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“Uguaglianza” – quindicesimo meeting di Emergency a Firenze

Novembre 09
23:00 2009

Intervista di Diego Cugia a Gino Strada

 

Diego Cugia ha presentato il XV meeting nazionale di Emergency che si è tenuto al Mandela Forum di Firenze e Firenze Fiera. Meeting che, come tutti gli altri anni, serve ai volontari per confrontarsi e stabilire modalità di azione e che quest’anno si colora di un saluto particolare a Teresa Sarti, presidente di Emergency, con un concerto che ha visto alternarsi sul palco da musicisti di fama mondiale, da sempre amici di Emergency, come Patty Smith, Fiorella Mannoia, Paola Turci, Piero Pelù, Banda Osiris, La casa nel vento, Jovanotti, ad attori come il grande Marco Paolini, Paolo Hendel, Antonio Cornacchione, Andrea Brambilla…il meeting è iniziato l’otto settembre e si è concluso il tredici.

Diego Cugia dice di sentirsi onorato di essere al Mandela Forum a festeggiare i 15 anni “di una ragazzina di nome Emergency”. Apre la sua presentazione con un verso di Paul Eluard che da ragazzino amava molto: “Tutta l’inquietudine del mondo è il mio cuore addosso come una bestia nuda” e prosegue pensando alla grande cuore di Emergency che ha alleviato per 15 anni il dolore del mondo: “gesto meraviglioso che è una carezza alle ferite della terra”. Ricorda che questo è stato possibile grazie a tutti i volontari, per questo anche se in molti proviamo vergogna di essere italiani finché questa “ragazza” è viva possiamo essere orgogliosi di lei e forse del nostro paese. Quando nomina Teresa gli uditori si alzano in piedi e applaudono per qualche minuto, Cugia deve fermarli per continuare.

Prima di proseguire la presentazione con l’intervista a Gino Strada Diego Cugia legge un estratto del libro di Gino Strada “Pappagalli Verdi” spietato e semplice:

 

A Sarajevo la chiamano ‘The sniper’s road’: la strada dei cecchini. La si deve percorrere per raggiungere l’ospedale, lo stesso dove vengono portate, il più delle volte inutilmente, le vittime di guerra. L’ultimo arrivato un bimbo biondo, pallottola in fronte presa mentre stava giocando sulla neve su di una slitta improvvisata. Strillava di allegria. Un colpo e il bimbo è morto.
In guerra si uccide perché la si fa contro qualcuno, ma quella del cecchino è una guerra strana… il suo lavoro, terribile, non produce centinaia di vittime. La sua arma è semplice: un fucile di precisione… un fucile, un colpo, un morto.
C’è qualcosa nella guerra del cecchino che fa orrore più delle bombe: attraverso il binocolo del fucile il bambino lo si può vedere grande, grande come se fosse lì accanto. Lo si può vedere giocare, ridere. Il nemico è lui. Anche se la sua sola arma è quel pezzo di legno che usa come slitta.
In inglese ‘The snip’ è la beccaccia e il verbo ‘To snip’ vuol dire: sparare da una posizione nascosta, come si fa con le beccacce. Ma come fai a sparare se la beccaccia ti sorride. (Ma pure se non ti sorride!).
Un cecchino si Sarajevo si lascia intervistare in una stanza quasi buia. Mi sembra incredibile… è una donna. -Perché spara a un bimbo di 6 anni?- Le chiedo. -Tra venti anni ne avrebbe avuti 26- è la risposta. L’intervista finisce qui. Non c’è altra domanda possibile. Ecco, questo è il mondo di oggi. Noi non siamo cecchini ma, come ammoniva De André, siamo lo stesso coinvolti.

 

Emergency è laggiù, ad un chilometro, dove cominciano le beccacce che uccidono. C’è un uomo nell’ospedale che spera che il becchino non faccia centro e sbagli di mira quel tanto che consenta al bambino di essere curato. Si chiama Gino Strada ed è il padre della ragazzina che compie 15 anni.

Diego intervista Gino che subito dice: “Siamo qui per Teresa al Mandela Forum.

