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Quel silenzio che fa rumore

Luglio 19
23:00 2007

Sul malandato carcere italiano è sceso il silenzio, da qualche tempo non se ne parla più, come se improvvisamente ogni suo problema fosse andato a soluzione, c’è davvero da sbalordire per tanta efficienza e efficacia. Qualsiasi misura sia stata messa in atto per giungere a tanto, merita davvero apprezzamento, persino il famoso e vituperato indulto. Le nostre carceri si sono accettabilmente svuotate, il sovraffollamento è solo un brutto ricordo, gli operatori penitenziari finalmente sono nella possibilità di prendersi delle meritate ferie, i detenuti, per intenderci quei pochi rimasti, sono nelle condizioni di iniziare un percorso di destrutturazione-ristrutturazione, vivendo e non più sopravvivendo, e cosa non di secondo piano, i suicidi sono drasticamente calati… se non addirittura scomparsi. Insomma; l’Amministrazione Penitenziaria non ha più alcun problema endemico, non c’è più irrisolvibilità né tragicità, ogni cosa è andata al suo posto. Decenni di brutture, di incomprensibili invivibilità, di drammi inascoltati, di inciviltà giuridica e sociale, in un battito di ali: tentennamenti e ambiguità cancellati. La conferma di tutto ciò il blackout dei signori della comunicazione e dei riferimenti istituzionali, mutamenti vocali per costruire una condizione solidarmente costruttiva. Se il carcere non fa parlare più di se in termini negativi, vorrà dire che ha raggiunto un grado di maturità tale, che il mero assistenzialismo ha lasciato il posto a quella sinergia di intenti, tutti improntati all’individuazione degli strumenti di lavoro, che sanno riordinare le coscienze. Forse nelle celle non si muore più di silenzi strangolanti, di solitudini imposte, umiliati e dimenticati, nei corridoi ci si incammina per andare al lavoro, perché finalmente è possibile chiedere aiuto, soprattutto è giunto il momento dell’accompagnamento alla consapevolezza. Eppure… in questo panorama disinformato e disinformante, che pretende un carcere non più oppresso da carichi di disumanità indicibili, in questo silenzio istituzionalizzato, c’è davvero il cambiamento culturale auspicato? Chissà se è così, ma quando il silenzio cala come una mannaia, anche le grida più disperate perdono suono, rumore, interesse. Questa è politica, anzi è pratica della politica, che non ha più titoli da spendere per dare senso alle occasioni che si presentano per un cambiamento reale. Riforme, innovazioni, progresso, vuote parole in enormi parole valigia, neppure tanto leggibili nelle pagine che rimangono bianche, impregnate di panico a fare, a dire, a dare finalmente un senso vero alla pena, affinché non tolga ancora e ancora dignità alle persone, nella pretesa di riconsegnare uomini migliori alla collettività.

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