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Solitudini inconfessabili

Marzo 11
16:06 2007

Donne e bambini al macero, dissacrati, gettati come carta straccia senza provare un fremito di vergogna. Gli accadimenti tragici di Erba rappresentano i pensieri nascosti, quelli che non si dicono, disegnano i comportamenti rivestiti di indifferenza e imbellettati di rigetti, e quatti quatti gli impulsi sono poi mostrati senza badare troppo al sottile, in una autocelebrazione dell’infamia senza eguali. Nel sangue innocente che ci sbatte addosso, viene da pensare che stiamo attraversando la fine dei giorni dedicati alla vita. In questo disperante vagabondare tra impossibile e già accaduto, ho ricordato un altro uomo vestito di nero, il peggiore degli assassini, che mi ha raccontato lo sfinimento degli uomini, svelandomi l’insignificanza della vita umana, tutta dentro al proprio delirio di onnipotenza. Lui conosce bene il freddo di una lama, la premeditazione di uno sparo, il dolore, la tragedia, conosce a fondo l’indicibile, ciò che sta sottotraccia, e non si vede, ma c’è. L’ho incontrato in questi giorni con ancora negli occhi il rumore sordo del massacro di Erba, mi ha guardato con gli occhi bassi di chi non riesce a spiegarsi quell’odio che nasce e si culla, imperterrito, nella mancanza di elaborazione dell’ira, perché davvero non esiste vendetta che possa nutrirsi con gli occhi sfiniti di un bambino. Quanto accaduto in quel cortile sconosciuto, non ha orme di follie ereditate, neppure strappi alla conformità che dà sonnolenza, e perciò spaventa, in quella carneficina c’è la spinta a metterci di fronte alla nostra diffidenza nei riguardi di chi non ci è prossimo, perché diverso, magari per il colore della pelle. Nessuno vede e nessuno sente nulla, questo accade quando il cuore è preso a prestito dalla fatica a sopportare “chi e che cosa”, allora ci sentiamo presi dentro a una inondazione anomala, quale parte di una umanità lontana, ma improvvisamente presente, come un corpo a corpo a sbarrarci il passo. Si, io conosco il peggiore degli uomini, mi ha raccontato il rumore del taglio, il fragore dello sparo, lo scavo di ogni lamento, e l’insopportabilità delle preghiere. Infine mi ha raccontato che non è la pistola a fare di un rapinatore un uomo. Mi chiedo quale personalità, quale coscienza, albergano in quei due armati di coltello e spranga, entrambi protesi a rubare vite non ancora sedimentate. Quanta rabbia incontenibile in quelle dita strette a pugno, rabbia sottopelle, rabbia ben nascosta alla superficie, rabbia nella malattia dei deserti, che striscia dalle periferie esistenziali delle solitudini inconfessabili, rabbia disposta a misura, più in là del desiderio di un bimbo che non arriva, assai più in là, tra gli iracondi ossessionati dalle proprie rese alle diversità all’intorno, intenti a creare l’appagamento ingannevole della morte.

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