Diego Cugia fa la sua prima domanda a Gino cominciando proprio da lui. Da Gino Strada bambino che sognava di fare il musicista e lo scrittore. Amava i Pink Floyd. Poi ha scritto un paio di best seller. È diventato chirurgo di guerra. In parte dovuto forse al padre operaio che aggiustava tutto… “Lui aggiustava cose, tu aggiusti piccoli corpi. Quanto è vivo tuo padre dentro di te? Ti sta accanto nella sala operatoria? Ripara piccole vite insieme a te?” chiede Diego Cugia.

 

Gino Strada: “In qualche modo sì. Mio padre era un operaio. Una persona per bene di quelle che hanno fatto sacrifici per mandare i figli all’università. Anche se lui non ha fatto in tempo a vedermi all’università. E’ morto prima. Di quelli che era capace di trasmettere valori senza fare prediche e ideologie. Il valore della lealtà verso il prossimo. Siamo tutti un po’ intelligenti e un po’no ma siamo noi.”


Poi Diego passa a parlare di altri padri… i rappresentanti di armi, i chimici, gli ingegneri etc che accompagnano i figli a scuola. Poi vanno in ufficio e si buttano a capofitto nel lavoro e: ‘Idea…e se facessi una mina a forma di pappagallo verde…un bimbo la raccoglie e ci gioca, poi boom! No, non basta. Ideona… non deve esplodere subito ma con calma. Ci deve essere una piccola ressa, i bimbi se lo passano di mano in mano…sì, ma come? Idea…accumulo successivo di pressione. Solo dopo che i bambini se lo sono passato di mano in mano il pappagallino fa una strage. Trovato, figo. Magari mi danno un aumento e centinaia di operai realizzeranno migliaia di pappagallini e torneranno a casa e porteranno i bambini in pizzeria a festeggiare l’aumento…‘. “Gino che cosa è che rende l’uomo un mostro?

 

Gino Strada: “Quei padri siamo noi. Siamo tutti coinvolti. Ho sempre trovato l’idea delle mine antiuomo, in particolare dei pappagalli verdi, oscena…“. Gino racconta un episodio di quando la versione inglese del suo libro viene bloccata per alcuni mesi all’aeroporto e non sono arrivate a destinazione le casse coi libri. Non si è trattato di censura ma gli ufficiali di dogana, vedendo sopra i cartoni la scritta ‘Green Parrot’ pensavano che ci fossero davvero pappagalli e hanno rimandato alla sezione di zootecnia le scatole! “C’è una domanda che ti si ributta dentro… – continua Gino – Come fai a progettare una cosa che distrugge la vita di un bambino. La trovo una follia assoluta. Eppure noi le digeriamo queste follie.” Racconta di quando Emergency iniziò la battaglia per la messa al bando di mine antiuomo. Andarono a parlare con le organizzazioni sindacali di fabbriche in Italia dove si costruivano mine antiuomo. Venne detto loro che in linea di principio erano d’accordo ma il primo punto importante per loro era che non si dovevano perdere i posti di lavoro. A quel punto Gino rispose che potevano fare una battaglia alla condizione che si deve smettere di fare mine antiuomo; la difesa dell’occupazione deve essere al secondo punto non al primo, altrimenti sarebbero stati su sponde diverse. A livello sindacale si accettava che industrie del gruppo della Fiat facessero gli straordinari: giù gli stampi della Tipo, su gli stampi delle mine antiuomo, si lavora il sabato e la domenica etc “Questo succede in mezzo a noi e fa orrore” dice Gino. In Afghanistan non ci vado da molto perché negli ultimi anni sono stato molto vicino a Teresa, ma son sicuro che appena tornerò mi verranno i conati di vomito quando curerò i feriti da mine antiuomo. È un senso di nausea che ho sempre davanti a ferite di quel tipo perché è una macelleria gratuita, la cosa più disumana che abbia mai visto in vita mia.

 

Diego Cugia: “I regimi non tollerano le epidemie come se le epidemie fossero partigiane, le malattie rivoluzionarie. Forse perché l’epidemia denuncia che qualcosa non va nel corpo dello stato. Così Saddam negava che ci fosse il colera in Iraq. In questo caso si dice… meglio non creare allarmismi. Ma come è possibile che, secondo le misure anticolera dell’Onu, si venga consigliato di bere almeno due lattine di birra al giorno!

