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“Tempo senza scelte”

“Tempo senza scelte”
Aprile 20
16:14 2017

Non è agevole recensire in poco spazio un libro così denso e già sintetico per una forza centripeta di scrittura – a dire il vero, rara. Mi riferisco a Tempo senza scelte (Paolo Di Paolo, editore Einaudi, pagg. 112, E. 12, anno 2016).

È un testo di “pensiero che fa pensare” (non è un gioco di parole, né una dittologia sinonimica, in quanto non pochi libri di disegno teorico bloccano proprio il meccanismo del cogitare, sia perché offrono certezze e consolazioni – e quindi non danno alternative –, sia perché non c’è il pensiero in sé, che è esperienza dolorosa nostra e di altri – e Di Paolo corre sul filo di riflessioni multiple, offerte da autori di varie nazioni e tempi inserendo le sue personali intuizioni e deduzioni, anzi: usando i risultati altrui per continuare o collidere, per portare esempi o affilare le armi, come in certi capitoli d’una attualità sconcertante e innegabile). È un itinerarium mentis et cordis in hominem, ma su piani antitetici nell’immensa problematica esistenziale dell’io e del noi (e della Storia). Tutto è antifrastico e tutto è in litote: in questo trovo il primo punto dell’esame ‘sereno e accorato’ di un giovane che può avere cent’anni.

L’incipit è disarmante: ti spinge a continuare, specie se hai i miei anni essendo nato prima del secondo conflitto mondiale. «Il mio tempo non mi ha messo alle strette. Non mi ha messo alla prova. In queste latitudini… non sono mai incappato in bivi netti. Le domande radicali non tramontano – e tuttavia questo tempo, qui almeno, non costringe a rispondere. Non pretende i sì e i no, lascia quasi intero il campo ai forse… La scelta, il più delle volte, è stata un’opzione… Invece, le storie di chi stava alle spalle venivano dal cuore di un secolo burrascoso. Il tempo delle scelte, lì, era dettato da un orologio della Storia pressante, impazzito»: questa una sorta di premessa, alla quale va aggiunta un’altra riflessione determinante per il prosieguo del discorso: «Non li abbiamo interrogati abbastanza, questi reduci di vite non scelte, non fino in fondo… Libertà della scelta, la loro, o piuttosto scelta senza libertà?»

Da qui si snoda, in modo lapidario e tagliente, l’itinerario vibrante e partecipato dell’autore, non necessariamente sulle conclusioni di altri autori conclamati dal canone della fama (né li citerò tutti, perché da sola, tale azione, riempirebbe le pagine che mi sono state imposte, ma avverto i lettori che quelle del Di Paolo non sono semplici citazioni di uno che ha camminato per i sentieri reconditi delle significazioni “non dette direttamente”, bensì compartecipazioni, alleanze nella sostanza, exempla da auctoritates conclamate, ma usate talvolta come un motorino di accensione di una macchina da corsa che procede da sola su strade tuttavia impervie, le quali rischiano di far sbandare alle curve strette il lettore disattento, colui il quale non vuole per principio rileggere e sottolineare, e comunque mettersi in posizione di attesa del seguito, della conclusione, che c’è – e come!).

Il coraggio, la viltà, il tradimento, il bene, il male: ma a chi spetta l’ultima parola? È su questa lotta, la quale richiede un suo particolare eroismo, che Di Paolo gioca le sue carte, con destrezza innegabile, ma pure con una continua revisione delle certezze che sembrano cadere sul tappeto verde: qui sta la forza di questo libro originale e ‘captivo’.

Ci sono stati uomini (come Gobetti e Renato Serra) che sono stati ‘condannati alla giovinezza’, dalla quale non sono usciti con l’età matura o la senescenza. Eppure sono riusciti ‘a nascere alla vita morale’: condizione, questa, che obbligherebbe oggi – nell’indifferenza al bene e al male – a una scelta, sebbene si sappia che molte cose non dipendono da noi e ci vengono imposte dal misterioso potere nascosto (‘brutto’ per Leopardi, fatale per i Greci, casuale per i moderni) da cui siamo dominati. Ma è tempo di scelte, come sottolinea il titolo, dove, per paura della retorica positiva abbiamo abbondato in retorica negativa, per cui la nostra è una corsa ad essere sempre peggiori, senza più farci caso, senza più sentirci colpevoli. È un dramma a sé, su cui non si riflette abbastanza. Ma procediamo con ordine, affiancando l’autore nel discorso assai complesso (sebbene chiaro nell’esposizione e fruibile come un racconto vivacissimo: d’altronde, chi era quel grande che diceva: «Ciò che non è chiaro, non vale la pena di essere chiarito»? E l’altro: «Chi ha qualcosa da dire, ha tutto l’interesse di farsi capire»?), collegato con nodi gordiani a conclusioni di Maestri a cui Di Paolo si rifà, ma – lo ripeto – in una sorta di osmosi continua dove spesso il Nostro si fonde con la Storia, vi lievita, o vi si distacca con guizzi immediati, che poi conducono, alla fine, a una conclusione che dà la dritta per il nostro tempo, riaffermando tuttavia il diritto altrui alla negazione e all’incertezza (purché i dubbi siano fecondi!).

