Per Saman, per Giulia, e per tutte, in questa primavera ventosa…

Basta guardare un minuto la posta sul telefono, le notizie, per trovare la sentenza di condanna della famiglia di Saman Abbas (è un conforto? No, a me piacerebbe sapere che è ancora viva e non è dovuta tornare a casa a prendere i documenti, ritorno che l’ha condannata a morte); poi arrivano le iniziative della ‘Fondazione Giulia Cecchettin’, voluta dal padre Gino e dalla famiglia: sono iniziative bellissime, ma lo stesso, vorrei con forza che il bel sorriso di Giulia girasse per l’Europa in questa primavera ventosa e luminosa. Accidenti a quei disgraziati che non avendo mai voluto bene a nessuno hanno ucciso le persone che più avrebbero dovuto essergli care, accidenti ai giorni spesi per parlare di questa condizione, ché non si tratta di un ‘problema’ ma di una condizione del femminile quella di poter essere eliminate da un familiare o da qualcuno con cui si sarebbe deciso di condividere un pezzo d’esistenza e questa sequela di femminicidi non finisce. Inoltre ci sono intere civiltà, e ritorni di fiamma anche in quella nostra, che imputano alla donna un potere diabolico per cui va velata, ristretta, nascosta, limitata: persino la bellezza deve insegnarti un uomo a portarla in giro se ritiene che il tuo modo di porti sia da irresponsabile!! Quanta sofferenza mentre ci si chiede quando finirà… Tentiamo, tentiamo solo, di sublimarla con la scrittura: di seguito un mio racconto il cui titolo si rifà alla vicenda storica di Giulia Farnese, nobildonna nata nel Lazio nel 1475 (cui è dedicato) ed al bel sogno che vorrebbe tutte le ragazze e donne uccise perché erano tali, vive e libere assieme a noi; un bel sogno in cui non muore nessuno, soprattutto per mano di chi diceva di ‘amare’. In un momento difficile per il mondo e per le nostre società. Per una prossima Pasqua di fiori e lacrime…di gioia.
Giulia guarda dall’alto
1522 – Giulia guarda dall’alto d’una terrazza del palazzo dove vive, un territorio che le appare incorrotto dai tempi della propria gioventù. Colline dolci, qualche calanco, un corso d’acqua, querce. Sente addosso al corpetto del proprio vestito di seta la presenza calda d’una grande pietra amaranto, colore del sangue rosso bollente, dalla cui montatura in oro non lucidato pende una perla candida, allungata. Prende spesso tra le mani quella pietra, la scalda con le dita affusolate, la preziosa le rende un calore intimo che davvero poche cose le hanno dato nel mondo che ha conosciuto. Quel calore lo riconosce nell’amore e negli abbracci di sua figlia Laura, ma al momento è lontana, e più che figlia le è sorella: è stata la sua prima e ultima, amata e voluta, tenuta lontana per quanto è stato possibile da ogni intrigo e malevolenza. Spostandosi sulla lunghezza della terrazza sulla quale ha fatto trasferire alcuni alberelli di melangolo dalle chiome tondeggianti e dagli splendidi frutti invernali, a Giulia sembra di veder correre Laura fra i viali del giardino come quand’era bambina, ne sente la voce allegra, la risata argentina. Ma Laura non c’è e al momento non farà ritorno. Ora che avrebbe bisogno di lei, del suo abbraccio più vivo d’ogni pelliccia conciata di fino, d’ogni velluto prezioso, più forte di qualunque amica provi a darle sollievo, poiché al rimorso di non aver forse amato quanto avrebbe dovuto… non c’è sollievo. Forse dovrebbe lasciare il palazzo dove si trova e andarsene a Roma da suo fratello Alessandro: lì la vita complicata d’una corte la terrebbe certo più impegnata che qui, dove l’orizzonte che si vede dall’alto, quasi senza confine, la costringe a ricordare…
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1997 – «Laura non c’è, è andata via/Laura non è più cosa mia/e te che sei qua e mi chiedi perché l’amo se niente più mi dà…» Laura si alza dalla sedia scomoda del bar all’aperto, proprio adesso che passavano ‘sta canzone nuova di Nek che non le dispiace per niente, ma deve andare, che fra una settimana c’è un esame e i libri li ha ancora guardati poco e niente, anche se adesso sta leggendo ‘sta storia che la intriga parecchio di Giulia Farnese, giovane e nobile amante d’un papa abbastanza in là con gli anni… È anche per leggere di lei che non sta studiando come dovrebbe. S’aggiusta i jeans stretti passandosi le mani nelle tasche, sotto il maglioncino amaranto, un colore caldo che le è sempre piaciuto, e attraversa la piazza seguendo i suoi pensieri. Martellanti, sempre quelli, dai quali prova a distrarsi. Con Alessandro le cose non vanno più come all’inizio e lei sente il peso d’una relazione che le sembra non abbia più niente d’interessante, nella quale lei non ha più niente da dare. «È troppo più grande di te», le dicevano le amiche, per