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Ultima sigaretta

Giugno 22
13:54 2011

Il giorno è appena iniziato e io sono già nervoso, stanotte non ho riposato, mi è toccato lavorare con il mio collega, “job sharing” lo chiamano. Praticamente facciamo lo stesso lavoro, lui può fare il mio e io posso fare il suo, siamo intercambiabili. La mansione è esattamente uguale, ma allora mi chiedo perchè non può farlo uno solo dei due? Il guaio è che serviamo sempre entrambi, il nostro contratto non è nemmeno un part-time e la baracca è aperta ventiquattr’ore al giorno, manco fosse un distributore di benzina.
Qui dentro c’è puzza di chiuso.

Vado al bagno a darmi una rinfrescatina e quando mi guardo allo specchio vedo che ho un colorito giallognolo, qualche macchia scura qua e là e faccio pure fatica a respirare. Siccome non posso andare avanti così giuro solennemente davanti a me stesso che andrò a parlare ai pieni alti, lì dove c’è il Presidente che cura i rapporti con gli altri organi e decide a chi dare maggiori o minori responsabilità. Coff.
Non faccio in tempo a spostare la tenda che subito intravedo una fitta nebbia e maledico di essere nato a Milano invece che a Copacabana, Miami o a Bari dove causa vicinanza col mare presumo ci sia una migliore ventilazione e ossigenazione.
Sono il ritratto sputato della mia generazione, costretta a non fermarsi mai per non morire di stenti ma oggi, lo ripeto, arranco. A volte discuto col mio collega, gli dico:
– Ehy, ma perchè non molliamo tutto e ce ne andiamo all’estero, magari lì viviamo meglio? Lui mi guarda desolato, scatarra in cielo, poi risponde:
– Ma dove vuoi che andiamo io e te? Ormai siamo chiusi qua dentro per tutta la vita!
Allora mi convinco che ha ragione, la mobilità nel nostro lavoro ancora non esiste. Per altri che lavorano in questa azienda che va a pezzi è diverso, forse loro possono sperare in un cambiamento improvviso. Un giorno sono qui e quello dopo via, da un’altra parte, in un’azienda più sana. La mansione però no, quella rimane la stessa. Invece il nostro destino è segnato, sappiamo già che ci fermeremo solo quando il Presidente leggerà il bilancio e si prenderà un bello spavento e allora sarà lui il primo ad andare via e tutti noi lo seguiremo come pecorelle smarrite, convinti che non possiamo fare nulla senza il suo accorato supporto. L’alternativa è quella di darci malati, arrenderci a questa nebbia fitta e scura, dare le dimissioni prima della scadenza del contratto ed essere fotografati un’ultima volta e indicati col dito e con disprezzo dal medico di turno che non potrà fare altro che sentenziare che non c’è più nulla da fare.
Sono un precario, embè? Chi non lo è?
Ma adesso basta col pessimismo, per oggi mi sono già lamentato abbastanza e poi ho capito che lamentarsi non serve a niente se il Ced, il Centro di Elaborazioni Dati, non riceve le informazioni riservate che sto cercando di passargli da anni e anni.
Nella prossima vita mi piacerebbe essere qualcun altro; sono disposto anche a essere il polmone di uno scheletro che sta nell’aula di un’Università ma un’altra volta il polmone di un fumatore incallito, vi prego no.

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