Dalle Lezioni americane di Calvino all’esame del personaggio di Melville, Bartebly (il cui antidoto alla vita annullante è dato dalla risposta: “Avrei preferenza di no” – cosa che ricorda “Il treno ha fischiato” di Pirandello e, secondo me, la ricostruzione in negativo del mondo di Kafka, ma i due sono venuti dopo il grande e sfortunato scrittore americano); da Shakespeare a Kierkegaard (filosofo molto amato da Di Paolo) a Garcia Lorca (visto nell’emblema dell’afferrare l’anima intraducibile delle cose), è una continua proposizione di idee, in principio soprattutto sul problema dell’eroismo se oggi sia o no ancora praticabile. Tremenda è la frase ‘bi-sintagmatica’: «Hanno talvolta scosso letteralmente il mondo, ma non sono riusciti a cambiarlo» (teniamo a mente tale affermazione, che potrebbe portarci fuori strada se non giungessimo alla travagliata conclusione di questo autore in cui diviene illuminante – e per fortuna – l’ottimismo della volontà pur non potendo eludere il pessimismo della ragione).

Come dice Hannah Arendt, ci troviamo nel mezzo di un vero campo di rovine. Ma proprio per questo bisogna avere ‘gli occhi aperti’: scegliere. E il rifiuto all’adesione che porta alla rovina è già una scelta coraggiosa, pure se parte dalla negazione. Ci sono dei ‘no’ che valgono più dei ‘sì’: e le dittature insegnano, quelle dittature che non amano gli intellettuali liberi perché sono la coscienza del mondo. Mutatis mutandis, poiché la storia si ripete e l’uomo nel profondo non cambia, il mio pensiero – di cui mi assumo intera la responsabilità – mi porta a spostarmi al tempo del post Concilio Tridentino, addentellato dell’età moderna coi suoi divieti e l’Indice (se non di peggio, se pensiamo al povero e grande Giordano Bruno e poi a Galileo etc.). Dove voglio arrivare? Al disimpegno, quello che oggi determina la vita di quasi tutti gli intellettuali. Allora, ci si buttò sull’anonimo campo dell’amore e dell’auretta gentile che sull’erbetta etc; ora tutto è sfumature di grigio, colpi di spazzola, segugi del cuore, figli mai nati, coprolalie: purché non si prenda posizione. Non per nulla, Di Paolo cita accoppiati Dante e Belli (finalmente ci si accorge che il gergo e la sovralingua nazionale non possono determinare da soli la forza del poeta!), i quali – come Foscolo Parini Alfieri Leopardi – non ebbero paura e scrissero stando contro il potere, alcuni con la sprezzante condanna dichiarata, altri con la epica ‘fotografia’ della plebe e dei poveri in canna. E non può mancare Pasolini, una coscienza di cui oggi siamo orfani: «Io so ma non ho le prove. Io so perché sono uno scrittore».

Dovunque ci sia una voce che si alzi sulla vergogna, e magari paghi da sola il coraggio dell’impossibilità del gesto eroico, lì c’è la speranza, forse inutile al momento dell’immobilità storica, ma doverosa, perché (lo lessi su un libro noto) se gli idealisti sbattono la testa al muro e perdono nella cronaca, danno un senso alla Storia.

