Venti gennaio
Due colpi, improvvisi. Un urto, qualcuno sta bussando, ma dentro di me. Dal buio nel buio. Perché a gennaio, alle 4,00, è buio fondo. Mi sveglio, ancora intontita, e non capisco. E subito lo scroscio, una sorgente che erompe, improvvisa.
Ho svegliato tuo padre. Non bastavano asciugamani, e sulla tappezzeria del lettone, incancellabile, c’è ancora la macchia ingiallita della tua acqua. Sono rimasta accucciata un bel po’, in ascolto. Mi avevano insegnato che si deve prima aspettare. Poi, se tutto va bene, arriva il dolore. Una fitta leggera. Stringo in mano l’orologio di sempre, il mio amico più caro, e lo guardo con ansia. Dopo venti minuti un’altra fitta, leggera. Tuo padre si è riaddormentato e non ho nessuna voglia di svegliarlo. Sorride, dietro un sogno. La sfida oggi è per noi due, soli, e mio il compito grande, a cui non ero preparata, di aprirti la porta della vita.
Un coltello. Ha attraversato i miei pensieri, ed è stato subito buio. Senza sogni.
Il risveglio, poi, senza parole. Forse dormo ancora, ma non ne sono sicura, perché le mie palpebre non si chiudono del tutto, e filtrano luce. Il tempo è lentissimo adesso, chiusa nel mio corpo, una farfalla senza ali. Solo gli occhi la mia porta sul mondo. E il mondo è questa camera grigia, senza tende.
Non cerco ricordi, loro chiedono di tornare; e non provo, come una volta, una fitta dolorosa per tutto il fardello di bene e di male che portano. Ma una specie di gratitudine perché ci sono, mi provano che sono vissuta. Gli ultimi anni no, di quelli non serbo traccia, intorpidita nel silenzio dei sensi, e lascio che mi diano rappresentazione di sé come una grande bolla di sapone, di cui riconosci i confini luccicanti ma il vuoto dentro. Nelle memoria ho trattenuto soltanto il tuo bacio della sera, quando passavi a salutarmi – un saluto veloce eh, perché è normale, sei giovane, hai da fare – e ti trotterellavo dietro fino alla porta, affannata, per non perdere quel bacio frettoloso. Quel piacere segretissimo, tenuto nascosto perché non mi togliessi anche quello, delle tue labbra giovani e fresche sulle mie guance avvizzite. E il senso di dolcezza che mi restava per tutta la notte.
Alle 6,00 i dolori sono diventati ormai regolari, sarà un parto naturale. Tuo padre mi convince finalmente a chiamare l’ostetrica (io non volevo ancora, stringevo nelle mani forte il MIO parto, la TUA nascita, non volevo estranei tra i piedi). L’ha scelta la nonna, in base ad un unico criterio, “deve avere una mano gentile”. Quando arriva, allibisce, cerca la valigia. Ma non c’è niente pronto, niente per te, nessuna tutina o coprifasce. Nudo come il Gesù dei miei ricordi di bambina, nel presepe dalle suore. Scaramantico. Per paura che tu potessi non averne mai bisogno.
Forse dormo, ma non ne sono certa. Perché mi sembra non di sognare, ma di vivere una vita parallela. Del resto già degli ultimi anni non ricordo più sogni. Le giornate passavano uguali e vuote, in un soffio. E il tempo si disperdeva così, indossare la vestaglia, fare il caffè, allacciare una scarpa. Mi infilavo la sera nel letto, da sola, con l’impressione di aver mancato anche quel giorno un compito importante – vivere – e precipitavo in un sonno nero senza sogni, da cui spesso mi svegliava il mio stesso affanno. Sono passati in fretta questi ultimi anni. Senza tuo padre e senza di te. Una famiglia di sangue per una vita di soli. Sono stati una sola, lunga, monotona giornata.
8,30: i dolori continuano ma sono ormai regolari e piuttosto frequenti. Però non mi lascio ancora convincere ad andare in clinica. Vorrei, segretamente, dentro di me, che tu nascessi qui, a benedire questa casa. Ma quei due insistono, mi richiamano alla realtà, una primipara, nemmeno giovanissima, non si può rischiare. Però mi sono scelta tutto, clinica, ginecologo, eccetera, per lasciarmi espropriare il meno possibile di questo momento.
11,00: la camera che mi assegnano è bianca e piena di luce. Mi sdraio un po’ sul letto e lo sguardo corre subito fuori dalla grande finestra a sinistra. Mi piace credere che sarà questa la prima cosa che vedrai del paese in cui ti ho chiamato: questo grande albero verde e pieno di foglie, benché sia gennaio, che gli uccelli abitano cinguettando, annusando già la primavera. La luce lo inonda e subito mi domando dove sarà il sole quando tu lo vedrai.
Non entra qui il sole, qualcuno ha rubato i colori. Ma anche il grigio è troppo per me, per le mie palpebre che non si chiudono più.