 

Gino: “Sì, l’ho trovato assurdo che venga consigliato in un paese musulmano in cui non si può bere alcool una cosa del genere, ma questo fa parte della loro sensibilità culturale. Ne abbiamo viste di tutte su questo fronte, perfino delle cose grottesche: venivano paracadutate derrate di scarpe col tacco sulle montagne dell’Iran. C’era giù mediamente 5 metri di neve…o le pillole per anoressia in Somalia durante la grande fame: non hai da mangiare e ti tolgo la fame.

 

Diego passa a parlare poi di Emergency che ha sempre ha sempre operato in zone di guerra perché ormai la guerra non è tra soldati ma fa strage di civili: per 1 soldato ucciso 9 civili falcidiati dalle bombe “più ignoranti” altro che intelligenti! Eppure, proprio quando c’è più bisogno di loro, le organizzazioni internazionali umanitarie evacuano il loro personale. Emergency allora è costretta ad entrare clandestinamente… “Perché quella volta che la croce rossa aveva un volo vuoto non vi fece salire a bordo?

 

Gino risponde che lo sconvolgente è che non sa ancora il perché! Era pochi giorni dopo l’11 settembre, nessuno poteva volare se non appunto le Nazioni Unite e la Croce Rossa Internazionale. Nessuno poteva varcare i confini che erano tutti chiusi. L’unica alternativa quindi per quelli di Emergency che erano in Pakistan (gli ospedali dell’associazione intanto stavano funzionando in Afghanistan però avevano bisogno di rinforzi) era quella di andare a cavallo per il Kush, 5mila metri, paesaggio stupendo. Per cui quando Gino aveva saputo dell’aereo che va a Kabul da Peshaua aveva pensato che avrebbe potuto portare gli ultimi di Emergency, solo andata, da Peshaua a Kabul. Non si sa ancora il motivo del rifiuto…

 

Diego: “Forse perché denunciavate apertamente che si poteva stare in un luogo di guerra a fare il proprio mestiere.

 

Gino: “Io credo che in un luogo di guerra te ne devi andare se la situazione diventa insostenibile rispetto al tuo lavoro. Ma non puoi andartene pensando sta vincendo questa parte o quell’altra. Se lo fai vuol dire che ti sei scelto degli amici e creato dei nemici e allora decidi di andar via perché ti senti a rischio. Noi perché avremo dovuto lasciare Kabul? Noi abbiamo continuato. Il nostro ospedale era aperto nella Kabul talebana, ha continuato a curare tutti quelli che si presentavano al cancello senza fare la domanda dei politici – Sei un talebano? -, abbiamo così potuto far lavorare afghani; il quaranta per cento del nostro personale afghano erano donne. Nella Kabul talebana abbiamo imposto la condizione, con qualche fatica, che potessero essere curati tutti senza distinzione e l’abbiamo ottenuta. Quando è capitato di avere feriti guerriglieri dall’altra parte abbiamo provveduto perché le ambulanze li riportassero di là mentre erano addormentati.

 

Diego fa l’ultima domanda a Gino Strada. “Liberté, egalité, fraternité. Tre parole che tre secoli fa avrebbero rivoluzionato il mondo. Libertà e fraternità insomma ma la parola uguaglianza è più difficile da digerire…tu mi parlavi di un ospedale in Africa costruito attraverso la beneficenza, di cui la sala operatoria aveva la porta aperta sul giardino. La sottosegretaria, la politica di turno, nel giardino, risponde alla domanda sulla stranezza di una sala operatoria che dava sul giardino dicendo – Questa è l’Africa -. Possibile che neanche un malato in punto di morte sia uguale all’altro?

 

Gino: “Belle parole quelle…l’ultima volta che le ho viste scritte era nei bagni dietro il museo di Oslo, non so se per simboleggiare dove sono andate a finire… L’uguaglianza, l’elemento chiave, è la domanda che non ci si vuole mai porre. Dire – Tu hai diritto ha… – è diverso da dire – tu hai i miei diritti -. E’ una cosa a cui bisogna allenarsi, bisogna allenare il cervello, bisogna allenarlo con la cultura. E credo che, in buona parte, la crisi in Italia dipenda dal fatto che, da circa trent’anni a questa parte, si è pensato che la cultura fossero soldi buttati e non si è più investito. Poi ti ritrovi trent’anni dopo con persone che non riescono ad elaborare pensieri più complessi da quelli fuori de ‘la clava’!

