo spettacolo “Porcile”, coprodotto dal Teatro Metastasio di Prato e dallo Stabile del Friuli, rivisitazione contemporanea, fattane dall’attore e regista ligure Valerio Binasco, del dramma in undici episodi che Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1966.
Al centro della scena, su di un palco per lo più disadorno, il disagio esistenziale e sociale sofferto dal giovane Julian, alla disperata ricerca di frammenti di tenerezza e di verità nella Germania occidentale post-bellica, stretto fra i diversi conformismi di una società e di una famiglia borghesi che ne frustrano desideri ed istinti, imponendo regole, scelte e codici di condotta.
Se Pasolini, nella versione originaria dell’opera e nella successiva trasposizione cinematografica, aveva posto l’accento soprattutto sul rifiuto intimo, ma privo di reali slanci salvifici, dell’ipocrisia e della violenza di una società irrimediabilmente borghese come quella tedesca, riconsegnata alla democrazia ma immemore delle necrosi ancora aperte lasciate dal nazismo, cogliendo, con continui rimandi simbolici, la visione grottesca e disumana di un modello sociale improntato al cinismo e alla spregiudicatezza, Binasco sembra volutamente concentrarsi soprattutto sull’aspetto psicologico e relazionale di questo dramma esistenziale; nella sua rilettura del testo, il regista teatrale coglie le esuberanze vitalistiche ma anche le infinite fragilità e l’irrimediabile solitudine di Julian – impersonato da Francesco Borchi, interprete di numerose opere teatrali e di alcune fiction televisive – , in quel suo lento scivolare verso un amore – quello per i maiali del porcile di famiglia – impossibile da condividere o semplicemente da comunicare, fino all’inevitabile e tragica sconfitta che, come una catarsi priva di redenzione o come una terribile nemesi, impone silenzio e oblio.
Impossibilitato ad amare la giovane Ida che – molto ben caratterizzata dall’interpretazione di Elisa Cecilia Longone -, caparbiamente cerca di ricondurlo sulla via di un amore reale e borghese, di farlo uscire dal guscio del suo isolamento ma che, in fondo, sembra incapace di coglierne appieno il dramma interiore che lo tormenta, Julien si mostra irrimediabilmente disinteressato anche alla dimensione sociale e politica della sua epoca, estraneo al contempo alle lotte generazionali dei movimenti giovanili e alle crescenti aspettative familiari per il suo futuro. E proprio nel rapporto con i genitori – impersonati sulla scena da Valentina Banci e Mauro Malinverno –, ossessionati dalle rispettive ambizioni patrimoniali e sociali, ma anche forse consapevoli del vuoto interiore che li segna in modo irrecuperabile, sembra naufragare il desiderio più profondo di Julian, forse taciuto persino a se stesso, quello di stabilire un filo autentico di comunicazione e di verità, di tenerezza e di comprensione reciproca: le braccia tese in un abbraccio abbozzato sembrano cedere, ogni volta, di fronte all’incomunicabilità, al disagio e al pudore. Chiuso nel suo universo idealizzato, preda di un’ansia di rigenerazione che lo spinge verso la zooerastia, Julian cade in uno stato di paralisi che ne restituisce, in modo plastico, l’immagine di vittima sacrificale dell’universo relazione borghese, fino ad avviarsi, con tragica consapevolezza, verso la catastrofe finale, divorato da quei maiali che, espressione forse di un malcelato disprezzo di sé, avevano finito col rappresentare per lui l’unica aspettativa di salvezza.
Sullo sfondo del dramma individuale, resta la spietata e cinica fame di potere e di denaro del corrotto e spregiudicato mondo industriale tedesco e della sua schiera di accoliti – perché in fondo per Pasolini anche l’operaio è un aspirante borghese, così come la socialdemocrazia tedesca, che solo pochi anni prima della scrittura dell’opera teatrale proprio a Bad Godesberg, città dove egli ne ambienta il dramma, aveva scelto di rompere con gli ideali del marxismo – incarnata dalle altre figure che attraversano la scena: Herdhitze, il nuovo socio in affari del padre ed ex criminale nazista – interpretato da Fulvio Cauteruccio -, Hans-Guenther, il mediatore di interessi familiari e imprenditoriali – impersonato da Franco Ravera – e persino l’inappuntabile e muto domestico – recitato da Pietro d’Elia -, pedine rumorose o silenziose di un mondo privo di umanità. Non vi è redenzione per i protagonisti di questa tragica rappresentazione delle vicende umane, neppure per il contadino Maracchione – impersonato da Fabio Mascagni – che nel portare la notizia della scomparsa di Julian, pur scosso dall’evento, si accontenta di riferire l’accaduto al solo Herdhitze e di votarsi ad un silenzio complice e colpevole.
A poco più quarant’anni dalla sua tragica scomparsa, Pasolini – che visse dal 1956 al 1963 a pochi metri dalla sede attuale del Teatro Vascello, in via Carini, nel quartiere di Monteverde – continua dunque a parlarci, con un linguaggio sempre nuovo e dai diversi registri interpretativi, della condizione degli esseri umani straziati da quell’infinita “fame d’amore” che è ancora il lascito più terribile della società capitalistica e della conseguente dinamica delle relazioni interpersonali. Un dono, quello dell’eredità letteraria pasoliniana – cui il Teatro Vascello ha tributato di recente numerosi appuntamenti, a partire dalle “Parole corsare” che Ascanio Celestini ha messo in scena lo scorso gennaio -, che è forse il suo ultimo e più autentico atto d’amore verso l’umanità, nonostante l’umanità.
Gianluca Polverari, 28 febbraio 2016

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