Non sono sola, c’è un altro letto, un’altra donna vicina, di cui sento la voce. E’ gentile, mi parla quando crede che nessuno possa sentirla – gli altri direbbero non vedi? non può risponderti – ma a lei va bene così, che importano le parole, sente che respiro e racconta … E quando passa Lucio a salutarmi, dal suo viso capisce, ed esce senza fare rumore.
Il fidanzatino dei miei 17 anni. Raccoglieva tutto allora, vecchie cornici scrostate, sedie traballanti, castoni di anelli che avevano perso la pietra. Scandagliava la soffitta, tra il ciarpame relegato lassù rubava a sua madre, per portare a me, tutto quello che gli sembrava ancora bello e riutilizzabile. Come un piccolo uccello industrioso raccoglieva frasche per costruire il nido che non avremmo mai avuto. Perché poi è arrivato tuo padre.
“Sono qui micia. E’ passato più di mezzo secolo e mi sembra ieri che venivo a prenderti a scuola. Destini incrociati. Le persone con le quali c’è stata un’intesa rimangono dentro di noi e ci sono compagne nella nostra vita interiore per tutto il nostro viaggio terreno”. Piange. Tossisce un po’. Mi passa la mano aperta, leggera, sul viso. Vorrei rispondergli. “Abbiamo spezzato insieme e diviso lo stesso pane come per un rito di antica alleanza. Abbiamo seduto di fronte per consumarlo, come due vecchi sposi. Abbiamo rivisto breve, come in uno specchio curvo, la traiettoria lunga dei giorni passati. E mi è rimasta, non so perché, una gran voglia di piangere, come per una promessa mancata”. La bocca è senza parole e gli occhi senza lacrime.
Resta seduto a lungo, la mano poggiata sulla coperta, in silenzio. Ma quando lo sento alzarsi e mi sfiora con un bacio la fronte, il cuore si strappa. Vorrei urlare e rotolare giù da questo letto, liberarmi da questa stanza, da questo corpo pesante, via con lui. Ritroverei le gambe di gazzella, sulle caviglie sottili sguscerei fuori dalla porta a vetri del reparto, e poi giù per le scale, chi potrebbe riconoscermi nel vestitino di lana bouclé color melanzana, a fantasia di rose rosa, che mi ha fatto confezionare la mamma? E sarei fuori, nell’aria fredda di gennaio che mi arrossa le guance, dietro di lui. Guarda sono qui, te lo aspettavi? Non è tardi per ricominciare, scappiamo adesso, prima che sia tardi, prima che ci trovino.
Ma non posso. Devo restare qui ad aspettarti. E tu non arrivi mai.
Sono stanca adesso, e il sole è già alto. Avvolge tutto il mio albero, il compagno silenzioso della nostra avventura. Ma tu non vuoi nascere. Alessandra non capisce. La sua mano esperta le dice che tutto è pronto. Ma tu non ne vuoi sapere. Resti lì rannicchiato nella mia pancia. Che fossi un carattere ostinato lo avevo già capito in questi mesi. E anche indipendente. Come me. Un cuore vagabondo. Senza troppe radici, ma con una grande valigia da portare sempre con te. Con i tuoi ricordi, le persone che segretamente, tenacemente ami. Primo fra tutti tuo padre.
E poi qualcuno decide, questo bambino adesso deve nascere. E dal mio bel letto, dal mio albero, dalla luce dolce del primo pomeriggio di inverno mi portano via. Non sarà il sole che vedrai quando ti risolverai a combattere per la tua vita, ma una lampada da 1000 watt.
Sono stanca adesso. E tu non arrivi. Non aver paura. Vedrai che viene, tuo figlio. L’hanno chiamato, hanno detto che viene. La donna accanto mi parla, mi passa sulle labbra un fazzoletto impregnato di un succo dolce, lo lascia gocciolare piano sulla lingua. Come quando ero bambina. La nonna mi portava con sé quando andava al rosario alle sei. E io ci andavo contenta. Perché poi, all’uscita dalla chiesa, cominciavo a tirarla, e lei già rideva, verso il mio obiettivo. Un distributore con una manovella per poche monetine mi schiudeva il mio piccolo paradiso: una minuscola fiaschetta di plastica con dentro un rosolio dolcissimo.
Ho sonno adesso, è ora di dormire. Dalle palpebre semichiuse il grigio sta sfumando nel nero. Sento i rumori della sera, passare nel corridoio i carrelli per la cena dei pazienti. Ma tra quelli ne percepisco un altro, un movimento diverso, aprirsi e richiudersi delle porte a vetri del reparto, un passo. Il cuore stanco sobbalza con un ultimo sforzo.
«Signora, suo figlio.»
Alessandra ti ha preso e ti porge verso di me. Non piangi, non ti agiti, te ne stai lì tranquillo in una camicina di seta che ha portato la zia, l’unica cosa che avevano da metterti.
Sento le tue labbra fresche del freddo di gennaio sulla mia guancia e ti vedo bene, con quei 1000 watt accesi. Ma forse no, mi sbaglio, è il sole.
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