Di questa intesa mi sembra Di Paolo, quando appunto specifica a voce piena: «Il Paese di Dante e di Belli è diventato allergico alle invettive. Le accetta solo se hanno valore retroattivo». Ma le stroncature e ‘le parole che sono pietre’ non hanno spazio su alcun organo di stampa, tanto meno in televisione, dove ci sono temi-tabù che non importano agli attori, i quali sanno dove prendere quattro paghe per il lesso, ma penalizzano gli intelletti pensanti (anche gli scrittori, sempre che pensino…); i Chiabrera e i Marino si sono tramutati in pornografi o mezzibusti innocui. Al margine chi ha da dire qualcosa, magari frustando. Di Paolo conia frasi da tenere a mente: «Se gli scrittori sono stati marginalizzati sulla scena pubblica, un po’ l’hanno voluto. Cercando di competere con Crozza o con Spinoza.it, piantati su un terreno che non è il loro, temendo di apparire pesanti, hanno annegato nel cazzeggio qualunque spessore». Ma – mi sento di dirlo – il popolo italiano o si disimpegna o si mette dalla parte del vincitore: nel dopoguerra, sia i veri antifascisti che i pentiti finirono tutti nel mucchio, perché l’Italia ha un grande cuore e dimentica: forse anche per questo l’eroe sta scomparendo in ogni campo. Ma la riflessione è mia e passo oltre.

Tuttavia, collimando con Orwell e Camus, a quanto detto l’alternativa c’è, poiché un intellettuale può ancora lavorare per il presente del noi e non solo dell’io, e questo se alimenta dubbi e non certezze, le quali sono sempre pericolose in quanto portano al fanatismo (Bobbio dice: «Detesto i fanatici con tutta l’anima»). Oggi specie vediamo i frutti che producono le ‘verità assolute’, ma ogni periodo ha avuto le sue, con danno di tutti!

Il sesto capitolo del libro in esame (Tempo senza scelte), è antifrastico al titolo e quindi lo spiega per contrasto: è senza scelte non per l’autore, ma per la situazione generale che non ne offre. Però il capitolo afferma: «Certo che ne hai». E la scelta sta soprattutto – se non solo – davanti all’insensatezza del male, il quale male sparge la paura e questa paralizza l’individuo e le masse (non per niente le dittature si reggono sul terrore).

«Il ventunesimo secolo, inaugurato retoricamente nel segno della pace e della non violenza, ha scosso le apparenti sicurezze dell’Occidente una mattina di fine estate, settembre 2001», scrive Di Paolo, e c’è da aggiungere che tale clima da incubo permane sparso in punti imprevedibili, seminando il panico generale, poiché l’imprevedibile piomba prima nelle anime e poi nella realtà. Instabilità emotiva del mondo di fronte al pericolo oscuro comune. Se è vero che non c’è epoca al riparo, la presente e viva e il suon di lei (per fare il verso a Leopardi) è la più esposta.

Si ha paura di molte cose che non possiamo controllare, né prevedere. Allora ecco la preoccupazione per le scelte che ci aspettano e per quelle che non possiamo determinare con la nostra volontà: il bivio a un certo momento diventa un multiplo di strade possibili, di fronte a cui l’uomo si smarrisce. Scegliere a caso e poi pagare come se fosse colpa nostra l’eventuale errore? È vero che tante vie allargano il campo delle opzioni, ma aprono il prisma delle possibilità incontrollabili e cancellano eventuali coerenze, fedi radicali, certezze incrollabili. Allora? Se manca una bussola nel mare cupo d’una notte senza luna, ci si deve abbandonare al caso? O forse non è proprio questo il momento e la situazione in cui una decisione acquista tratti irreversibili?

«La fine delle ideologie, le macerie di antichi muri e steccati, la crisi anche benefica di valori che parevano non negoziabili lasciano un senso di assoluta precarietà, di perdita complessiva di controllo, di panico, che spinge verso la chiusura e l’egoismo». Ecco il momento di lasciare i sogni e di stare svegli, come l’estote parati di evangelica memoria, ma una memoria laica che si è tolta l’ipoteca clericale e marxista. Una nuova via negli incroci dedalici del futuro prossimo? Forse sì: non si tratta più di essere contro qualcosa, o a favore, attenzione, ma per qualcosa, il che è assai diverso nella sostanza. Allora riaffiora la necessità degli ideali. Certo, magari di quelli destinati – nella cronaca breve di una vita – al fallimento, ma se vediamo l’uomo sub specie aeternitatis, dobbiamo proiettare questo ‘per qualcosa’ nelle grandi sublimi sconfitte (credo di interpretare il pensiero dell’autore) che hanno fatto la Storia, come il fallimento d’un profeta disarmato (Gesù) che ha dato vita alla più alta religione dell’uomo; come la fine d’un vecchio d’Atene accusato di traviare la gioventù e quindi condannato a bere la cicuta (e da lui – Socrate – è nata la filosofia morale); come l’abiura imposta a colui che «vide / sotto l’etereo padiglion rotarsi / più mondi e il sole irradiarli immoto», Galilei, padre della scienza moderna.

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