 

Diego: “È proprio la difficoltà di abbinare le emozioni a concetti profondi che fa sì che si rimanga nel superficiale… ed ecco che, come dici tu, viene fuori la clava, l’aggressività, la discriminazione. Dall’ignoranza viene la disuguaglianza.

 

Sabato 12-09-2009
Assemblea plenaria dei volontari

 

Testimonianza di Fatha, migrante africano che una volta venuto in Italia ha trovato lavoro come mediatore linguistico presso l’ospedale di Emergency a Palermo.
Racconta il viaggio che hanno fatto in più di novanta ammassati in una barca, dei quali sono sopravissuti solo in 15. Fatha dice di sentirsi la responsabilità di raccontare quello che è accaduto, una responsabilità verso i suoi compagni che il mare ha inghiottito e che gli hanno urlato prima di sparire nel nulla di raccontare. Fatha a Firenze racconta per un’ora davanti a migliaia di persone quella traversata senza fine… e le lacrime che non mostra diventano le lacrime di un mare che parla a tutti.

Prende la parola Gabriele, giovane giornalista che ci ricorda dei respingimenti avvenuti all’inizio di maggio… Il giorno 7 maggio 2009, 227 persone (40 donne di cui 3 incinte) a bordo di 3 barconi sono state soccorse in zona Sar maltese da motovedette italiane, a 35 miglia marittime dall’isola di Lampedusa. Per quanto è dato sapere, a seguito di accordi con la Libia, i comandanti di alcune navi militari italiane hanno accolto a bordo tutti i migranti per poi riportarli immediatamente in Libia, qui sono stati consegnati alle autorità libiche. L’8 maggio è avvenuto un secondo respingimento dopo che un rimorchiatore italiano in servizio su una piattaforma dell`Eni ha intercettato un barcone con 77 persone e lo ha riportato in Libia. Analoghe operazioni sono state compiute anche nei giorni successivi, come affermato agli organi di stampa dal Ministro dell’interno italiano, il quale, al 10 maggio, indica che sono circa 500 i migranti riconsegnati alla Libia, qualificando gli episodi come “risultato storico”!

Nessuna delle persone trasportate in Libia è stata ufficialmente identificata, né è stata rilevata la nazionalità, la minore età, lo stato di gravidanza delle donne, le condizioni di salute dei migranti, né verificate eventuali richieste di protezione internazionale! Queste azioni oltre ad essere illegali dimostrano un rispetto per la vita degli stranieri uguale a zero. I respingimenti in mare sono illegali perché tra i migranti riportati in Libia vi sono spesso rifugiati che hanno il diritto inviolabile di accedere alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale in Italia. Ancora più grave il respingimento di minori non accompagnati e donne incinte. l’Italia è stata denunciata per questo dall’Ue e dall’Onu.

 

Gabriele ci ricorda questi fatti e noi ci vergogniamo ancora di più di essere italiani. Come giornalista, inoltre, sottolinea l’atteggiamento dei media, nessun tg ha mostrato le immagini dei respingimenti! Solo in una trasmissione di Riccardo Iacona possiamo sentire il racconto di Enrico Dagnino, l’unico testimone che è riuscito a documentare l’accaduto dei respingimenti italiani; uno dei più grandi fotoreporter del mondo che si trovava a Lampedusa per un servizio. Si trovava in mare su una nave della guardia di finanza la “Bovienzo” che il 7 maggio, per la prima volta, anziché riportare i migranti a Lampedusa li ha riconsegnati alle autorità libiche. L’unica rivista in Italia ha pubblicare le immagini di Enrico Dagnino è “Nigrizia”. Le persone che si trovano su la “Bovienzo” prestano soccorso con una bottiglia d’acqua per i 64 uomini e tre per le 12 donne, li fanno salire sulla nave e cercano di fare il possibile per ripararli dal freddo nel viaggio che inizialmente stava portando i migranti a Lampedusa. Poi arriva un nuovo ordine di portarli a Tripoli. “Era da brivido“, racconta Dagnino “perché loro sapevano dove stavano andando mentre i migranti no, anzi erano felici e cominciano a cantare e pregare“. Quando stanno per attraccare i migranti si rendono conto che sono arrivati a Tripoli e non vogliono scendere allora la finanza li prende di forza e li porta giù.

