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Quotidianità della sofferenza

Quotidianità della sofferenza
Giugno 14
16:59 2014

16-per-AndraousSe ne stava lì in un angolo della stanza, rannicchiata addosso alla parete, come volesse occupare uno spazio invisibile. Una signora con i capelli argentati, una donna esile, fragile, improvvisamente sola. Mentre l’accompagnavo da persone amiche disponibili ad accoglierla per la notte, mi raccontava una storia incredibile ma tragicamente reale.
Ogni tanto le succede di scappare da casa. Attraverso i campi raggiunge la città per recarsi al pronto soccorso: le accade di non riuscire a muovere le braccia, piegarsi, respirare bene.

Ogni tanto la testa le ciondola sul collo, svuotata di ogni pensiero; le gambe oppongono resistenza; non c’è più sincronia tra dire e fare, neppure nello sperare che le cose possano cambiare. Ogni tanto il marito la colpisce forte, la offende e la spintona: per il lavoro che non c’è più, per la malattia sopraggiunta, per lo sfratto imminente. Le percosse e le umiliazioni la fanno morire un po’ di più.
«No, non denuncio mio marito, perché se lo scopre mi ammazza. Questa volta… no, non lo denuncio mai. A che servirebbe? Rimarrebbe in quella casa e io a rischiare di più…»
Guardo quella signora e mi vengono in mente le reiterate sensibilizzazioni a chiamare il numero verde, gratuito ed efficiente, a difesa di chi non sa più a che santo votarsi per sopravvivere, se al diritto di vivere è negato l’accesso. Frasi fatte, luoghi comuni, gli scudi levati al grido “la violenza sulle donne non ha più scuse”.
L’hanno sollecitata: «Lo denunci, signora, lo denunci, e poi vada via subito dal paese», ma lei mi dice: «Dove vado, io? Cosa faccio, io?» Incredibile. Chi ha ragione ed è vittima deve trovare il coraggio di denunciare, pur nella certezza di finire in strada e perdere ulteriormente dignità e fiducia negli altri, senza risposte a propria tutela se non quella di un consiglio ad abbandonare casa e andare lontano: dove e come, ha poca importanza, perché di fondi non ce ne sono, il paese non offre lavoro nonostante i decreti, e la legge è quella che è. Una donna presa a calci, rifiutata e calpestata, è solamente il frutto di un’errata concezione morale, di valori culturali che soccombono ai pugni sferrati dai pregiudizi. Si tratta semplicemente di vittime ammutolite dalla consapevolezza di rappresentare poco più di un fattaccio privato, anche quando la bestemmia burocratica è spogliata nella sua menzogna, dall’efferatezza dei dati esponenziali che indicano in migliaia le donne colpite dai sassi psicologici, fisici, sessuali.
Mentre scende dall’auto e la portano nella stanza, ho come un magone. Ma non è il risultato della compassione, della partecipazione emotiva, solidale verso chi vede martoriati i propri diritti fondamentali. Il groppo in gola è lì per l’impotenza a intervenire ai fianchi di infamie come queste, che accadono nell’indifferenza e nell’incapacità di porre termine a una delle ingiustizie più miserabili, che aggredisce sempre le persone più deboli e indifese. Ogni tanto la signora è costretta a ricorrere alle cure mediche, a negare l’evidenza, a chiedere aiuto e vederselo negato. Ogni anno ci sono le ricorrenze, le feste, le coreografie delle pari opportunità, dell’uguaglianza e della diversità, le quote rosa… Ogni anno ci sono le mimose, che dovrebbero rammentare a ciascuno di rispettare le donne. Non dovrebbero esserci solamente qualche volta l’anno.

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