altro sempre propense a guardare quelli più grandi, ma questo le sarebbe davvero padre se non fosse che con suo padre non ha niente a che fare visto che si presenta sportivo, abbronzato, vestito fico, sempre con mille storie da raccontare. La portava a cena al mare, in una grande villa che s’affacciava sulle dune: accolta come una principessa con lampade da terra e candele accese, la vetrata che dava sulla sabbia soffice e il mare. Le lunghe serate a chiacchierare e scherzare, tra un bicchiere di vino e i sonnellini brevi che seguivano impetuosi momenti d’amore…bah, neanche a ricordarli riusciva più! Una passione assurda per uno carino, grande ma carino, più bello che carino e difficile da inquadrare perciò affascinante, ma adesso, da qualche tempo, pesante. La chiama sempre a casa, i suoi hanno cominciato a guardarla strano, forse perché sentono una voce adulta al telefono, sanno che non si tratta di Davide né di Andrea, le amiche si sono un po’ allontanate ultimamente e i suoi non capiscono di chi si tratti. Lei ha vent’anni, vive per sé ma qualcosa forse dovrebbe raccontare almeno a sua madre, nascondendole, per forza di cose, l’età di Alessandro. Lui, adesso, un po’ la vessa. È sospettoso, l’aspetta davanti l’università dopo la lezione, non l’aveva mai fatto, e poi le chiede conto delle sue giornate e bla bla bla…Lui è sempre bello ma, si chiede, adesso che farà con quell’uomo insoddisfatto che la guarda in modo interrogativo: lei che ha da studiare, vorrebbe girare il mondo, sa di essere bella e giovane e forse… non lo ama.
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Orsino era stato ‘l’amore ragazzo’, quando si rincorrevano per il parco fra gli alberi secolari, liberi, appena impediti dalle ricche mantiglie indossate per le visite importanti. Si erano stati simpatici subito e l’uno intravedeva nell’altro, Orsino negli occhi scuri e gioiosi di Giulia, il modo per allungare la propria gioventù, assieme. Orsino era stato chiamato agli obblighi del suo casato nemmeno diciottenne e Giulia aveva dovuto sottostare alla vicinanza, prima leggiadra e poi sempre più presente, dello spagnolo Rodrigo. Forse per questo suo strano destino, il matrimonio più riuscito non era stato, come lei avrebbe voluto, quello con Orsino, ma quello con Giovanni, perché troppo presto aveva conosciuto le ubbie e i doveri d’una vita fra adulti.
Di Rodrigo le piacevano le feste senza fine che organizzava chiamando cugine e sorelle, cortigiani d’ogni dove, italiani e spagnoli, non lesinando mai su vini e leccornie. I piatti e i calici rilucevano sotto la luce di mille candele, fra drappi di velluti rossi e lei danzava coi più bei cavalieri mai sognati senza che lui la perdesse d’occhio.
Dopo quelle feste, a tarda notte, la faceva chiamare nelle sue stanze vestita solo di chiare sete cangianti e perle, le più perfette sull’incarnato di rosa estiva che possedeva, accanto alle chiome scure e inanellate che le cingevano i fianchi, ed era raro che la lasciasse andare fino al mattino dopo: allora era la sua bella com’era per tutti ‘Giulia la bella’.. Poi, in fondo a quelle notti, lei tornava Giulia, non Giulia Farnese, ma una giovane qualsiasi lasciata sola davanti a macchinazioni più grandi di lei. Qualche volta piangeva singhiozzando forte nel silenzio della stanza le cui grandi finestre affacciavano sulla campagna. Ma poi arrivava un’altra festa, e dimenticava. Coltivava speranze, però. Che non furono vane. Solo con Giovanni, molti anni dopo, aveva conosciuto cosa vuol dire essere la padrona di casa. La mattina, al risveglio, le dame di compagnia le pettinavano i lunghi capelli setosi, li scriminavano in lunghe code di bisso intrecciate di perle, li rendevano docili dentro un’ampia retina d’oro che raccoglieva le code intrecciate fin sulle scapole. Indossava un comodo abito da casa di raso chiaro ornato di pelli morbide e scendeva. Giovanni, intento alla lettura di alcune carte si alzava subito, la salutava amorevolmente con un bacio sulla guancia e prendevano assieme la colazione guardandosi sorridenti. Poi lui la metteva a parte delle novità della giornata o le annunciava che nel pomeriggio avrebbero fatto una passeggiata a cavallo, assieme, nei loro possedimenti, per guardare cosa c’era da fare o solo per godere la luce del sole. Di Orsino, invece, ricordava d’essergli stata troppo lontana per lunghi periodi, di averlo pensato sempre, d’averlo visto morire tenendogli la mano dopo che s’era ferito gravemente per il crollo del tetto d’un’ala del palazzo dove viveva, spesso solo. Questo le impediva di sentirsi peggiore di come, forse, avrebbe dovuto sentirsi: ma se fra loro due c’era stato inganno, lei non ne era stata la sola colpevole. Non certo la principale.