Qui gli africani vengono ammassati in furgoni che sono dei carri bestiame: di metallo rovente con delle feritoie in alto…cinquanta gradi… Ci sono uomini e donne sfiniti che si lasciano trascinare, altri, che hanno ancora forza di gridare che non vogliono restare lì dove sono stati picchiati e le donne violentate. A quel punto la finanza interviene con la forza, senza rispetto per chi cerca in tutti i modi di mostrare la disperazione, c’è chi non vuol tornare perché rischierebbe di morire in mano ai libici. Su una delle due vedette della capitaneria di porto non riescono a farli scendere, salgono e li picchiano con i remi per farli scendere, dice Dagnino che li ha visti con i suoi occhi dalla “Bovienzo”: quando i finanzieri della Bovienzo arrivano per dare una mano ai colleghi in quel momento i libici salgono sulla vedetta e picchiano i migranti che non vogliono scendere con i remi. I finanzieri dicevano che erano sempre più disgustati di questa operazione. (Il ministero degli interni e il capo della finanza intanto avvertono i giornalisti presenti di non fare uscire le immagini per i buoni rapporti tra Italia e Libia). Hanno confiscato tutti i telefonini per non avere testimonianze dell’accaduto. Dagnino ci dice che i finanzieri italiani non hanno chiesto niente ai migranti che erano stati recuperati dal gommone, né il nome né la nazionalità.

 

Dal 5 maggio all’8 settembre 2009 il numero documentato degli emigranti e dei rifugiati respinti dall’Italia verso la Libia è di 1.329 persone. Di questi, 24 richiedenti asilo somali ed eritrei, hanno dato procura all’avvocato Anton Giulio Lana, del foro di Roma, di presentare ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Ma sono centinaia i richiedenti asilo somali e eritrei respinti in Libia, senza accesso a un avvocato e ancora oggi in carcere. Di questi, 73 eritrei sono stati malmenati da ufficiali della Marina militare italiana durante il respingimento del primo luglio 2009. Di quest’ultima vicenda ci parla ancora Gabriele giornalista.


Interviene Gino Strada.

Il tema del trattamento degli stranieri viene ripreso da Gino Strada che fa uno tra i mille esempi che si potrebbero fare…e ricorda di come alla divisione “Grossoni” dell’ospedale di psichiatria di Milano il 75 per cento dei pazienti sono stranieri e subiscono ancora trattamenti non adeguati, vengono legati ai letti, maltrattati.

 

Gino parla anche del piano Maroni… che è una vergogna. Riporta le parole di Maroni; quando sono arrivati i soldi del decreto il ministro ha detto: “…questi soldi non vanno usati nel sociale, è gente che non ha diritto ad esistere“.

 

Gino parla poi di Teresa, la rossa speranza che accende gli animi dei volontari e di chi guarda alla pace come fa Gino, come una “cosa” oggi molto lontana, un’utopia la chiama. Ma utopia non vuol dire fantasia: dal greco ou (non) e topos (luogo), questa parola si traduce letteralmente il non-luogo, un luogo che deve arrivare, e non che non c’è in assoluto. La rossa speranza…e rosso è anche l’albero che è stato piantato per Teresa a Firenze. Un acero. Rosso è il primo colore dell’arcobaleno che i neonati imparano a riconoscere. È il colore del movimento e dell’attività. La luce rossa è infatti quella con un intervallo di lunghezze d’onda più ampio e per tale motivo le sue vibrazioni possono avere un effetto stimolante. (È stato dimostrato che l’esposizione al rosso accelera i battiti cardiaci e stimola la produzione d’adrenalina.) Il rosso è stato abbinato a Marte, il dio della guerra e il pianeta rosso, per la sua natura aggressiva e per la sua associazione al colore del sangue. Il rosso è simbolo del cuore e dell’amore, del dinamismo e della vitalità, della passione e della sensualità, dell’autorità e della fierezza. Nell’arte paleocristiana si dipingevano di rosso gli arcangeli e i serafini. Gino parla di Teresa come la rossa volontaria di Emergency che coinvolgeva…ancora si chiede di come fosse riuscita a crederci…noi la ricordiamo come una madre, che ti abbracciava, che aveva cura dei volontari, una donna dal grande calore, una grande forza e umanità… che aveva ancora in sé la “purezza”, la capacità di potersi sorprendere, come ricorda Vauro con tenerezza, dell’atteggiamento di politici a cui non importa niente del destino di chi li ha votati né tantomeno del loro pensiero. Per Teresa tutti noi ci alziamo e gli applausi scroscianti di una cascata rinfrescano da un senso di tristezza e delusione, per attivarci ancora, per continuare ad essere volontari sotto l’ombra di uno sguardo che si sfoglia rosso. L’acero è un albero forte.

