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Quando la povertà è fotogenica – 1

Gennaio 22
09:07 2013

«Il peggio è passato, e con una continua unità di sforzi ci riprenderemo rapidamente». La frase, che getta una luce sinistra sulle reali capacità e sulle vere intenzioni dei cosiddetti ‘liberisti’ quando stanno nella stanza dei bottoni, e sembra essere uscita dalla bocca di qualche ex presidente del consiglio nostrano, in realtà viene pronunciata da Herbert Hoover, trentunesimo presidente degli Stati Uniti, a quasi un anno dal crollo di Wall Street.

Nel 1930 la crisi economica, innescata da speculazioni finanziarie e borsistiche con epicentro New York, è ben lungi dall’essere risolta e investirà con geometrica regolarità i paesi europei e il resto del mondo per lunghi anni. Soltanto alla fine del secondo conflitto mondiale, soprattutto grazie all’immane sforzo bellico, gli americani potranno vedere una ripresa trainata dall’ industria pesante e dai prestiti concessi agli alleati. Ma per buona parte degli anni Trenta gli Usa attraverseranno lo smisurato buco nero che va sotto il nome di Grande Depressione. Un Paese ridotto letteralmente sul lastrico dall’alta finanza legata a filo doppio a politiche di governo, che definire miopi sarebbe un complimento: scarsi investimenti nei maggiori settori produttivi, un fittizio incremento del potere d’acquisto con il boom delle vendite rateali, il permanere di una estesa disoccupazione e una politica di bassi salari asfalta inevitabilmente la strada alla catastrofe sociale. Catastrofe che non tocca minimamente gli interessi dei grandi trust dell’epoca o il sistema parassitario dei rentiers che basano le loro fortune sul denaro che nasce dal denaro. Nel marzo del ’33, quando finalmente Roosevelt si insedia alla Casa Bianca, i disoccupati raggiungono nei soli Stati Uniti la ragguardevole cifra di quindici milioni, che si spostano da uno stato all’altro in cerca di un qualsiasi lavoro. Contadini costretti a lasciare terre inaridite e ridotte ormai a catini di polvere, operai buttati fuori da fabbriche fallite, un esercito di hobos incattiviti che rappresenta per il governo una pericolosa mina vagante. La storia del ‘New Deal’, del piano economico studiato e messo a punto da un brain trust di studiosi del Partito democratico (l’unico trust accettabile, disse Roosevelt) è una storia fatta di provvedimenti d’emergenza, con un massiccio (e sacrosanto) intervento dello Stato, per tentare di risollevare la nazione, di disinnescare la mina, che andava dalla costruzione di dighe gigantesche alla manutenzione delle strade, dalla decorazione dei monumenti alla riduzione dell’orario di lavoro, dall’aumento dei salari al riconoscimento dei sindacati nelle aziende. E, ciliegina sulla torta, un ferreo controllo da parte dello Stato sul sistema bancario, sorveglianza sulle borse e sul mercato azionario. E visto che quando ci si mettono gli americani fanno le cose per bene, in quel marasma concepiscono la Federal Art Project, un’agenzia che oltre al pane ci mette anche le rose, sovvenzionando l’arte, la cultura, inserendola così nelle voci di bilancio. Ed è nell’ambito della Farm Security Administration che una trentina di fotografi, stipendiati dallo Stato, si mette così al lavoro per documentare l’America degli emarginati, dei dimenticati. Arthur Rothstein, Walker Evans, Russell Lee, Marion Post, Ben Shahn, sono alcuni dei fotografi che parteciperanno a questa sorta di spedizione con caratteristiche quasi messianiche, ma il fotografo più famoso del gruppo è una donna, Dorothea Lange, che percorre i luoghi della disperazione, dall’Arkansas all’Oklahoma, dal Texas all’Oregon alla California riportando immagini che rimarranno nella storia della fotografia documentaria, come la Madre migrante, icona del ’36. Ritrae Florence Thompson, madre di sette figli. Nella didascalia la Lange scrive: «Sette bambini affamati. Il padre è della California. Poveri in un campo di fagioli…per colpa del fallimento del precedente raccolto. Queste persone hanno appena venduto i loro pneumatici per potersi comprare un po’ di cibo». È chiaro che è un po’ tutta l’operazione a presentare aspetti controversi e contraddittori, muovendosi su un piano inclinato: le fotografie in pratica pagate dai contribuenti, un’amministrazione che si sobbarca la stampa e la distribuzione a giornali e riviste, una visione della società venata di paternalismo e di carità un po’ pelosa, con i poveri che divengono soggetti fotogenici e belli da guardare. E tutto ciò nello stesso periodo nel quale opera la ‘Photo League’, un’associazione di tutt’altra pasta, di fotografi indipendenti con una visione ben diversa e più ‘politica’ della realtà, che non vedrà un centesimo da parte della stessa amministrazione e che verrà chiusa qualche anno più tardi per presunte attività antiamericane.

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