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Laura non fa in tempo ad aprire i libri che squilla il telefono. Per fortuna casa è deserta e si è portata il cordless in stanza, è carico. È Alessandro…guarda un po’. Coda fra le gambe, tante proposte per un prossimo fine settimana insieme. Laura nicchia. Lui rallenta l’entusiasmo e capisce. «Vuoi lasciarmi», le dice, intuitivo, pensa la ragazza, o forse qualche ‘amica’ gli ha spifferato qualcosa che non doveva spifferare. Vuole un incontro, parlarsi faccia a faccia, dirsi che non ci si ama più, che tutto quel sentimento reciproco non c’è più. Lui vorrebbe carezzarle i capelli lunghi che le arrivano alla vita, lei, tanto lui non la vede, fa un occhietto sprezzante che sa lo farebbe impazzire: lui ama i suoi occhi castani e allungati e le smorfie che è capace di fare con ‘quella faccetta da santarellina’, ma lei sa anche che lui non è uno di quelli che si fa lasciare facilmente. Quello è il tipo che se ti lascia lui va bene, altrimenti…scordatelo. Si danno appuntamento fra un’ora, poi Laura sente un tonfo in cucina e riattacca di corsa. Accanto al tavolo, affaccendato a farsi un bel panino di primo pomeriggio, c’è suo padre. «Non t’avevo sentito arrivare» – gli dice – «Anche io sono contento di vederti tesoro mio», risponde lui. La prende per la vita mentre lei s’avvicina a dargli un bacetto di bentornato. «Fra un’ora esco gli annuncia». «Ma fa buio», dice suo padre laconico e distratto dal bel panino che si è appena confezionato. «Fa niente, devo passare di corsa da Andrea che deve darmi degli appunti dell’università che ho perso». «Va bene, ceniamo insieme però…» dice suo padre.
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Giulia si chiedeva, a volte, dopo essersi tormentata per anni per la sua doppia natura amorevole e distante, capace d’essere sposa d’Orsino e amante di Rodrigo, cosa poteva aver mai fatto di buono per avere tanto dalla vita. Aveva forse sofferto per come la sua bellezza e la sua gioventù erano state offerte quale dote di scambio senza curarsi della sua anima, ed era per questo che la vita aveva ancora doni per lei? Guardando sempre dall’alto l’orizzonte e il futuro, sorvegliandoli in modo costante dalle terrazze del suo attuale castello, le sembra di trovare sempre buoni auspici. Dopo che Giovanni, l’amore più caro di sempre, l’aveva lasciata per l’aldilà, lei aveva trovato motivo di soddisfazione nelle faccende da sbrigare ogni giorno per via dei vasti terreni che prima lei e Giovanni amministravano assieme. Poi, dalla cornucopia del tempo, le erano arrivati altri doni preziosi. Proprio oggi Giulia interrogava la sua pietra. Quella, che pareva starsene squadrata e inanimata fra le pieghe delle sete dell’abito del giorno, verde e amaranto oggi, perché valorizza il suo incarnato restato perlaceo oltre i favori che il tempo concede alle altre belle; esalta la massa di capelli dai riflessi castani che ancora le cinge la vita e che cura con tinte naturali ed impacchi d’olivello spinoso. La pietra, invece, è la spia del suo cuore. È calda oggi, più del solito e allora Giulia è certa che Laura è in arrivo in visita con gli amati nipoti: l’adolescente Giulio e la piccola Lavinia, anima e cuore della loro nonna che a quarantasette anni cosa potrebbe desiderare di più per lei e per loro che non ospitarli nel giardino assolato di Carbognano che si anima della loro presenza leggiadra e tenera: delle membra elastiche di Giulio che ormai s’avvia ad essere un ragazzo e segue a cavallo suo padre Nicola come non avesse mai fatto altro da quando è nato. Della infinita tenerezza della piccola Lavinia di poco più d’un anno, gioia delle orecchie con i suoi primi ragionamenti fatti di suoni e risatine. Oggi riconosce che la sua vita ha saputo guardarla dall’alto: da ragazza non sapeva bene quando sarebbe arrivato ‘il tempo delle scelte di Giulia’, sue e solo sue, dove non ci sarebbero stati obblighi di padri e mariti. In questo l’ha aiutata sua figlia Laura e le opportunità che ha saputo immaginare da sola. Oggi sente dentro di sé una forza che… non sa spiegare. A cui è infinitamente grata.