 

E pure chi lotta per piantare una giustizia sulla terra deve essere forte che la guerra, come dice Gino, è prima di tutto nel nostro paese, dove si assiste a una prevaricazione ingiusta del più forte sul più debole, di chi ha potere su chi non ce l’ha. E una guerra che c’è anche nei confronti di chi cerca di lottare per i diritti di tutti. E allora cosa dobbiamo fare?

 

Strada ribadisce la posizione di sempre di Emergency anche se utopica: “Fuori l’Italia dalla guerra!” Per far sì che questo sia realizzabile sono i volontari per primi che devono agire: “I volontari sono la fonte. Bisogna farsi vedere, additare i colpevoli, se comincia: effetto valanga.

 

Poi elenca gli obiettivi di Emergency. Un ospedale o gli ospedali di Emergency in Italia è il prossimo obiettivo che vuole realizzare l’associazione, essendo gli ospedali del nostro paese delle aziende. Si potrebbe ragionare di fare a Milano quello che viene fatto a Palermo con l’ospedale di Emergency.
Altro obiettivo, realizzare un ospedale pediatrico a Palermo come quello di Mayo in Darfur (Sudan).

 

Perché la medicina è un diritto. Questo è il principio su cui si basa Emergency, principio che innalza a sommo valore quello dell’uguaglianza. Per questo prima si è intervenuti portando cure di primo mondo anche in paesi cosiddetti del terzo mondo. (Il programma in Africa portato avanti da Emergency ha riscontrato difficoltà nel momento in cui si doveva dialogare con i politici.) Ma adesso è arrivato il momento dell’Italia: “Non ne posso più di vivere in un paese che pratica difende ed esalta il nazismo. Quella logica è logica di guerra che porta guerra. Non vedo molte sacche di resistenza in questo paese. Credo che una delle poche sia Emergency. La logica della guerra si può chiamare in modi diversi: intolleranza, razzismo…ma è di sicuro l’aver scelto la violenza come modo di rapportarsi ai propri simili. Noi sappiamo come si lavora sotto le bombe, in guerra. In Africa miglioreremo ma adesso l’urgenza è qui. Pensate cosa sarebbe se…

 

Infine Gino parla dell’Afghanistan…di mezzo miliardo di euro spesi quest’anno per l’occupazione in Afghanistan. E di quel movimento per la pace che sembrava avesse preso forza quando era iniziata la guerra in Afghanistan. “Dove è adesso questo movimento? Sarà stata una coincidenza allora tutta quella gente in piazza per la pace? Sarà stata una coincidenza che la rappresentanza politica dei pacifisti vince in quegli anni? E, ancora, sarà una coincidenza che la stessa rappresentanza perda 3 miliardi di voti gli anni successivi?

 

A dar eco a queste parole sono i dati riportati dai giornalisti e medici che scrivono per Peace Reporter.
L’Italia quest’anno sta spendendo più di cinquecento milioni di euro per la missione in Afghanistan di cui 3-4 milioni di euro sono andati a finanziare la missione civile e circa 5 milioni ogni anno vanno a finanziare Prt. Su cinquecento una decina milioni di euro è andata solo per la ricostruzione del settore ovest che equivarrebbe a 65 volte gli interventi di Emergency in Afganistan (65 ospedali, 65 pronto soccorso, etc…)…facciamo un po’ i conti di quanto costerebbe poco la pace…

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