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Posticipare la pensione: conviene veramente?

Novembre 04
02:00 2006

Si fa un gran parlare, e non da oggi, di incentivare il posticipo della pensione: ritardare il fatale momento, per lo Stato, significa infatti risparmi economici enormi. Ecco allora i premi, gli sgravi, i bonus e quant’altro. Conviene al pensionando ed al pubblico Erario. Tutto molto necessario, persino ragionevole, infine la molla del mondo è data – vuoi o non vuoi – dal vile denaro, dall’incontro fra la domanda e l’offerta. Del resto, l’aumento consistente della cosiddetta ‘speranza di vita’ impone che si corra per tempo ai ripari: tra pochi anni arriveranno a maturazione pensionistica i nati dal Cinquanta in poi, cui seguiranno immediatamente i babyboomers degli anni Sessanta; in pratica, il nerbo dell’odierna forza lavoro nazionale, atteso che la stagnazione dell’economia ha alimentato poco o niente il serbatoio dei lavoratori a tempo indeterminato, mentre ha fatto lievitare in modo esponenziale quello dei lavoratori temporanei o atipici. Tutto perfetto, quindi, razionale, conveniente” Già, ma davvero è così conveniente? È veramente un affare andare in pensione a sessantacinque anni o più, quando potresti esserci già andato a sessanta-sessantadue? Per valutare questo tipo di problema, però, dobbiamo mettere da parte il risvolto economico e soffermarci su ben altro, estendendo il nostro quesito: ciò che conviene economicamente è poi così vantaggioso anche sotto il punto di vista della qualità di vita? Proviamo a dare una risposta basandoci sul pubblico impiego che – con i suoi 3,5 milioni di addetti – rappresenta il primo settore occupazionale d’Italia.
I nati fra il 1950 ed il 1960 sono in larghissima parte diplomati, il che significa che la loro carriera si è impantanata ben presto nella palude grigia di quella che un tempo si chiamava ‘carriera di concetto’. Lo Stato è un datore di lavoro peggiore del peggior privato. Ti concede, è pur vero, l’intangibilità assoluta del posto di lavoro ma essa è pagata dal lavoratore a carissimo prezzo di dignità. Zero qualificazione professionale, zero aggiornamento, zero valutazione dei meriti, zero possibilità di carriera, stipendi da avanspettacolo. Non è infrequente la figura di colui che, dopo quarant’anni di servizio, va in pensione con la medesima qualifica ottenuta all’assunzione, fatti salvi i pochi scatti d’anzianità. Spesso si dice che lo statale è uno scansafatiche e molte volte è vero. Ma a parte che la colpa non è mai di chi fa il lavativo ma solo dei superiori che glielo permettono, un vecchio detto ‘di famiglia’ che circola nell’ambiente è che ‘lo statale fa finta di lavorare perché lo Stato fa finta di pagarlo’. Quindi, come si vede, un grosso problema (che qui abbiamo in realtà solo tratteggiato) è la progettualità professionale. Con tutte queste premesse, allora, proviamo a riconsiderare il problema convenienza.
L’impiegato Mario Rossi ha sessantadue anni e potrebbe finalmente ritirarsi ma decide di trattenersi in servizio per qualche anno ancora. Svolge da sempre, con scrupolo, un oscuro lavoro contabile che forse è ormai superato dai tempi ma che nessun superiore si è mai curato di aggiornare ma nemmeno di controllare. I suoi amici coetanei sono andati da tempo in pensione; i colleghi attuali sono molto più giovani, ma con essi non lega più di tanto perché non ha diviso con loro la vita e l’esperienza. È quindi rimasto solo. Il suo dirigente è un giovane laureato rampante e pretenzioso quanto inesperto, che potrebbe essere suo figlio, ma dal quale invece è costretto ogni giorno a subire una raffica di disposizioni demenziali. Bene, che prospettive di crescita e di progetto potrà mai ricavare ancora il sig. Rossi dal suo lavoro? Nessuna. Se la lunga militanza nello Stato ne ha fatto da tempo un lobotomizzato, per quattro soldi in più il sig. Rossi continuerà a svolgere puntualmente ma mestamente l’inutile lavoro che ha sempre fatto, restando vivo fuori e morto dentro. Se invece il sig. Rossi ha conservato la salute mentale, allora si accorgerà improvvisamente di essere diventato invulnerabile e intoccabile. Potrà finalmente gridare a voce alta che il direttore Bianchi è un incapace, che l’ing. Verdi ruba sulle forniture, che il dr. Gialli è un leccapiedi, che l’avv. Bruni è un idiota . Non può essere licenziato; ormai non si licenzia più nemmeno chi ha una sentenza penale passata in giudicato. Non può essere sanzionato: cosa volete che ciò importi a chi non ha più nulla da perdere in termini carriera e può decidere di andarsene da un giorno all’altro? E poi se va via prima lo Stato ci perde. Lui che ha fatto quaranta giorni di malattia in quaranta anni di lavoro si rende finalmente conto che ora può prendersi a man salva mesi e mesi di malattia retribuita. Può anche andare venti volte al bar nella mattinata: non lo cercherà nessuno, anzi il ‘passaparola’ aziendale sarà proprio quello di far finta che Rossi – ormai un vero appestato – non esista proprio. Il che, poi, non è molto diverso da ciò che è sempre stato: una ‘penna biro con le orecchie’, per dirla col solito gergo impiegatizio. Comunque sia, ora Rossi è veramente libero! Libero, volendo, di denunciare le storture e le follie della burocrazia, le mafie degli appalti, le conventicole di imboscati provenienti da tutti i partiti politici. Libero di proclamare che il re è nudo. Passa il Presidente nel corridoio? Rossi gli fa una pernacchia: lui lo può fare impunemente, perché lo Stato deve risparmiare.
In conclusione: conviene allo Stato, per rimandare un pensionamento, tenersi un impiegato del tutto improduttivo e magari guastafeste? Oppure gli conviene l’impiegato tanto solerte quanto inutile? Certo, può anche darsi che il sig. Rossi sia un funzionario prezioso e indispensabile (se non altro perché privo di ‘eredi’ lavorativi) ma è tuttavia nota la battuta – spietata ma realistica – dell’avv. Agnelli, secondo cui ‘i cimiteri sono pieni di persone indispensabili’. E al sig. Rossi, conviene continuare a dannarsi la vita per uno stipendio-mancia? Conviene restare ancorati ad una scrivania sapendo di non avere più un futuro da impostare, di non poter trasmettere ad alcuno la propria esperienza (lo Stato vigila spietatamente solo se si tratta di evitare che qualcuno istruisca il proprio successore), di essere ormai rimasto l’ultimo dei dinosauri?
In ultima analisi è questo il vero, unico quesito sostanziale: conviene barattare, per un piatto di lenticchie, anni di vita preziosi, che potrebbero invece essere spesi dedicandosi al proprio benessere sia fisico che morale? È vero che la vita si è allungata, ma quella media, e non è scritto da nessuna parte che non possiamo essere proprio noi stessi quelli che tale media la abbassano.

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