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Riflessioni sulla lingua italiana

Febbraio 13
23:00 2011

«Quelli più vicini che mi stavano di faccia sembravano, dalla foggia del vestire, persone ragguardevoli. Parlavano fra loro con serietà, volgendo spesso lo sguardo a me. Uno di essi, infine, mi rivolse la parola in un idioma chiaro, gentile, dolce, che suonava quasi come l’italiano. E in italiano, appunto, risposi, sperando che almeno la cadenza sarebbe tornata gradita al suo orecchio». Queste righe sono prese dal primo capitolo della terza parte del capolavoro di Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver (Mondadori, traduzione di Carlo Formichi). Di questa grande opera, spacciata come racconto per ragazzi, di solito è conosciuta solo il primo capitolo, quando Gulliver si trova fra i lillipuziani, ma le altre pagine del lungo viaggio non vengono messe in luce, mentre rappresentano la critica più feroce e attuale non solo all’animo umano inglese, ma anche alle istituzioni, alla fortuna, al degrado culturale del mondo moderno. Ma io non voglio parlare di questo. Ho riportato il pensiero del grande Swift solo per introdurre una riflessione, anzi, alcune riflessioni, sulla nostra povera luminosa, dolcissima lingua. Gli italiani non amano la propria terra né le ricchezze spirituali di cui la Natura ci ha dotati lungo i millenni. Perciò sono tutti esterofili, lasciando all’interno l’inesorabile e inestinguibile guerra cittadina fra Guelfi e Ghibellini. Siccome siamo in un periodo molto caldo nella politica e nei pettegolezzi, su cui ormai si basano le notizie, voglio eludere qualsivoglia riferimento alla triste attualità che tutti conosciamo. È mio desiderio, invece, spronare i nostri connazionali ad amare la lingua più bella del mondo, quella musicale e cantabile per eccellenza. Scrive Alessandro Masi (segretario generale della Società Dante Alighieri estesa nel mondo intero), nel suo coraggioso e profetico libro L’Italiano delle parole (II ed., Anemone Purpurea, 2007): «Due anni or sono si presentò nella sede della Società Dante Alighieri di Palazzo Firenze a Roma l’ambasciatore della Mongolia presso la Santa Sede, per perorare la causa dell’apertura di una scuola italiana nella capitale Ulan Botar, città riposta nel cuore profondo del continente asiatico. Alla domanda un po’ stupita sul perché di una così insolita richiesta, egli rispose: – Noi abbiamo una lunga tradizione lirica e le nostre cantanti hanno bisogno di conoscere bene la vostra lingua se vorranno avere successo nella loro carriera -. La sede fu aperta immediatamente e l’ambasciatore ne fu assai felice. Da allora in avanti non ho smesso di chiedermi se Verdi, Donizetti, Puccini, Bellini o Leoncavallo avrebbero mai avuto altrettanto successo se le loro arie fossero state scritte, che so, in norvegese o in lituano anziché in italiano».
La domanda che si pone il prof. Masi è legittima, perché il canto non si adatta alle consonanti senza vocali, e le lingue che ci attorniano, quali il polacco, il tedesco ecc. sono strapiene di suoni impossibili perché consonantici. Vocale e voce sono della stessa radice. E l’Italiano è l’unica lingua al mondo che si legge come si scrive, ricca di suoni, perché articolata nelle vocali con poche, necessarie consonanti, mai poste alla fine, se non derivanti da altre parlate extranazionali o per motivi spesso di metrica (son, fan) e talvolta, raramente, di eufonia grammaticale (non, ed, o nel caso di una preposizione articolata come al, nel, col etc.). Eppure, la nostra feroce e ingiustificata antipatia per tutto ciò che di bello possediamo, ha lasciato all’Austria la dicitura “Patria della musica”, e sta portando fra noi forestierismi linguistici che male si adattano alla struttura musicale della nostra frase. Quello che è peggio, è che i forestierismi vengono accolti non italianizzati, come è accaduto per i termini basilico, sapone, albicocca, guerra etc., ma rimangono nella pronuncia originaria, formando nella nostra parlata un misto comico, ridicolo, di italiano-inglese-americano-francese ecc. L’inglese la fa da padrone, tant’è vero che molte spiegazioni riguardanti l’uso di tecnologie recenti, sono in quella sola lingua. Non basta: i nostri diffusori dell’italiano fra la massa, cioè i mass-media (che si pronuncia media e non midia, in quanto di origine latina e non anglosassone), stanno facendo l’impossibile per impoverire il nostro idioma, per alterarlo, per toglierlo dalle regole grammaticali e sintattiche. Infatti, il congiuntivo è uno sconosciuto, la consecutio temporum è andata a buttarsi nell’immondizia, gli articoli sono deformati (“il” diventa “illa”, “del” diviene “della”, “al” si trasforma in “la” o “alla”: esempio? Telegiornale: Illa presidente del… E adesso passiamo alla calcio… Un vezzo che sembra non dispiacere né agli utenti né ai mezzibusti). A completare l’opera di demolizione della nostra lingua, c’è il cifrario del telefonino e la fine del latino, lingua-madre che i paesi viciniori e l’Africa stessa conoscono meglio di noi. Ma da cosa dipende tutto ciò? Cosa significa che la lingua italiana, altamente portatrice di valori artistici, musicali, culturali e storici, non sia presa in considerazione nel Contesto Europeo? Da noi si stanno aprendo scuole per imparare il cinese, il romeno, l’arabo, il russo ecc., ma il nostro idioma meraviglioso chi lo studia più? Forse i giovani, qualche onorevole, qualche personaggio influente, non sanno che prima dell’unità politica d’Italia c’è stato bisogno dell’unità linguistica (Manzoni e Leopardi), e che la civiltà di un popolo parte e si corona nella lingua (Roma e il latino universale). Se una nazione vuole disporsi a farsi conquistare (non con le armi, ma col pensiero e la forza di altre culture), deve cominciare col rinunciare alla propria lingua: cosa che noi stiamo facendo benissimo!

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