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Tempo di abbracciare

Tempo di abbracciare
Febbraio 04
20:03 2020

Tempo di abbracciare*

(Maria Lanciotti) ‒ Ogni cosa ha la sua stagione, e ogni azione sotto il cielo ha il ‘suo’ tempo.

C’incontrammo per la prima volta a settembre, quando il viale dei platani iniziava a ingiallire prima di spogliarsi.

Io avevo undici anni, i capelli arruffati e le lentiggini e i denti a seghetta, una cartella nuova di cuoio e le scarpe troppo grandi per i miei piedi.

Tu avevi dodici anni, il ciuffo dei capelli neri che ti ricadeva sugli occhi neri nella faccia bianca, i libri tenuti insieme con un elastico e una bicicletta da uomo.

Entrammo insieme nel portone della scuola e fu come infilarsi in un tunnel senza uscita.

Non una parola tra noi. Nemmeno un cenno. Solo sguardi di sfuggita, e tu che mi stavi alle spalle, nell’aula con i soffitti altissimi e i finestroni che la inondavano di luce, avevi sempre le mani nascoste sotto il banco, mentre mi bucavi la nuca col tuo sguardo bruciante che si scioglieva d’un tratto in un lungo battito di ciglia.

Vi è tempo di nascere, e tempo di morire; tempo di piantare, e tempo di divellere ciò che si è piantato;

Era un sentimento tenero e dolce come un cucciolo, ma tu ne avesti paura come fosse un molosso da ridurre in catene.

Non mi circondava più quel tuo sguardo umido e invaghito e spaventato, e le tue mani le tenevi allo scoperto, strette al banco, mentre fissavi oltre la mia testa la parete imbiancata come a volerla sbriciolare e sparire aldilà.

Uscivamo insieme dal portone della scuola, e ci perdevamo nei vicoli intorno alla piazza del mercato, ognuno per sé, per poi trovarci faccia a faccia e fingere di non conoscerci.

Il terreno era fertile ma noi lo percorrevamo come fosse un deserto. Ognuno incolpando l’altro per la propria sete, per la tempesta di allucinati pensieri che si rincorrevano come una frana di sassi.

Tempo di uccidere, e tempo di sanare; tempo di distruggere, e tempo di edificare;

Avresti voluto farmi a pezzi, quando il mio richiamo ti giunse con l’odore irresistibile dell’adolescenza. Avresti voluto attorcigliarti a me e strangolarmi, e mangiarmi e bere in comunione assoluta. Ma il fuoco ti fermò, il fuoco ti allontanò, il fuoco che divampava per suo stesso furore e che tu avevi appiccato.

E ti murasti vivo per non sentire il mio forte sentire, ti uccidesti amore mio pur di uccidere me.

Tempo di piagnere, e tempo di ridere; tempo di far cordoglio, e tempo di saltare;

Un giorno smisi di piangere e cominciai a ridere di te. Il riso mi usciva a singhiozzi e si riversava sul tuo nome e sulle tue fattezze con un suono di cristallo infranto che ti sbatacchiava l’anima nel pensare a lei, un canestro di frutti selvatici che mai avevi assaporato. Il riso mi usciva festosamente rabbioso come campane stonate e ti riportava al tempo di quella primavera che era tutta una promessa e lasciammo sfiorire senza cogliere nemmeno un ciuffo d’erba. Il riso mi usciva cupo come un rintocco a morte ricordandoci il valore del tempo e quanto ne fosse andato sprecato.

Ora che il mio corpo e il tuo corpo hanno perduto lo splendore e il vigore della giovinezza, ora che non saprebbero più saltare avvinghiati nella voragine del dono e dell’abbandono dove tutto si fonde e rifonda, inizia il lancio della moneta a due facce: sempre perdenti sempre vincenti.

Tempo di spargere le pietre, e tempo di raccorle*; tempo di abbracciare, e tempo di allontanarsi dagli abbracciamenti;

Non ho più sassi da lanciarti contro, amore mio. Sono stanca di raccogliere pietre. Le pietre del tuo silenzio, della mia muta rivalsa.

Sono e resto al tuo fianco nel custodire questo amore senza principio, di cui non temere la fine.

* dall’Ecclesiaste

immagine dell’autrice: «una lucina in fondo al tunnel»

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