***
Laura è arrivata in bicicletta all’appuntamento vicino il parchetto, a un chilometro da casa sua, che è quasi buio. D’altronde è inverno. L’auto dove Alessandro la ospita è calda e profuma di dopobarba buono, c’è una musica che suona bassa e lui le parla con la voce suadente: «Adesso tu vuoi più libertà, perché l’università va bene, tuo padre non ha capito niente della nostra storia e sai che presto prenderai altre strade da sola e allora un po’ mi stai scaricando, io sono quello più grande e per questo mi prendo tutte le colpe…»; «No Ale» – ribatte lei – «non voglio fare il discorso egoistico della ragazzina che fa come gli pare. Non hai colpe, che eri più grande lo sapevo già, solo che è difficile stare con qualcuno, come siamo io e te adesso, nella nostra vita, e non poter condividere quasi niente». «Ma come?» – ribatte lui – «condividiamo tutto, le girate in macchina, le domeniche da me, le serate…». «Sì, ma non può funzionare più di tanto. Condividere significa anche fare progetti insieme, vederti assieme agli amici miei e tuoi. Io non sapevo che sarebbe stato così, è stato bello ma non avevo idea. Viviamo mondi completamente diversi…». Mentre finisce di parlare lo sente singhiozzare piano, scuote un po’ la testa e singulta un po’… Lei lo sa che Ale non è uno che si scarica, lei sta cercando di spiegarsi ma non lo conosce così bene come pensava. È difficile fargli capire le cose, lui segue un pensiero tutto suo, simile a quelli da ‘adulto’ che si tiene tutti per sé, quando si fa taciturno e sembra guardarla ma lei s’accorge che pensa ad altro. Gli dice che deve andare e prima che lui faccia scattare il blocco delle portiere lei ha già aperto dalla parte sua e messo fuori una gamba. Fuori è completamente buio e silenzioso, non si sente nemmeno un cane abbaiare in lontananza e nonostante lei sia per metà fuori lui la trattiene per un braccio… «Non ti vedo domani?» Le domanda. «No Ale, se è meglio che non ci vediamo più cominciamo da stasera», lui le trattiene ancora il polso, stavolta un po’ forte…poi tutto d’un tratto le dice che se ne pentirà che è solo un stronzetta con la bocca che sa di latte, che prima o poi la smetterà di andarsene in giro libera e felice, che non vale niente… lei si divincola ancora un po’, lui è più forte, prova a farla riscivolare indietro sul sedile tentando di farle perdere la porzione di spazio esterno che ha conquistato…i sedili di tessuto liscio non aiutano, lei è magra e lui un uomo sportivo e la tira con forza…Solo che poi, dietro di loro, d’improvviso s’accendono i fari di un‘auto che non hanno nemmeno sentito arrivare, s’apre uno sportello ed è la voce di suo padre quella che urla: «Laura vieni che torniamo a casa, lascialo stare quello, vieni ti prego, è ora di cena e devo parlarti»…Lui ha fatto un salto per la sorpresa e le ha mollato un po’ il polso; lei ne approfitta, strattona la borsa e fa in tempo a dirgli quasi trionfante: «È mio padre!».
Appena salita in auto suo padre fa marcia indietro da dove è venuto e per la prima volta Laura lo paragona ad un indiano come quelli di Balla coi lupi, scaltro e silenzioso. Si allontanano dal parchetto avvicinandosi a casa. Laura piange silenziosa per la tensione e la paura. Suo padre spegne l’auto, scende, le apre lo sportello e le cinge la vita sentendo sul braccio il tocco dei lunghi bellissimi capelli scuri di sua figlia. Le dice di stare tranquilla, che non è successo niente. «Come hai fatto papà a capire?» «Eh, non lo so Lorì» – la chiama così quando la vede ancora piccola e indifesa nonostante i suoi vent’anni. «Ti voglio bene, papà, grazie per quello che hai fatto. Sai, con Alessandro…». «Dai Lorì, poi ne parliamo», dice suo padre con dolcezza.
S’avvicinano a casa un po’ complici, un po’ sempre padre e figlia. Un po’ come due che si vogliono bene, tanto, davvero, dalla prima volta che si sono visti. (Serena Grizi)
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